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Nel leggendario Eldorado degli Egizi

“Lode a te, Amon-Ra, Signore di Karnak, principe di Tebe!(…) per amore del quale il deserto produce… argento, oro e veri lapislazzuli, aromi e incenso del paese dei Megiay…” Così canta l’inno ad Amon-Ra un componimento egizio di circa 3.400 anni fa. Ma dov’è questo favoloso paese dell’oro dei Megiay? Per trovarlo bisogna risalire il Nilo dal Mediterraneo, superare Aswan, Abu Simbel, le terre conosciute e i deserti pieni di incognite, le cateratte e il calore più cocente del globo. Solo alla fine ci troveremo nel leggendario paese dell’oro degli Egizi, la Nubia, l’ultima frontiera del Sahara.

Il regno dei faraoni neri

Il Nilo taglia il deserto formando una strettissima lunga oasi che da Khartoum, in Sudan, va fino al Cairo, lungo un percorso di circa 2.800 chilometri; di questi, 1.600 sono in Nubia. Proprio al centro di questa terra, nel cuore della grande “S” formata dal fiume, si trova l’antica capitale del Faraoni Neri: Napata. Da qui gli antichi sovrani, intorno all’800 a.C., partirono alla conquista dell’Egitto e vi fondarono la XXV dinastia, denominata appunto “la Dinastia dei Faraoni Neri”in quanto più scuri di pelle degli Egizi. Sempre qui si rifugiarono fuggendo all’invasione assira intorno al 650 a.C. E l’antica capitale diventò il cuore di un regno che sarebbe diventato il veicolo della cultura mediterranea in Africa sino al IV sec. d.C.

La montagna con testa di cobra

Uno spettacolo irreale si offre agli occhi di chi, attraversato il deserto del Bayuda, l’area racchiusa nella grande ansa del Nilo, arriva fino a Napata. Sulla piatta distesa ciottolosa si erge la Montagna Sacra di Amon, il Jebel Barkal. Pareti a picco, cima piatta e un enorme pinnacolo, che avrebbe dovuto diventare un’enorme testa di cobra, sembra un guardiano implacabile dell’area sacra.

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Il massiccio del Jebel Barkal. Gli Egizi vedevano nello sperone di roccia una testa di cobra (M. Levi).

Ai suoi piedi il complesso di templi dell’antica capitale, di cui la gran parte sono ancora sepolti sotto le sabbie. Il più imponente è senza dubbio il tempio di Amon, con i suoi arieti mutilati e l’altare in granito grigio ancora al suo posto al di là dei monconi di imponenti colonne. Ma il più affascinante, forse, è quello dedicato alla dea Hathor, metà costruito e metà scavato nelle viscere della montagna, col vestibolo dai pilastri sostenuti dal dio Bes, difforme e massiccio, e dalle pareti coperte da immagini sacre… come è facile immedesimarsi nel passato. Girando attorno alla montagna è lì che la sorpresa diventa ancora più irreale: una manciata di piramidi aguzze si slancia verso il cielo, nascendo da queste sabbie dorate. Ma è dalla cima piatta di questa montagna che possiamo abbracciare appieno lo spettacolo che ci circonda. Davanti a noi ciò che gli antichi Egizi e i Nubiani videro per millenni: il grande fiume Nilo, dono degli dei, che ancora oggi scorre placido con il suo corso sinuoso riflettendo la luce accecante del sole come il dorso di un serpente, perdendosi nell’orizzonte.  Guardando invece a Nord, lo sguardo affonda nel nulla, nello sterminato deserto nubiano disabitato e sconosciuto fino al confine con l’Egitto.

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Piramidi ai piedi del Jebel Barkal (M. Levi).

I custodi dell’oro

È proprio in quest’immensità che dopo due giorni mi sarei diretto per raggiungere la sconosciuta Berenice Pancrisia, la città dell’oro, nascosta tra le aspre e selvagge montagne del Sahara orientale dove vivono gli ultimi nomadi Beja, gli antichi Megiay degli Egizi.

Mangiatori di serpenti

Nomadi da millenni, i Beja abitano una delle aree più aride del globo e sono suddivisi in varie sottotribù: Ababdeh, Adendowa, Amarar, Bisharin, Beni Hamer. Già noti ai faraoni egizi e successivamente ai Tolomei con il nome di Cadoi aphiphagi, cioè “mangiatori di serpenti”. Erano chiamati Blemmi dai Romani, uomini misteriosi che Plinio il Vecchio descriveva senza testa, con occhi e bocca aperti in mezzo al petto. Gli scrittori arabi del medioevo li designavano con il nome di Buja, da cui l’attuale Beja. Per gli anglosassoni del XIX secolo divennero i temibili Fuzzy-Wuzzies (per i loro capelli crespi) mahadisti che riuscirono a sfondare il quadrato inglese a Khartoum e a conquistare la città difesa da Gordon Pascià.

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Nomadi del deserto nubiano (M. Levi).

Con il pugnale in mano

Per oltre 4.000 anni i Beja hanno percorso il caldo deserto e le colline desolate del Mar Rosso alla ricerca di pascoli per i loro cammelli e per le loro capre. Erano temuti per le scorrerie che effettuavano contro i ricchi insediamenti lungo il Nilo. Dopo il saccheggio si rifugiavano nel deserto di cui conoscevano tutti i meandri e i pozzi dove poter trovare acqua, anche i più nascosti. Di carattere chiuso e solitario i Beja non amano i grandi raggruppamenti. Gli insediamenti si compongono di poche capanne con struttura di rami piegati ad arco sui quali sono stese stuoie di paglia. Le donne, che indossano una sorta di sari coloratissimi, hanno il volto scoperto, civettuole treccine che incornicino il viso e il naso ornato con lamine d’oro. Gli uomini ostentano una folta capigliatura nera, lucida di grasso, una lunga jallabia (tipica veste) bianca e curiosi gilet grigi o neri. Non si separano mai dalle armi: la spada custodita in una guaina di cuoio ornata d’argento, il pugnale legato all’avambraccio sinistro per essere prontamente sguainato con la mano destra e l’atumar, il bastone da lancio simile a un boomerang, già utilizzato nell’Egitto faraonico per la caccia ai volatili e alle gazzelle.

Il pozzo perduto

A mezzogiorno del 15 aprile, nel deserto nubiano la temperatura supera spesso i 40°. Con i miei compagni di viaggio ci stavamo dirigendo verso Nord attraversando una pianura piatta e giallastra che si estende fino all’estremo orizzonte e sullo sfondo si intravede lontanissima, distorta dalle onde di calore, una catena di montagne azzurrine. Più tardi, quando le ombre della sera colorarono di viola la pianura sconfinata, i suoi vari contorni si precisarono. Dapprima ondulazioni basse e colline, poi vere e proprie montagne rocciose scure con picchi e pareti sgretolate dai fortissimi sbalzi di temperatura. Era una catena di montagne che correva parallela alla costa del Mar Rosso e che bloccava tutte le perturbazioni, rendendo così questa parte di deserto aridissima. Ci inoltrammo nella stretta valle di Wadi Khomareb cercando il pozzo segnato sulle vecchie carte topografiche inglesi degli anni ’40 del secolo scorso. Nonostante disponessimo di un Gps, non riuscivamo a trovarlo; evidentemente la precisione della vecchia carta lasciava un po’ a desiderare.

