Carlo Rovelli spiega: il paradosso dell’informazione dei buchi neri

Dove va a finire l’informazione di ciò che cade in un buco nero? Sopravvive, come vuole un principio cardine della fisica, oppure scompare con la materia oltre l’orizzonte degli eventi? Il fisico Carlo Rovelli spiega in che cosa consiste questo dilemma chiave per la nostra comprensione del cosmo. E propone una nuova strada per risolverlo.

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Carlo Rovelli spiega: il paradosso dell’informazione dei buchi neri

Dove va a finire l’informazione di ciò che cade in un buco nero? Sopravvive, come vuole un principio cardine della fisica, oppure scompare con la materia oltre l’orizzonte degli eventi? Il fisico Carlo Rovelli spiega in che cosa consiste questo dilemma chiave per la nostra comprensione del cosmo. E propone una nuova strada per risolverlo.

Un buco nero che abbia mangiato una tonnellata di spaghetti è uguale a un identico buco nero che abbia invece divorato una tonnellata di budino al cioccolato? La questione non è banale, è una delle più profonde della fisica contemporanea, e prende il nome di “paradosso dell’informazione”.  

Prologo

Prima di approfondire, torniamo alla domanda. Rispondere, a prima vista, è semplice. “Noi siamo quello che mangiamo”, diceva il filosofo Ludwig Feuerbach. Perché lo stesso non dovrebbe valere per i buchi neri? Ebbene, che si sia o no d’accordo con Feuerbach, tra noi e i buchi neri c’è una differenza abissale, e per fortuna. Ciascun essere umano è infatti unico, con la sua altezza, il suo peso, il colore degli occhi, quello dei capelli, per non parlare delle impronte digitali… E anche quando mangiamo qualcosa, se si va a indagare con attenzione, le tracce di ciò che ingeriamo si possono certamente ritrovare in noi e nell’ambiente circostante. Per i buchi neri non è così.

La Via Lattea con la recente foto di Sagittarius A*, il buco nero al suo centro, con i radiotelescopi dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA, foto crediti: ESO/José Francisco Salgado – josefrancisco.org, EHT Collaboration).

Calvi

“I buchi neri non hanno capelli”, diceva John Archibald Wheeler, un fisico noto per la sua abilità nel coniare termini e frasi memorabili; fu lui a ideare il termine “buco nero”. Quel che Wheeler intendeva con la sua espressione è che, nella Relatività Generale, i buchi neri sono descritti da tre soli parametri. La carica, lo spin e la massa. Lasciamo perdere la carica (tutti i buchi neri noti hanno carica nulla) e la rotazione (per semplicità assumiamo che sia nulla anch’essa, non cambia molto). La frase di Wheeler vuol dire che due buchi neri con la stessa massa sono perfettamente uguali, a prescindere dal modo in cui si sono formati o dalla materia che vi è caduta dentro. Un buco nero che abbia mangiato una tonnellata di spaghetti è indistinguibile da uno uguale che abbia mangiato una tonnellata di budino. I buchi neri non hanno capelli, perché i capelli implicherebbero una complessità somatica che i buchi neri semplicemente non hanno per come sono descritti dalla Relatività Generale di Einstein.

Il segreto della ricetta 

Se un buco nero mangia un piatto di spaghetti, la sua massa aumenta un po’, ma il suo aspetto non cambia. Gli spaghetti, per contro, spariscono nell’orizzonte degli eventi. Il problema, allora, è: dove va a finire l’informazione contenuta negli spaghetti o nel budino, quando entrano in un buco nero? Possibile che si perda ogni traccia degli ingredienti, della ricetta, degli stessi atomi di cui erano fatti?

CarloRovelli
Carlo Rovelli è uno dei fondatori della teoria Loop Quantum Gravity (C. Rovelli).

Forse sì

La relatività di Einstein dice di sì, che è possibile: è proprio quello che succede. D’altro canto, non è noto nessun altro processo fisico in cui l’informazione vada perduta del tutto come in questo caso. 

Forse no 

Il celebre fisico Stephen Hawking si appassionò alla questione e arrivò a convincersi, fino a scommettere con i colleghi, che un buco nero doveva per forza distruggere l’informazione di ciò che inghiottiva. Qualche anno dopo ammise di aver avuto torto e di aver perso la sconfitta. In realtà, il problema è ancora aperto e molto dibattuto, ma è anche molto complicato. 

L’intervista

Per questo abbiamo chiesto a Carlo Rovelli, docente all’Università di Aix-Marsiglia e noto autore di libri, di spiegarcerlo e di dirci quel che ne pensa.

Come nasce il paradosso dell’informazione?

I buchi neri sono oggetti che ci sono diventati familiari. Ce ne sono nel cielo a milioni, a miliardi. Li vediamo. Sono buchi nei quali vediamo cadere un’enorme quantità di materia. Allora la domanda è: dove va a finire tutto quello che casca dentro?

