L’ultima foto di Venezia

La Serenissima raccontata da un fotografo che da 16 anni ne sta raccogliendo le immagini, senza ombre e senza persone, per documentarne la scomparsa.

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L’ultima foto di Venezia

La Serenissima raccontata da un fotografo che da 16 anni ne sta raccogliendo le immagini, senza ombre e senza persone, per documentarne la scomparsa.

Tutti la conoscono per le grandi folle di turisti, le gondole, i negozi stipati di souvenir, la Biennale, il Film Festival, il carnevale con il volo della colombina, le immense navi da crociera a cospetto di San Todaro e del leone alato. Milioni di occhi hanno esplorato ogni angolo degli affollati percorsi guidati che dalla stazione portano a Rialto, poi a San Marco. Ma esiste anche una Venezia più intima, quasi nascosta, che si fa vedere solo al mattino presto e nei rari momenti in cui le masse arretrano, mostrando una bellezza apparentemente sospesa nel tempo. È questa la città che l’architetto e fotografo Mario Peliti si è messo a documentare in modo sistematico dal 2006, prima in pellicola e poi in digitale, con un progetto – Venice Urban Photo Project – che si riallaccia alle grandi campagne storiche di Charles Marville, Eugène Atget, Gabriele Basilico, John Davies.

Il progetto è cominciato nel 2006 e sarà concluso nel 2030 circa. Finora sono state scattate oltre 12 mila foto

Salvare la città

Paradossalmente, l’iniziativa di Peliti nasce oggi dall’esigenza di salvare la memoria di una città che si sta svuotando dei suoi abitanti, e dunque della sua identità più profonda.

In mostra

Il suo lavoro è stato esposto nel 2021 a Palazzo Grassi, in occasione dei 1.600 anni dalla fondazione convenzionale della città, con il titolo HyperVenezia. La mostra ha presentato una sintesi delle oltre 12 mila foto scattate finora. Il progetto è ancora in corso, e la sua conclusione è prevista per il 2030; ma è stato già firmato un accordo per la creazione di un fondo digitale – Venice Urban Photo Archive – presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (Iccd).

Un video sulla mostra a Palazzo Grassi.

L’intervista

Abbiamo intervistato Mario Peliti, per chiedergli di parlarci del progetto e di alcune delle sue foto, a sua scelta. A cominciare da quella in alto, in apertura, scattata al Fondaco dei Turchi.  

Questa del Fondaco di Turchi è forse una delle immagini del progetto in cui Venezia è più facilmente riconoscibile, con i suoi canali… Non sono molte le foto che ha scattato in cui si vede l’acqua. Perché?

Premetto che per me è abbastanza difficile descrivere le singole foto, in quanto il senso del lavoro che ho fatto è l’osservazione di ciò che vede il passante. È un progetto che vive di concatenazione, non tanto di foto singole. Però è vero che una delle cose che si vede di meno è l’acqua. Per due motivi: il primo è che una fotografia di architettura concepita in maniera classica tende ad abbassare l’orizzonte, e quindi privilegia l’altezza dell’edificio o l’articolazione delle facciate piuttosto che dare respiro al piano di calpestio; il secondo è alcuni luoghi della città, come il Canal Grande, richiedono tempo per definire bene come leggerli. Lo stesso vale per piazza San Marco, che mi comporta una soggezione enorme ogni volta che ci vado; un po’ perché è uno spazio che non entra facilmente in un’inquadratura, proprio per l’ampiezza della piazza, un po’ perché si prova pudore di fronte a certi luoghi che sono stati al centro di molti scatti nella storia della fotografia.

In questo caso, perché ha scelto questa inquadratura?

Nella foto si vede il Fondaco dei Turchi, la cui facciata è stata oggetto di un importante restauro ottocentesco. L’ho ripreso con un’inquadratura simile a quella che ha usato Luca Campigotto in un sua foto notturna.

È insolito vedere il Canal Grande senza barche…

Questo dipende dall’orario in cui è stata scattata la foto, erano le cinque del mattino. Le foto del progetto sono state intatti scattate tutte a luce costante, quindi in assenza di ombre, spesso all’alba o al tramonto, ma anche quando il cielo è coperto dalle nuvole.

 

SanMarco2
La base del campanile di San Marco, con la Loggetta del Sansovino. Sullo sfondo, a destra, l’omonima piazza (M. Peliti).