Lingua antica

Improvvisamente, dietro un gruppo di acacie vedemmo fuggire una capra. Un’esclamazione proruppe da tutti i miei compagni di auto: se c’è una capra, c’è il pastore e se c’è il pastore sicuramente sa dove si trova il pozzo. Infatti, poco dopo apparì da lontano la sagoma di un essere umano. Ci dirigemmo verso di lui, ma notammo una curiosa reazione: cercava di scappare. Mandai avanti allora il pick up condotto dal nostro autista Amir, spiegandogli di parlare in arabo per tranquillizzarlo. In effetti vidi finalmente il pick up fermo e Amir che parlava con il ragazzo nomade. Raggiunti i due chiesi subito di informarsi dove fosse il pozzo, ma la risposta di Amir fu: “Ma che lingua parlano questi? Non capisco quasi nulla!”. In effetti gli Adendowa, sottotribù dei Beja, parlano un antico dialetto che ha solo qualche parola di arabo. Abdallah, così si chiamava il giovane nomade, ci indicò di andare avanti. Lo facemmo e dopo poco vedemmo un insieme di alcune povere capanne di rami e stuoie.

Un tè nel deserto

Appena ci avvicinammo con l’automezzo, gli uomini ci vennero incontro con un sorriso smagliante: salaam aleikum(“la pace sia con te”), aleikum salaam (“con te sia la pace”), kullo tamam (“tutto bene”), al amdulillah (“tutto bene se Dio vuole”). I soliti convenevoli, necessari in questo paese prima di affrontare qualsiasi discorso vero e proprio. Nascosti dalle capanne alcune donne e dei ragazzini ci spiavano incuriositi, ma i più piccoli sembravano proprio terrorizzati. Con il grande senso di ospitalità nei confronti dei viandanti che contraddistingue tutti i nomadi sahariani, ci portarono una stuoia e ci invitarono a sederci, pronti a offrici il chai (“tè”). Gli anziani parlavano l’arabo più correttamente, e tramite Amir riuscimmo ad avviare un minimo di conversazione.

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Nomadi del deserto nubiano (M. Levi).

La paura dell’uomo bianco

Fu un pomeriggio straordinario e incredibile: stavamo parlando con uomini che vivevano come millenni fa. Eravamo in una situazione analoga a quella degli antichi prospettori di miniere egizie che esploravano il deserto e incontravano i Magiay. Non c’era un pezzo di plastica in giro, tutto era costruito semplicemente con i materiali che può offrire il deserto: legno, pelle, tessuti di lana di cammello, ossa di animali. Ci dissero che in quella valle a loro memoria non erano mai passati kawajia (“stranieri bianchi”) e che quindi era comprensibile che i ragazzini fossero terrorizzati. Non avevano mai visto un uomo bianco, e ci spiegarono che, quando i bambini fanno i capricci, li minacciano di farli portare via dall’uomo bianco…

Chi va piano…

Ci accompagnarono al pozzo e ci rifornimmo d’acqua utilizzando le loro attrezzature: una sacca di pelle e una corda di foglie intrecciate che doveva essere calata nel buco nero profondo una decina di metri. Ci chiesero di rimanere per la notte facendoci capire che avrebbero potuto uccidere una capra per la cena. Rifiutai gentilmente adducendo la necessità di dover partire per raggiungere in tempo la nostra meta. Mi sovvenne la risposta di un nomade Tuareg incontrato anni prima in Algeria. Alla mia spiegazione che per raggiungere con l’automezzo l’oasi di Ain Salah distante oltre 400 chilometri bastavano un paio di giorni (contro gli oltre 15 necessari a cammello), replicò: “E che cosa fai negli altri 13 giorni?”. Infatti, un proverbio tuareg recita: “Chi corre sempre, saprà sempre meno cose di colui che resta calmo e riflette”.

Un’offerta non gradita…

Ma rifiutai anche per altri motivi: per loro sarebbe stato un valore eccessivo uccidere una capra, ma il loro senso di ospitalità glielo imponeva. Per noi era invece assolutamente superfluo, dato che di cibo ne avevamo a sufficienza. E c’era anche un altro motivo. In un’occasione analoga, ospitato in un accampamento di Tuareg, mi fu offerto la parte più preziosa della capra essendo l’ospite di riguardo: l’occhio, che avrei dovuto estrarre con un dito direttamente dal globo oculare. Non mi sentivo proprio di ripetere quell’esperienza decisamente… forte.

Tombe e incisioni

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Bir Nurayet (M. Levi).

Proseguimmo il nostro viaggio esplorativo addentrandoci in una zona di aspre montagne, quelle che separano il deserto nubiano dal Mar Rosso. Si sviluppano in una catena lunga oltre 500 chilometri che corre parallela alla costa del Mar Rosso dall’Egitto al Sudan fino al confine con l’Eritrea, e alcune cime superano i 2.000 metri di altezza. Nella parte nord del Sudan, queste montagne sono caratterizzate da picchi di granito scuro che svettano verso il cielo. Proprio tra queste sconosciute montagne, circa otto anni fa una missione archeologica polacca ha scoperto una grande quantità di incisioni rupestri che dimostrano una presenza umana di migliaia di anni fa, probabilmente lungo una via carovaniera che dal Mar Rosso portava sul Nilo. La zona è caratterizzata da una montagna isolata a forma fallica che evidentemente era adorata sin dall’antichità. Infatti, oltre alle incisioni rupestri, si trovano numerose tombe preislamiche a “torta”, così chiamate per la loro forma, e anche alcuni cimiteri attuali.

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Incisioni rupestri a Bir Nurayet (M. Levi).

Berenice, finalmente!

Ci addentrammo sempre di più tra le montagne, percorrendo aspre vallate che a volte si rivelavano chiuse e ci costringevano spesso a ritornare sui nostri passi. Dopo diversi tentativi raggiungemmo finalmente la valle del Wadi Allaqi, e all’improvviso davanti a noi si ersero due imponenti costruzioni in pietra, erano due castelli diroccati circondati dai resti di decine di abitazioni.

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Berenice Pancrisia (M. Levi).

Eravamo a Berenice, la città citata da Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia al libro sesto, vanamente agognata dai cercatori di tesori. Di Berenice Pancrisia, la città delle miniere d’oro dei Tolomei, si favoleggiò per secoli, fino a farla entrare nella leggenda e a dubitare realmente della sua esistenza, anche perché si diceva che gli spiriti, suoi gelosi custodi, l’avrebbero fatta sparire dagli occhi di quanti fossero mai riusciti a trovarla.