Negli Anni ’70 del secolo scorso, Stephen Hawking ha ottenuto un risultato che lo ha reso famoso: ha fatto vedere che i buchi neri sono caldi, nel senso che emettono radiazione (la “radiazione di Hawking”). Possiamo dire che irraggiano come una stufa, e nel farlo perdono energia e diventano sempre più piccoli. Questo è un fenomeno quantistico, che sembra in contraddizione con la teoria classica: la Relatività Generale, infatti, dice che niente può uscire da un buco nero, e che dunque un buco nero non può in alcun modo rimpicciolirsi. Però noi sappiamo che la Relatività Generale non è completa, c’è la meccanica quantistica. Allora Hawking ha fatto il calcolo quantistico e ha predetto questo fenomeno. La radiazione di Hawking non è mai stata osservata; ma il fenomeno è considerato molto credibile da tutti quelli che lavorano nel campo, perché è stato calcolato in molte maniere diverse e si arriva sempre allo stesso risultato.

Allora, se Hawking aveva ragione, un buco nero irradia, irradia, irradia… e diventa via via più piccolo. A un certo punto diventa piccolissimo, microscopico. Che cosa succede a questo punto? In molti pensavano che sparisse, come qualcosa che finisce di bruciare e a un certo punto non c’è più niente: tutta la sua energia è uscita sotto forma di radiazione. Ma così si aprono le porte al paradosso dell’informazione: e tutto quello che era entrato dov’è andato a finire? 

Si potrebbe dire “Be’, è uscito sotto forma di radiazione, la radiazione di Hawking”. E invece no, sarebbe troppo facile. Questa risposta non va bene, perché la radiazione di Hawking è una radiazione definita “termica”, cioè casuale. Non contiene informazione, perché non dipende da come sono entrate le cose. 

Sembrerebbe, allora, che l’informazione di ciò che entra in un buco nero venga effettivamente distrutta. Ma questo, per i fisici, è difficile da accettare. Perché?

Perché non c’è nessun fenomeno noto in natura che distrugga l’informazione. L’informazione c’è sempre, da qualche parte. Se si conosce lo stato attuale di un sistema, se ne può calcolare il futuro. E dal futuro si può calcolare il passato. In fisica, questa proprietà è chiamata unitarietà. Ma i buchi neri sembrano violare la conservazione dell’informazione: questo è il paradosso dell’informazione dei buchi neri.

E come se ne esce?

Ci sono una serie di risposte possibili, ma le più studiate oggi sono due, che corrispondono alle due principali teorie di gravità quantistica, la Teoria delle Stringhe e la Loop Quantum Gravity. 

Cominciamo dalla più semplice

L’ipotesi più semplice, e a mio giudizio anche la più plausibile, è che nello scenario appena descritto c’è qualcosa di falso. E che cos’è falso? L’idea che alla fine dell’evaporazione il buco nero scompaia. 

Che cosa potrebbe succedere, allora?

Se si guarda dall’esterno, quel che succede è che – dopo l’evaporazione – rimane a lungo un residuo (remnant) del buco nero. Cioè un oggettino piccolo, però stabile, che non evapora più e che pian piano – ci mette molto tempo – riemette sotto forma di radiazione o altro tutta l’informazione che aveva in precedenza ingerito. 

Questa radiazione è diversa dalla radiazione di Hawking?

Sì, è diversa perché è fredda, lenta, con poca energia. Perché ormai nel buco nero è rimasta pochissima energia. Però c’è tanta informazione, che pian piano esce. E questo è quello che si vede dall’esterno del buco nero.

Perché? Che cosa succede all’interno, invece?

Guardando all’interno si capisce meglio quel che succede. Perché l’interno di un buco nero non è piccolo, è grande. E questo è forse il punto più interessante di questa storia. Immaginiamo di fare un disegno della geometria di un buco nero, all’interno. Prendiamo per esempio il Sole, e immaginiamo di comprimerlo in un buco nero. L’orizzonte avrebbe un diametro dell’ordine di un chilometro. Visto da fuori è piccolo, ma dentro è enorme. È un po’ come un bottiglione: il suo collo può essere molto stretto, ma dentro è voluminoso. Con il passare del tempo, il buco nero inghiotte materia e diventa più grande. Lo si può immaginare come un tubo, che è grande come l’orizzonte degli eventi, ma che dentro diventa via via più lungo a mano a mano che il tempo passa. Quando il buco nero evapora, l’orizzonte si stringe fino a diventare sempre più piccolo. Ma l’enorme spazio al suo interno c’è ancora. 

Quando infine l’orizzonte diventa molto piccolo, smette di evaporare. Non scompare, ma si stabilizza nel suo stato minimo, con tutto il suo volume all’interno. E, piano piano, questo volume comincia a uscire. 