Già questo le consente di vedere Venezia in un modo diverso. Che sensazione prova in queste situazioni?

La Venezia che fotografo in queste circostanze è quella in cui s’imbatte chi esce a lavorare presto alla mattina. È la stessa che vedono certi pendolari, oppure gli addetti al trasporto delle lenzuola per gli alberghi. Il trasporto delle lenzuola è la prima attività di Venezia, perché deve aver luogo prima di colazione, altrimenti il trambusto di carrelli disturberebbe i turisti. Venezia è una città che io vivo come profondamente sola. Perché siamo abituati a pensarla affollata di persone; ma quelle persone non sono abitanti, sono turisti.

Potrebbe raccontarci la sua giornata tipo?

Dipende molto dalle situazioni. Per esempio, se devo andare a San Marco esco di casa alle tre e mezzo, massimo alle quattro, e prendo il vaporetto in modo da essere sul luogo alle cinque del mattina, prima dell’alba. Fotografo per 20 minuti e poi torno a casa. Se però il cielo è coperto, a volte, posso stare dieci ore ininterrotte in attività. Il problema a volte è l’umidità: a Venezia, anche se le temperature in sé non sono bassissime, con 2-3 °C gradi si sente molto freddo perché la temperatura percepita è molto più bassa.

E durante il lockdown è riuscito ad andare avanti?

Durnate il lockdown non ho scattato neanche una foto, perché ero a Roma, l’altra città in cui vivo, e sono rimasto bloccato lì.

Finora, quanti giorni di scatti ha effettuato?

Ho cominciato a fotografare nel 2006, e in pellicola ho fotografato fino al 2010. Poi ho ricominciato, dopo una pausa, nel 2013 in digitale. Negli ultimi anni ho fotografato fino a 90 giorni l’anno, che è tanto. Alla fine, mettendo tutto insieme, stimerei il tempo effettivo di scatto così: se avessi fotografato dalla mattina alla sera tutti i giorni ci avrei messo circa un anno e mezzo.

A che punto è il progetto? Ci sono le aree della città ancora da documentare?

Per concludere questa parte del progetto penso che ci vogliano ancora una decina d’anni. Non è tanto un problema di zone da coprire, perché più o meno la città è stata coperta tutta. Però, per esempio, le calli devono essere fotografate in verticale; ho cominciato 4-5 anni fa e ne ho fatto solo una parte. Fotografare in verticale è più noioso, perché le prospettive sono meno articolate. E poi le calli, quando sono strette, tendono ad assomigliarsi, perché in genere sono raccordi tra uno spazio e l’altro.

Questo è un aspetto. Poi ci sono alcune aree che mi mancano, come quelle del penitenziario. E ci sono alcune tematiche che vorrei approfondire, come quella degli spazi che sono vissuti socialmente e sono un’occasione di condivisione delle persone, dagli orti dei conventi ai vecchi oratori con i campi di calcio.

Dovendo riassumere, l’obiettivo del progetto qual è?

Creare la più grande documentazione organica di Venezia all’inizio del millennio, sapendo che forse tra 15 anni non ci saranno più i suoi abitanti. Io sono nato nel 1958 e la città aveva 150 mila abitanti. Oggi, dopo 64 anni, ne ha 50 mila. Nell’arco della mia vita, Venezia ha perso due terzi della popolazione. Questo aspetto, che riguarda tantissimi centri storici italiani, apparentemente non interessa a nessuno. Ma io voglio documentarlo.

 

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Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli è fisico (PhD) e giornalista, caporedattore del mensile Focus. Appassionato di scienza, tecnologia e innovazione, nel 2019 ha conseguito un Executive MBA presso il MIP/Politecnico di Milano. Ha scritto diversi libri, tra cui Uno spirito puro. Ennio De Giorgi, genio della matematica (Milella 2015, Springer 2019) e Viaggio all’interno di un buco nero (StreetLib, 2019). È stato curatore di La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli 2016) di Guido Tonelli, sulla scoperta del Bosone di Higgs; La musica nascosta dell’universo (Einaudi 2018) di Adalberto Giazotto, sulla scoperta delle onde gravitazionali ; Benvenuti nell'Antropocene (Mondadori, 2005) del premio Nobel Paul Crutzen, padre del termine "antropocene" .

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