Antiche macine x oro (1)
Antiche macine per l’oro (M. Levi).

Una leggenda? Sicuramente sì, ma come tutte le leggende forse con un fondo di verità. Probabilmente i forti riflessi degli implacabili raggi del sole prodotti sui cristalli di quarzo di cui sono ricche queste montagne, riusciva ad abbagliare chi vi fosse arrivato, impedendone la vista.

Olafur Eliasson come esperienza quantistica

Quando la porta si chiude dietro di me, recidendo ogni legame con il prima, affondo nell’oscurità di una notte senza stelle. Per un lungo istante cado nel nulla, inghiottito dal buio e dal silenzio. A correre in mio soccorso è la luce.

E luce fu

Siamo al terzo piano della Manica Lunga del Castello di Rivoli, in occasione della mostra Orizzonti Tremanti di Olafur Eliasson. Questo artista islandese-danese è noto per le sue opere che parlano il linguaggio della luce, degli specchi, dei colori. Come l’installazione The Weather Project alla Tate Modern di Londra, costituita da un sole artificiale che nel 2003 ha illuminato gli spazi della Turbine Hall di un’irreale luce gialla. O come il progetto Little Sun di una lampada a Led, nata dall’intenzione di portare la luce in aree sperdute dell’Africa e ora acquistabile su Amazon con l’idea di favorire lo sviluppo sociale in modo sostenibile. E proprio la sostenibilità è un altro tema particolarmente a cuore a Olafur Eliasson, che tra il 2014 e il 2018 ha portato a Parigi, a Londra, a Copenhagen, a Shanghai grandi blocchi di ghiaccio provenienti dagli iceberg artici per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti del cambiamento climatico. Attualmente, l’artista è in mostra anche a Palazzo Strozzi a Firenze.

Divenuto figura simbolo dell’incontro tra arte, tecnologia e scienza, Olafur Eliasson ha disegnato anche il trofeo del Breakthrough Prize, assegnato annualmente nei campi della fisica fondamentale, della matematica e delle scienze della vita.

Tutto questo evoca il nome dell’artista, e tutto questo aleggia nell’esperienza che ci apprestiamo a vivere.

Esperienza 1. Simmetria

Dopo un primo momento di distacco dal mondo e di spaesamento, mentre gli occhi ancora si abituano all’oscurità dell’ambiente, la luce che mi guida è quella di Navigation star for utopia, la prima opera che si incontra nel percorso: una figura geometrica in 3D illuminata dall’interno, che attraverso le sue tante facce trasparenti proietta forme e colori sulle pareti circostanti. Ricorda un astrolabio o una rosa dei venti, e sembra offrire una direzione ai visitatori appena entrati. Al centro dell’opera c’è però soprattutto un’idea chiave della fisica quantistica, quella di simmetria.

L’opera “Navigation star for utopia” in acciaio, legno, vetro colorato, ottone, vernice e luci Led apre la mostra di Olafur Eliasson al Castello di Rivoli (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista ; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Non importa esattamente di quale simmetria si tratti, qui la similitudine ha più un valore evocativo che descrittivo. Ma la simmetria è nel poliedro fantastico di Eliasson così come nella più intima struttura quantomeccanica del mondo. Nella moderna teoria dei campi, infatti, tutte le particelle elementari sono espressioni di particolari simmetrie all’interno di spazi astratti, lontani dalla nostra esperienza quotidiana ma capaci di descrivere con grande precisione il regno dell’ultrapiccolo.

Il Modello Standard delle particelle elementari è lo schema teorico più completo che abbiamo della realtà microscopica, ed è interamente basato sulle simmetrie. Il Modello Standard si basa però su tante simmetrie diverse. Nel mondo reale, manca l’analogo del poliedro fantastico di Eliasson, che permetta di orientarsi con l’ausilio di un’unica simmetria da cui le altre si possano derivare come geometrie proiettate sulle pareti. Non sono mancati tentativi in tal senso, cioè di giungere a una visione unificata della fisica, a un’unica simmetria più fondamentale di tutte le altre. Ci aveva provato anche Einstein. Ma tutti i tentativi sono finora falliti, resta solo la speranza che l’unificazione possa essere raggiunta in futuro.

Esperienza 2. Proiezione olografica

Le proiezioni di Navigation star for utopia rimandano a un altro concetto chiave della fisica teorica, il principio olografico. Quest’idea, nata una trentina d’anni fa, sta riscuotendo un crescente successo nell’ambito della fisica teorica pur essendo ancora altamente speculativa. L’idea fu avanzata per la prima volta dal premio Nobel olandese Gerard ’t Hooft, per poi essere applicata da Juan Maldacena alla Teoria delle stringhe, che descrive le particelle elementari come minuscole corde vibranti. Quando Maldacena ne parlò a un meeting di scienziati nel 1998, i partecipanti lo celebrarono intonando una canzone ispirata alla Macarena.

Caleidorama
Un’altra immagine prodotta da un caleidorama (A. Parlangeli).

Il principio olografico afferma che, in determinate condizioni, ciò che avviene in uno spazio fisico è scritto sulla superficie che lo racchiude. È come dire che una mela può essere completamente descritta dalla sua buccia, o che un pacco regalo è leggibile dalla carta che lo contiene. Questo è sorprendente, in quanto si può dimostrare che, in matematica, il numero di punti racchiusi all’interno di un solido geometrico 3D tradizionale, come un cubo o una sfera, è molto maggiore del numero di punti di una qualsiasi superficie (più precisamente, se si prova a mettere in corrispondenza ogni punto della superficie con un punto del volume, con un procedimento messo a punto dal matematico Georg Cantor a fine ’800, si trova sempre che gran parte dei punti del volume restano esclusi).

Il mistero dei buchi neri

Nonostante questo, ci sono diverse buone ragioni per cui, secondo i fisici, il principio olografico potrebbe essere valido. Consideriamo per esempio i buchi neri. Nella seconda metà del secolo scorso, il fisico Stephen Hawking si accorse che una proprietà termodinamica fondamentale di questi corpi celesti estremi, l’entropia, sembra essere proporzionale alla loro superficie. Tutto ciò che cade in un buco nero, infatti, lascerebbe una traccia sull’orizzonte degli eventi, cioè il limite ultimo oltre cui nulla di quello che viene inghiottito può tornare indietro, nemmeno la luce. Insomma, sulla superficie del buco nero, in linea di principio, si potrebbe leggere tutta la sua storia passata, e quindi tutto quello che contiene.