Dunque, una volta raggiunte le dimensioni minime il buco nero si trasforma in un buco bianco?

Sì, questo grande volume che piano piano esce è come un buco nero che si forma, solo che è visto al contrario nel tempo. Si tratta di un buco bianco, ed è una soluzione (ben conosciuta) delle equazioni della Relatività Generale classica di Einstein. Così, piano piano, tutto quello che c’era dentro esce. Il punto chiave di questo ragionamento è la stabilizzazione del residuo, perché è un fenomeno quantistico, così come la transizione da buco nero a buco bianco. Questo è un vero fenomeno di gravità quantistica, con tutte le incertezze e le difficoltà relative, perché siamo nell’ambito di una teoria che non conosciamo.

Quindi, questa è la prima possibile soluzione del paradosso dell’informazione. Qual è l’altra?

Un’altra possibilità, oggi molto studiata, nasce nell’ambito della Teoria delle Stringhe e si basa su una versione più colta e più sofisticata del paradosso dell’informazione. Il punto di partenza è il calcolo dell’entropia, che in un buco nero si può calcolare e risulta proporzionale all’area. I buchi neri grandi hanno quindi molta entropia, quelli piccoli ne hanno poca. Ora, l’entropia in genere è legata al numero di stati possibili di un sistema. Come scoprì Ludwig Boltzmann, in particolare, l’entropia conta in quanti stati può essere un sistema. Allora, quando un buco nero evapora e diventa più piccolo, anche la sua entropia diventa più piccola. Quindi ha meno stati possibili, e quindi non può codificare l’informazione. Quando il buco nero diventa piccolo, insomma, l’informazione deve essere già uscita. 

Che cosa non funziona, allora?

L’entropia, in realtà, determina il comportamento termodinamico. Ma per calcolarla non conta il numero di stati di un sistema, conta il numero di stati accessibili di un sistema. Quindi, nel caso dei buchi neri, qual è l’errore di questo ragionamento, secondo me? È che l’entropia non è data dal numero di stati possibili del buco nero, ma da quello di stati accessibili. Quindi, per l’entropia, gli stati che stanno dentro il buco nero non contano. Se entro, li vedo. Altrimenti vedo e conto solo gli stati sull’orizzonte. 

Quindi la discordia tra i due mondi è: l’entropia conta il numero totale degli stati del buco nero, o conta solo quelli accessibili dall’esterno, cioè quelli sull’orizzonte degli eventi?  

Quindi il dubbio è il seguente: quando il buco nero diventa piccolo, l’informazione è ancora dentro o no?

Esatto, questo è il punto. E se fosse ancora dentro avremmo la soluzione: c’è un residuo, e prima o poi l’informazione esce. Altrimenti deve uscire prima. E allora la sfida consiste nel capire come questo potrebbe succedere. 

L’informazione sarebbe nascosta in mezzo alla radiazione di Hawking, in qualche modo?

Esatto. L’idea, che risale al fisico nordamericano Don Page, è che la radiazione di Hawking in realtà non sia davvero termica, ma contenga informazione. 

Queste due ipotesi che ha passato in rassegna come sono legate alle teorie da cui traggono origine?

Sono legate ai due mondi, e lo sono intrinsecamente. Perché in Teoria delle Stringhe si studiano i sistemi dal di fuori. Gli sviluppi più recenti sono sotto l’influenza del principio olografico, per cui anche di un buco nero conta la superficie, e non bisogna chiedersi che cosa accada all’interno. Invece nella Loop Quantum Gravity il conto dell’entropia di un buco nero si fa in modo esplicito, ed è chiaro che riguarda solo la superficie; ma che all’interno c’è altra informazione. 

Torniamo alla Loop Quantum Gravity. Può spiegare più esplicitamente che cosa succede?

Succede questo: il buco nero si forma, evapora, diventa piccolissimo e in quel momento c’è una transizione di gravità quantistica, per cui l’orizzonte del buco nero – che è piccolino – diventa orizzonte di buco bianco. Immaginiamo che io cada in un buco nero, quando – dopo aver varcato l’orizzonte degli eventi – mi avvicino al centro, avviene una transizione quantistica, una specie di effetto tunnel, che mi proietta fuori da un buco bianco.

Quanto è piccolo il buco nero quando avviene questa transizione?

La domanda è centrata. È esattamente quello che da due anni stiamo cercando di calcolare. All’inizio pensavamo che potesse succedere anche quando un buco nero è macroscopico. Adesso sembra di no. Cioè – prendila cum grano salis – sono calcoli che stiamo facendo anche usando numericamente il computer. Ma ci stiamo convincendo che la transizione avviene solo quando il buco nero è molto molto piccolo. Molto piccolo vuoi dire della scala di Planck, che dal punto di vista della massa vuol dire un microgrammo, 0,1 microgrammi. Cioè, pesa quanto un capello.  