Come in un vecchio film

Come anticipato, il fisico Juan Maldacena ha applicato un principio simile a uno spazio astratto che rappresenta un modello stilizzato di universo. Si tratta, sia chiaro, di un universo del tutto diverso dal nostro. Il nostro universo è infatti infinito, o almeno si pensa che lo sia, e in ogni caso non si conosce nessuna superficie che lo delimiti. Maldacena ha invece utilizzato uno spazio detto “anti de Sitter”; e ha dimostrato che  tutto ciò che avviene al suo interno è equivalente a quello che avviene sulla sua superficie, ma con leggi fisiche diverse. La differenza principale è che nello spazio anti de Sitter 3D è presente la gravità, in quello 2D che lo circonda la gravità non c’è. Per il resto, il mondo in superficie può essere proiettato in 3D esattamente come, nei vecchi cinema, un film veniva proiettato dalla pellicola al grande schermo. Possiamo pensare al principio olografico come a un proiettore che da una superficie proietta l’universo. L’idea è interessante per i fisici, perché ormai da decenni stanno cercando una teoria capace di descrivere la gravità in termini quantistici, ma non ci riescono (la già citata teoria delle stringhe è uno dei tentativi in tal senso). La speranza allora è quella di trovare la soluzione sulla superficie, per proiettarla sul mondo reale. Per questo i colleghi di Maldacena, nella conferenza del 1998, gli hanno dedicato una canzone.

Esperienza 3. Osservabile e osservato

Tutto questo mi balena nella mente per un istante mentre osservo Navigation star for utopia. Penso alla simmetria e al principio olografico, di fronte alle luci e ai colori proiettati sulle pareti in quell’angolo della stanza. Se gli spunti terminassero qui, però, certamente non avrei una motivazione sufficiente a scrivere queste righe. Quello che mi spinge più di ogni cosa sono i sei caleidorami che si susseguono lungo il percorso nella Manica Lunga.

Come in un caleidoscopio

I caleidorami, lo ricordiamo, sono installazioni costruite appositamente per questa mostra, che immergono gli spettatori in un panorama costruito come un caleidoscopio. Si entra in una cupola costituita da specchi che riflettono lo spazio intorno e al tempo stesso moltiplicano le luci prodotte da appositi fasci luminosi che attraversano flussi o specchi d’acqua. Tutti i caleidorami sono diversi, e producono immagini diverse; ma si basano su questi elementi essenziali.

Entrare in un caleidorma può essere un’esperienza fortemente emozionale, pur senza distinguere il tripudio di fenomeni ottici che ivi ha luogo: rifrazione, riflessione, dispersione dei colori e tanto altro. Se ne potrebbe discutere all’infinito ma, anche qui, non è questo che ci interessa. Quello che conta sono un paio di considerazioni che ci riportano alla meccanica quantistica. La prima, forse meno rilevante, è quella che ci riporta al già discusso concetto di simmetria, in quanto le luci e le immagini stesse dello spettatore si moltiplicano all’infinito espandendo enormemente lo spazio percepito a chi si trova nel centro. E la simmetria cambia a seconda degli angoli che gli specchi formano tra loro.

Your power kaleidorama (Il tuo caleidorama potente) di Olafur Eliasson (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista ; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Tutto è indeterminato

La seconda considerazione, che ci porta al cuore della questione, riguarda il rapporto tra osservabile e osservato. Chiunque abbia studiato un po’ di meccanica quantistica sa infatti che questa relazione è al centro della visione quantistica del mondo, e in particolare del Principio di indeterminazione di Heisenberg. Questo principio, pubblicato dal fisico tedesco Werner Heisenberg nel 1927, asserisce che non si può conoscere con precisione arbitraria sia la posizione sia la velocità di una particella elementare; proprio perché nel misurare le proprietà di una particella ­­– cioè nel semplice atto di osservarla ­– ne perturbiamo lo stato, per cui quanto meglio ne conosciamo la posizione in un determinato istante, tanto meno ne conosciamo la velocità; e dunque la posizione in un istante futuro. Il principio di indeterminazione si può formulare in modo molto operativo: per osservare una particella, occorre illuminarla, quindi colpirla con fotoni (i quanti di luce) o altro. In questo modo, possiamo determinare il suo stato; ma sempre con una certa incertezza, proprio perché, colpendola con altre particelle (i fotoni o altro), la disturbiamo.

Più in generale, in meccanica quantistica, ogni misura che si effettua su una particella (tranne in casi particolari) ne altera lo stato. Ma proprio qui nasce un’insoddisfazione a livello concettuale e filosofico: perché deve esistere questa dicotomia tra osservato e osservatore? In altre parole, perché noi, in quanto osservatori, entriamo nella descrizione quantistica in modo diverso rispetto alle particelle che osserviamo? Non siamo tutti parte della stessa realtà?

Si è provato a rispondere in modo diverso a queste domande, ma una risposta definitiva non c’è.

Osservatori non neutrali

Qualcuno ha notato che nel passaggio dal microcosmo al macrocosmo, cioè dalle particelle indeterministiche alla realtà apparentemente deterministica alla quale siamo abituati, l’ambiente gioca un ruolo determinante, perché l’interazione tra innumerevoli entità quantistiche sarebbe talmente complessa da portare a una descrizione statistica di tipo diverso, più simile alle leggi della fisica classica (cioè non quantistica) a noi familiari. Qualcun altro ha notato che la particolarità di noi come osservatori è che siamo entità coscienti. Di certo, nel trovarmi in mezzo alle immagini riflesse dagli specchi dei caleidorami, in cui la mia presenza compare in maniera inscindibile dalle figure colorate che contemplo, mi sento parte dell’opera così come un osservatore che osservi una particella quantistica in movimento, e mi domando quanto quest’esperienza mi possa insegnare più in generale di quel complesso rapporto che c’è sempre e comunque tra me e la realtà di cui faccio parte e in cui agisco. Spesso ci piace pensarci al di fuori di ciò che guardiamo, soprattutto se ci arroghiamo il diritto di esprimere un giudizio. Queste opere ci ricordano che non è così. Noi siamo parte integrante della realtà, ci stiamo dentro come in un caleidorama, e anche se questa realtà non ci piace faremmo meglio a prenderne coscienza.

Rete di fluttuazioni

C’è di più. Al di là della nostra immagine riflessa, nei caleidorami prende forma in modo più sottile anche l’interazione tra noi e l’ambiente. Le figure che si susseguono nelle installazioni, infatti, come già detto sono generate da fasci di luce che passano attraverso prismi e strati d’acqua, per cui mutano in continuazione a causa delle lievissime fluttuazioni dei mezzi che attraversano. Queste fluttuazioni dipendono da innumerevoli fattori ambientali, non ultimo il modo in cui giunge dalla rete idrica il flusso d’acqua stesso. Ma dipendono anche da noi spettatori, e poco importa se siamo noi in persona con il nostro corpo, con il nostro respiro, oppure il nostro vicino che muove un passo per allontanarsi da noi esclamando “Ah!”, condizionato dalla nostra semplice presenza, generando con il piede e con la voce fiotti di vibrazioni che inondano l’aria e l’ambiente. E qui, dunque, noi e gli altri spettatori contribuiamo tutti all’opera in modo diretto e indiretto, attraverso la nostra interazione gli uni con gli altri e con l’ambiente. Diveniamo un tutt’uno con i caleidorami e con la stanza, e in questo ciascuno può provare un’emozione diversa.

Il fascino dell’autoreferenzialità

Ai matematici e agli artisti piace l’autoreferenzialità. Basti pensare agli autoritratti di Leonardo da Vinci e di Rembrant van Rijn, oppure all’incredibile Las Meninas di Diego Velázquez, oppure a un film come di Federico Fellini, che prende consistenza e forma mentre viene girato. Oppure ancora l’opera Seeing Reading (1979) di Joseph Kosuth, esposta al piano terra della Manica Lunga, che consiste in una scritta color cobalto in neon che asserisce: “This object, sentence, and work completes itself while what is read constructs what is seen“.

Pericoli logici

Nella logica bisogna prestare attenzione all’autoreferenzialità, perché crea paradossi; come nel caso dell’espressione “questa frase è falsa” (paradosso del mentitore). Oppure come nel caso dell’insieme di tutti gli insiemi che non contengono sé stessi (paradosso di Russell). Per questo, a lungo la logica ha cercato di rifuggire dall’autoreferenzialità. Oggi, però, l’atteggiamento è diverso, e si tende ad accogliere l’autoreferenzialità senza rinunciare a eliminare i paradossi. Tanto che perfino Kurt Gödel, per dimostrare i suoi teoremi di incompletezza – forse il punto più alto della logica di tutti i tempi –, si è basato su una riformulazione moderna del paradosso del mentitore.

Your memory of the kaleidorama
Your memory of the kaleidorama (Il tuo ricordo del caleidorama) di Olafur Eliasson (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Esperienza 4. Intrecciati nell’entanglement

L’entanglement è un fenomeno quantistico messo in evidenza per la prima volta da Albert Einstein in un articolo scritto con Boris Podolsky e Nathan Rosen nel 1935. Einstein, in realtà, voleva mettere in evidenza il lato paradossale di questo fenomeno, perché non digeriva la natura probabilistica della meccanica quantistica e cercava di metterne in luce la presunta incoerenza. Non ci riuscì mai davvero, ma riuscì a dimostrare che la realtà a livello microscopico si comporta in maniera davvero strana. L’entanglement è infatti una proprietà grazie alla quale due o più particelle si guardano, potremmo dire, come in uno specchio; per cui se se ne tocca una, alterandone lo stato, immediatamente anche l’altra ne risente.

Immaginiamo per esempio due particelle-trottole correlate, cioè legate da entanglement, che ruotino attorno allo stesso asse ma in senso inverso. Poi immaginiamo di separarle e di portarle ai lati opposti della Galassia. Quindi cambiamo l’asse di rotazione di una delle due… che cosa succederà all’altra? Se le particelle sono rimaste correlate, anche l’altra cambierà il suo asse, per continuare a ruotare in senso opposto all’altra. E il cambiamento sarà istantaneo, come se le due comunicassero tra loro rompendo il limite della velocità della luce. In realtà si può dimostrare che, nonostante questa proprietà, due osservatori che usino le due particelle per comunicare tra loro non potranno mai scambiarsi informazioni a velocità superiori a quella della luce. E quindi la relatività resta valida, senza contraddizioni.

L’entanglement è una proprietà che non ha analoghi nel mondo classico. Però, osservando le immagini di me e degli altri visitatori riflesse negli specchi dei calidorami non posso fare a meno di pensare alla relazione che attraverso questa esperienza si stabilisce tra me e loro. Siamo parte della stessa realtà, legati gli uni agli altri dalla compresenza in un’opera che ci include tutti nel prendere forma essa stessa.

Esperienza 5. Tutto è relazione

E arriviamo così all’ultimo punto, messo in evidenza dal fisico Carlo Rovelli nel suo ultimo libro, Helgoland (Adelphi). E cioè l’idea che, nella realtà di cui facciamo parte, quello che conta non sono tanto le cose, quanto le relazioni. Questo è un punto di vista detto “relazionale”, che nasce per risolvere la dicotomia tra osservatore e osservato di cui abbiamo detto in precedenza. Scrive Rovelli in Helgoland: «Pensiamo il mondo in termini di oggetti, cose, entità: un fotone, un gatto, un sasso, un orologio, un albero, un ragazzo, un paese, un arcobaleno, un pianeta, un ammasso di galassie… Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire l’uno sull’altro. È a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non agli oggetti isolati (…). Invece di vedere il mondo fisico come un insieme di oggetti con proprietà definite, la teoria dei quanti ci invita a vedere il mondo fisico come una rete di relazioni di cui gli oggetti sono i nodi». Dunque non esiste più il confine tra osservatore e realtà: quello che conta sono le interazioni, e tutto interagisce con tutto. Fino ad arrivare alla conclusione estrema, che verosimilmente troverebbe d’accordo Olafur Eliasson: «Non ci sono proprietà al di fuori delle interazioni».

Link e approfondimenti

L’intervista alla curatrice della mostra su Olafur Eliasson al Castello di Rivoli, Marcella Beccaria.
• Il sito ufficiale di Olafur Eliasson e quello della mostra Olafur Eliasson: Nel tuo tempo a Firenze.
• L’articolo di Josway sul paradosso dell’informazione.
• Alcune parole di Paul Dirac su matematica e bellezza.
Un articolo del New York Times sul principio olografico e la “Macarena” dedicata a Juan Maldacena.
• L’articolo sull’entanglement e sul libero arbitrio.
• Carlo Rovelli spiega l’interpretazione relazionale della meccanica quantistica attraverso l’opera dell’artista Cornelia Parker.
• Il libro Helgoland (Adelphi) di Carlo Rovelli.
• L’articolo sull’autorefenzialità di Furio Honsell.

 

Il meglio di Josway nel 2022

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Cari lettori,

nell’augurarvi un felice 2023, vorrei salutarvi facendo il punto sul 2022 appena trascorso.

Il suono della scienza

L’anno si è aperto con un post sulla sonificazione di Andrea Capozucca, Il suono nascosto della realtà, che offre una ricca rassegna di esempi in cui i dati sono tradotti in suoni per comprenderne più a fondo il significato. L’articolo è stato visualizzato 999 volte… spero dunque che si possa arrivare alle quattro cifre dopo questa mail. Sempre Andrea ha pubblicato, subito dopo, una ricca intervista in due puntate a Wanda Díaz-Merced, astronoma indicata da BBC come una delle 7 pioniere della scienza moderna. In seguito a questa intervista, Wanda è stata poi ospite del Festival della scienza di Fermo e del Festival della scienza di Genova.

La grande bellezza

Sempre a gennaio, Sandra Lucente ci ha accompagnato tra le geometrie di Castel del Monte (2.634 visualizzazioni), un luogo ricco di simboli e di significati, che come pochi altri stimola l’immaginazione. Giorgio Scozzafava, invece, ci ha fatto scoprire alcuni angoli di Roma, tra cui la Fontana dell’Acqua Paola dove sono state girate le prime scene del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

L’ultima foto di Venezia

Febbraio ci ha regalato una meravigliosa immagine di storni in volo, premiata dalla Nasa, e le indimenticabili emozioni dell’aurora boreale. Abbiamo raccontato con un fumetto dell’ex ingegnere statunitense Jorge Cham la sonda della Nasa Parker Solar Probe, il primo manufatto umano ad aver toccato l’atmosfera esterna del sole. Poi abbiamo incontrato il fotografo Mario Peliti, che ci ha raccontato come sta documentando gli ultimi respiri – ahimé – di Venezia. E sempre a Venezia abbiamo intervistato Anish Kapoor in occasione dell’apertura della sua duplice mostra, a Palazzo Manfrin e alle Gallerie dell’Accademia, in cui per la prima volta ha presentato opere realizzate in Vantablack.

Pi greco

Il 14 marzo, meglio noto ai matematici come 3.14 o “giorno di pi greco”, abbiamo immancabilmente riproposto il post di Furio Honsell sul numero trascendente più celebrato di tutti i tempi. E siamo stati in un monastero buddista per imparare i segreti della meditazione zen (curiosamente, è una tecnica di interesse per i manager, così come l’apnea)

Elon Musk, Donald Trump e la guerra dei social network

Ad aprile ci siamo proiettati, con il rover Perseverance, sulla superficie di Marte. Mentre, a maggio, Carlo Rovelli ci ha portato all’interno di un buco nero con un’inedita intervista sul paradosso dell’informazione. Sempre a maggio, in un post molto attuale su Elon Musk, Donald Trump e la guerra dei social network, Pietro Battiston ha toccato molti temi che ha approfondito in una serie di cinque puntate sulla scienza delle reti. Nei suoi post, Battiston ha parlato più volte di fake news; a novembre Massimo Polidoro ci ha svelato come smontarle, dialogando con i negazionisti.

In hotel, nel Metaverso

Ancora non vi basta? Siamo stati nel primo hotel del metaverso, nel museo del grande pennello Cinghiale, nei borghi più belli d’Italia, nel luogo più santo di Roma. E Maurizio Levi ci ha portato con i suoi ricordi e con le sue foto tra gli Himba della Namibia e tra le rovine di Berenice Pancrisia, il leggendario Eldorado degli Egizi.

Senza respiro

Nell’ultima parte dell’anno, abbiamo commentato il Nobel per la fisica di quest’anno, assegnato al complesso fenomeno dell’entanglement quantistico, che lo stesso Einstein aveva definito “spooky action at a distance”. Abbiamo incontrato David Quammen ­­– il celebrato autore di Spillover (Adelphi) ­che anni fa aveva profetizzato l’arrivo di una pandemia di un nuovo coronavirus proveniente dalla Cina – in occasione dell’uscita del suo nuovo libro Senza respiro (Adelphi), sull’origine e sull’evoluzione del Covid 19. E, in seguito a un recente esperimento che ha anche risvolti militari, abbiamo fatto il punto sulla fusione nucleare.

Arte, ottica e neuroscienze

Per il filone Arte&Scienza, siamo stati nel sito di Virgo, a Pisa, a visitare l’installazione di land art interattiva Frange di interferenza. In ascolto del cosmo. E siamo stati al Castello di Rivoli per la mostra Orizzonti tremanti di Olafur Eliasson, ricca di suggestioni e di spunti legati alle leggi dell’ottica e alle neuroscienze, di cui ci ha parlato la curatrice Marcella Beccaria.

La scienza di Dante

A fine anno abbiamo inaugurato anche una nuova sezione di Scienza&Letteratura, con un articolo di Italo Bischi sul programma di divulgazione scientifica di Dante Alighieri (sorprendentemente attuale!), impreziosito da un’illustrazione di Giorgia Gigì. Presto ne seguiranno altri sulla scienza nella Divina Commedia, il programma è già tracciato.

Addio, Stavros

L’anno si chiuderebbe qui nel migliore dei modi, proiettandoci in un futuro ricco di promesse. Purtroppo, non posso fare a meno di ricordare un amico che nei mesi scorsi ci ha lasciato, l’ex direttore dell’European Gravitational Observatory (Ego) di Pisa, la struttura che gestisce il rivelatore di onde gravitazionali Virgo. Ci lascia in eredità il suo ricco pensiero, in particolare sul rapporto tra arte e scienza, di cui ci resta una lunga intervista e un’interminabile quantità di iniziative che i suoi colleghi di Ego si stanno impegnando a portare a termine.

La gloria del leone

Vorrei però concludere con leggerezza, ironicamente potremmo dire “in gloria”, ricordando il post degli anni passati che più di tutti ha riscosso successo. Indovinate qual è? Posso solo svelare che, con le sue 7.584 visualizzazioni, fa davvero la parte del leone.

Buon anno a tutti!

 

Tutto quello che non vi hanno detto sulla fusione nucleare

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Recentemente si è parlato molto di fusione nucleare. Per la prima volta, infatti, in un laboratorio negli Stati Uniti è stata prodotta una reazione di fusione ha generato più energia di quanta ne avesse ricevuta dall’esterno per attivarsi, raggiungendo quella che in gergo tecnico si chiama ignition, o breakeven. Si tratta indubbiamente di un risultato storico, ma nella discussione pubblica non tutto, dalle motivazioni alle difficoltà tecniche nel realizzarla, è stato messo bene in evidenza. Ecco dunque una breve sintesi delle cose più importanti da sapere per chi è interessato (e, sia chiaro, tutti dovremmo esserlo perché si tratta del nostro futuro).

Che cosa è successo

Il 5 dicembre 2022, nella National Ignition Facility (Nif) dei Laboratori Nazionali Lawrence Livermore (Llnl), in California, una reazione di fusione ha generato 50% più energia di quanta ne abbia ricevuta dall’esterno per accendersi. La fusione è il fenomeno che avviene quando due nuclei atomici leggeri si uniscono – tecnicamente si dice che si “fondono” – per crearne uno con massa maggiore. Queste reazioni avvengono quotidianamente nelle stelle e forniscono loro l’energia per brillare. Nei laboratori, vengono studiate reazioni simili ma un po’ diverse, perché cambiano le condizioni ambientali (pressioni e temperature presenti nelle stelle sono difficili da replicare in laboratorio). Negli esperimenti in corso in tutto il pianeta, come combustibile si usano forme pesanti dell’idrogeno dette deuterio e trizio.

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L’interno della National Ignition Facility (Mif), in California (Nif).

Implicazioni militari

Per innescare la fusione, si possono usare diverse tecnologie. La National Ignition Facility usa 192 fasci laser che scaldano un cilindro d’oro cavo, al cui interno c’è il combustibile nucleare. Raggiunto dai laser, il cilindro emette raggi X che colpiscono il combustibile, innescando un’onda d’urto che attiva la fusione. Questa tecnica, in realtà, è stata sviluppata con una duplice finalità: da una parte la svolta energetica, dall’altra simulare le reazioni di fusione che avvengono all’interno dell’ordigno più devastante che l’umanità abbia prodotto, la bomba H (o bomba “a idrogeno”). Simulazioni che sono diventate di rilievo soprattutto in seguito ai trattati sulla messa al bando degli esperimenti nucleari. Da questo punto di vista, dunque, un successo degli Stati Uniti in questo campo non è privo di implicazioni geopolitiche.

Il progetto più grande? Iter

D’altra parte, gli stessi Stati Uniti partecipano anche a un grande progetto internazionale per la fusione, che si chiama Iter ed è a guida europea. Iter è in costruzione a Cadarache, nel Sud della Francia. Il suo cuore è un reattore a forma di ciambella detto Tokamak, al cui interno è intrappolato un plasma che supera i 100 milioni di gradi, 7 volte più che nel centro del Sole. Nel mondo ci sono diversi Tokamak più piccoli che contribuiscono al progetto di Iter. Uno di questi è Jet, in Gran Bretagna. Un progetto alternativo con una geometria più complessa è lo “stellarator”, come quello del reattore Wendelstein 7-X in Germania. Alla fine, il costo stimato per il reattore di Iter è di circa 20 miliardi di euro. Iter deve ancora dimostrare di poter produrre più energia di quella che usa: l’obiettivo è arrivare a 10 volte di più.

Il sito di costruzione di Iter a Cadarache, Francia (Iter).

I prossimi passi

Ci sono ancora moltissimi passi da fare prima che la fusione nucleare possa essere utilizzata a scopi pratici. Tornando ai laser della National Ignition Facility, elenchiamo i punti principali per dare un’idea delle sfide in corso (Iter ha altre sfide che qui non consideriamo):

1. Il vero breakeven

È vero che il 5 dicembre è stato raggiunto il breakeven, dato che 2 megajoule di energia (l’equivalente di un phon che va per un quarto d’ora circa) fornita dal laser sono stati trasformati in 3 megajoule. Però è anche vero che per generare quei 2 megajoule del laser sono stati necessari almeno 300 megajoule di energia elettrica e un apparato grande come un campo di calcio. Se vogliamo una fusione che risolva i problemi energetici del pianeta, è necessario avere un impianto più snello, ma soprattutto capace di generare davvero più energia di quanta ne consumi nel bilancio complessivo.

2. Operatività e costi

L’impulso laser che induce la reazione dura una frazione di secondo. E, ogni volta che si effettua un esperimento, gli specchi e gli strumenti nei pressi della zona in cui avviene la fusione si danneggiano e devono essere sostituiti. Attualmente, il reattore americano è in grado di funzionare al massimo tre volte al giorno. In futuro, per avere interesse pratico, dovrà farlo dieci volte al secondo. Più in generale, deve migliorare l’operatività e devono diminuire molto i costi.

3. Da calore a elettricità

Una delle grandi questioni (ed è vero anche per Iter) è come ricavare energia elettrica dal calore che si genera con le reazioni di fusione. Per risolvere questo problema, ci vorranno ancora decenni. E ci vorrà una nuova generazione di reattori, molto diversi da quelli odierni.

Il punto di arrivo

D’altra parte, ci sono voluti 70 anni per arrivare al risultato attuale. Potrebbero volercene altri 70 anni per risolvere tutti i problemi tecnici al vaglio di scienziati e ingegneri. Tutto dipenderà in maniera decisiva da noi, dalle nostre scelte, dalla volontà politica di farlo. Perché la strada che porta alla fusione è indubbiamente ancora lunga e costosa, mentre l’urgenza di fermare le emissioni di gas serra e il cambiamento climatico è pressante. Ma il punto di arrivo è degno della massima considerazione, visto che la fusione è un fonte di energia davvero inesauribile e pulita, che usa un combustibile ricavabile dall’acqua – dunque disponibile in tutto il pianeta, senza problemi geopolitici – e che produce scorie facilmente gestibili anche con la tecnologia attuale.

Come smontare le fake news

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“Il riscaldamento globale? Fluttuazioni climatiche naturali. I vaccini? Non servono, sono solo un business di big pharma. Il Covid? Non esiste, è una normale influenza…” Si potrebbe continuare a lungo a elencare le affermazioni di chi attacca la verità e nega ogni valore al consenso scientifico. Gli esempi sono ormai sempre più diffusi. Sui social, in tv, anche nelle nostre cerchie di amici, conoscenti e colleghi di lavoro i negazionisti sono ormai ovunque. E ragionare con loro sembra del tutto inutile, visto che fanno ricorso ad argomentazioni del tutto irrazionali… E invece ignorarli sarebbe un errore.

Rispondere per le rime

«Stanno aumentando le ricerche che dimostrano come la confutazione di idee sbagliate sia tutt’altro che futile», spiega Lee McIntyre, Research Fellow al Center for Philosphy and History of Science della Boston University (Usa), che abbiamo incontrato in un convegno negli Stati Uniti. «E la strategia più efficace è quella che mette in evidenza i difetti del ragionamento. Perché, chi rifiuta la scienza, che si tratti di vaccini, evoluzione, clima o Terra piatta, attinge sempre alle stesse tecniche di ragionamento imperfette».

5 errori di ragionamento

Sono cinque, in particolare, gli errori identificati dai fratelli Hoofnagle, due tra i principali studiosi del negazionismo:
1) raccogliere solo le prove che sembrano confermare le proprie idee e respingere tutte quelle che le confutano;
2) fare ampio affidamento alle teorie del complotto;
3) impegnarsi in ragionamenti illogici;
4) affidarsi a falsi esperti;
5) insistere sul fatto che la scienza debba essere perfetta.

Esempio vaccini

«Per esempio, a chi sostiene che i vaccini non sono perfettamente sicuri, si può rispondere che è irragionevole aspettarsi che i vaccini abbiano una sicurezza del 100%, quando nessun altro farmaco – nemmeno l’aspirina – può dare questo tipo di garanzie», suggerisce McIntyre. «Ora, alcuni negazionisti, come i No Vax o quelli che negano il riscaldamento climatico, potrebbero trovare offensivo l’accostamento con i terrapiattisti; ma la verità è che alla base di queste credenze c’è sempre qualche ideologia. In qualche caso è politica, altre religiosa… Ciò che capita è che quando una persona vede smentita dalla scienza una credenza a cui è tanto affezionata, preferisce rinunciare alla scienza». E non solo alla scienza.

Verità “alternative”

«L’ascesa di Donald Trump ha rappresentato una svolta, non solo per gli Stati Uniti, rispetto alla negazione dei fatti, di qualunque tipo», spiega McIntyre. «Lui e i suoi alleati nei media conservatori e nel Partito Repubblicano hanno sfruttato tipiche tecniche di disinformazione e le hanno applicate alla politica interna per respingere qualunque informazione scomoda rispetto ai propri obiettivi. La quantità di bugie, prima nella campagna elettorale e poi durante la presidenza, è stata così estesa e palese, per chi non fosse accecato dall’ideologia, che quasi i media non riuscivano a tenere il passo, una tattica di disinformazione nota come “l’idrante della menzogna”. E il successo della campagna con cui si è cercato di screditare l’esito delle elezioni presidenziali del 2020 rappresenta un punto di non ritorno, a partire dal quale Trump e i suoi sostenitori hanno solo aumentato la diffusione di falsità e distorsioni».

Post-verità

Si è parlato a questo proposito di epoca della post-verità, intendendo non tanto la grande diffusione di menzogne e disinformazione, che da sempre accompagnano il cammino dell’umanità, quanto il tentativo di insinuare “verità alternative” attraverso il controllo della comunicazione.

Manipolazione politica

«La post-verità è peggio che mentire» osserva McIntyre. «Mentendo almeno rispetti il tuo pubblico abbastanza da cercare di convincerlo che una cosa falsa è vera. Con la post-verità, non ti interessa davvero se la gente ci crede veramente. Non ti sforzi nemmeno di convincerla. Ma attraverso il controllo politico cerchi di imporre per legge che certe cose false siano credute vere».

Controllare le masse

Esempi di manipolazione della realtà si trovano già nel ventesimo secolo. La politologa Hannah Arendt, ricordava nel suo libro Le origini del totalitarismo come le falsità della Germania nazista e dell’Unione sovietica venivano usate per controllare la popolazione. Secondo Arendt, la sottomissione politica della realtà ha lo scopo di rendere le persone ciniche e indurle così a pensare che sia impossibile conoscere davvero la verità, spingendole ad arrendersi. In questo modo le persone diventano più facili da controllare.

Impegnarsi

«Credo che fosse esattamente questo ciò che Trump stava cercando di fare negli Stati Uniti», commenta McIntyre. «Per questo, non possiamo permetterci di ignorare i negazionisti. Si potranno rinnovare le regole con cui i social media diffondono e alimentano la diffusione di falsità e si potrà incrementare l’insegnamento dell’alfabetizzazione mediatica. Tutto giusto. Ma il primo passo per vincere la guerra alla verità è accettare il fatto che c’è un attacco in corso. Il secondo è la necessità di impegnarsi in prima persona per contrastare la disinformazione».

Lee McIntyre
Lee McIntyre.

Una questione di identità

Fino a qualche tempo fa, si riteneva che cercare di smentire una falsa credenza potesse avere come effetto non voluto quello di rafforzare le convinzioni di chi a quella credenza vuole credere. Un effetto che due ricercatori dell’Università di Exeter, in Inghilterra, chiamarono “effetto backfire”. Tuttavia, nuove ricerche, confermate anche dagli stessi studiosi inglesi, dimostrano che un simile effetto è molto più debole di quanto suggerito.

Istinto gregario

Si è visto, in effetti, che le persone cercano informazioni basate sui fatti, e anche quando queste informazioni contrastano con le loro posizioni ideologiche non sempre le respingono. L’irrigidimento di una persona che crede in qualcosa può verificarsi più facilmente se costei vede messe in discussione le idee che definiscono la sua visione del mondo e, dunque, la sua identità. «Se c’è in gioco l’identità di una persona, allora mettere in discussione le sue credenze può significare mettere in discussione l’immagine che questa persona ha di sé stessa. E qui bisogna andarci cauti»m avverte McIntyre. «Quando l’identità di una persona è così strettamente legata a certe sue convinzioni, cercare di farle cambiare idea è come cercare di convincere qualcuno a cambiare religione o il partito politico di riferimento. È un’impresa! E dunque occorre essere rispettosi. A volte, il vero motivo per cui le persone abbracciano credenze irrazionali e poi, anche di fronte ai fatti, si rifiutano di abbandonarle risiede nel fatto che ciò le fa sentire parte di un gruppo e le fa stare bene, le fa sentire speciali».

La forza della logica

Si tratta, dunque, di trovare il modo di contrastare il negazionismo scientifico senza però mettere in discussione l’identità di una persona. E come si fa? Non attaccando le credenze in sé, ma cercando di rendere evidente, in maniera rispettosa, l’illogicità di certe posizioni, in modo che il disincanto possa almeno iniziare da qualche parte.

Come si confuta un negazionista

Come funziona, dunque, nella pratica la confutazione dei negazionisti? «Quando ho partecipato alla Flat Earth International Conference nel 2018, ho scelto di non dire nulla il primo giorno, anche se è stato difficile tenere la bocca chiusa quando ho sentito dire che l’Antartide sarebbe un muro di ghiaccio che impedisce al mare di defluire dalla Terra», racconta McIntyre. «Il secondo giorno, ero felice di avere aspettato. Sapevo che se avessi offerto prove, avrebbero detto che lo spazio non esisteva e che gli scienziati erano bugiardi. Anche se non ho convinto nessun terrapiattista sul momento, ho imparato come indurli almeno ad ascoltare. Li ho lasciati parlare, poi ho continuato con le domande una volta che il dialogo era in corso. Invece di confutare le argomentazioni, ho chiesto: “Quali prove potrebbero farti cambiare idea?”. Se dicevano che servivano delle “evidenze”, ho chiesto perché le prove esistenti erano insufficienti. Se condividevano una teoria del complotto, chiedevo perché si fidavano delle prove che sostenevano quella teoria. In questo modo, e non limitandomi a elencare fatti e numeri, sono stato in grado di portarli a chiedersi perché non riuscivano a rispondere alle mie domande. È un modo per insinuare almeno il seme del dubbio».

Saper ascoltare

L’esperienza e la ricerca dimostrano infatti che non si può convincere chi nega la scienza portando solo argomentazioni scientifiche, dati e numeri, perché non è vero che chi non si fida della scienza sia solo poco informato. Spesso quella che manca è la fiducia. «E la fiducia va costruita, con pazienza, rispetto, empatia e connessioni interpersonali. Poiché ho passato il primo giorno ad ascoltare, anche i negazionisti più convinti alla fine erano interessati a ciò che avevo da dire», dice McIntyre. «Invece di cambiare argomento e affrontare conversazioni più facili, è meglio impegnarsi in uno scambio rispettoso. Se si dedica più tempo a fare domande che a offrire spiegazioni, è più probabile che le persone prestino attenzione alle spiegazioni che potremo offrire».

Battaglia ovunque

In quali contesti può valere la pena intraprendere questo tipo di scambi? «Ovunque si possano trovare negazionisti della scienza. Parlatene in fila dal farmacista. Fate volontariato, parlatene alla scuola dei vostri figli. Oppure, se siete abbastanza ambiziosi, unitevi a me alla prossima convention sulla Terra piatta».

Link e approfondimenti

• Il mini-corso diper riconoscere e contrastare le fake news: https://massimopolidorostudio.com/fakenews