Dunque, avviene la transizione… e l’orizzonte di un buco bianco che cosa fa? Aumenta con il passare del tempo?

No, è stabile. Attenzione, perché da fuori un buco bianco e un buco nero sono la stessa cosa. L’esterno è uguale, è l’orizzonte che è diverso. Cioè un buco bianco è come un buco nero, una piccola massa che attira con la sua gravità. La differenza è che dentro un buco nero puoi cascare, invece dentro un buco bianco no. E da un buco bianco puoi uscire, mentre da un buco bianco no. 

Allora un buco bianco come si esaurisce?

Pian piano le cose escono e, quando è uscito tutto quello che c’è dentro, il buco bianco sparisce. Il fenomeno è uguale a quando una massa collassa e genera un buco nero. Se guardi indietro nel tempo, vedi il buco nero che a un certo punto sparisce perché esce tutto e non c’è più niente. Non c’è niente di misterioso in come sparisce un buco bianco: è una soluzione delle equazioni di Einstein.  

Quindi un buco bianco ha un orizzonte stabile ed emette fin quando sparisce.

Esatto.  

Tornando al paradosso dell’informazione, come lo si può mettere alla prova da un punto di vista sperimentale? Cioè, come si può capire se in un buco nero la natura conserva o distrugge l’informazione?

Buona domanda. Nessuno è ancora riuscito a trovare un modo per effettuare un test diretto. L’idea che l’informazione fosse veramente persa era un’ipotesi che lo stesso Stephen Hawking aveva suggerito fin dall’inizio, negli anni ’70. Poi ha cambiato idea. Ci sono state tante persone che hanno pensato a come poter vedere effetti osservabili; ma che io sappia non c’è nessuna ragionevole ipotesi di come farlo. Invece ci sono tanti sforzi di prendere questi due scenari – la Teoria delle Stringhe e la Loop Quantum Gravity – e di vedere se nell’astrofisica e nella cosmologia ci possa essere qualcosa che li supporti. 

A lei che cosa piacerebbe vedere? In questo periodo ci sono sempre più dati che arrivano dagli osservatori di onde gravitazionali.  

Su questo punto, ancora non ho visto niente di convincente. Un’ipotesi che a me sembra plausibile è, piuttosto, questa: che in realtà abbiamo già visto gli effetti della Loop Quantum Gravity, il problema è come riconoscerli. 

Ricordi i buchi neri? Li osserviamo e li riconosciamo dagli Anni ’60 del secolo scorso. Ma la radiazione radio di Sagittario – il centro della nostra galassia – si vede con una qualunque antenna messa in un giardino: è stata la prima cosa osservata nel radio, da Karl Jansky, nel 1933. Era un segnale da Sagittario, ma all’epoca nessuno lo sapeva. Ci sono voluti più di cinquant’anni per riconoscere che si trattava di un gigantesco buco nero. Quindi la difficoltà non è vedere l’effetto di quel buco nero, è riconoscerlo. 

Lo dico perché una possibilità che trovo affascinante, ma che al momento è solo un’ipotesi, è che nell’universo primordiale, pochi istanti dopo il Big Bang, siano nati tanti piccoli buchi neri (questa è un’idea condivisa da molti) che poi forse sono già diventati buchi bianchi. E quindi, in tal caso, l’universo dovrebbe essere pieno di buchini bianchi, piccolini. 

E come si manifesterebbero?

Sarebbero come una polvere, granellini di un microgrammo sparsi più o meno nell’universo, che interagiscono solo con la forza di gravità. In realtà nell’universo c’è qualcosa che si comporta in questo modo, ed è la materia oscura (che si osserva, ma di cui non si sa spiegare l’origine). Quindi un’ipotesi è che la materia oscura, almeno in parte, sia costituita proprio da questi buchi bianchi, che emettono piano, piano, piano… Ovviamente è un’ipotesi bellissima, perché spiegherebbe la materia oscura senza aggiungere nient’altro a quello che sappiamo già della fisica. Però c’è un problema: come la verifichiamo? Non lo so. C’è tanta gente che ci sta provando, ma non è facile identificare un oggetto di un microgrammo che interagisce solo gravitazionalmente, ed è quindi invisibile. Quindi forse i buchi bianchi sono già sotto il nostro naso, ma ancora non li riconosciamo. 

Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli è fisico (PhD) e giornalista, caporedattore del mensile Focus. Appassionato di scienza, tecnologia e innovazione, nel 2019 ha conseguito un Executive MBA presso il MIP/Politecnico di Milano. Ha scritto diversi libri, tra cui Uno spirito puro. Ennio De Giorgi, genio della matematica (Milella 2015, Springer 2019) e Viaggio all’interno di un buco nero (StreetLib, 2019). È stato curatore di La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli 2016) di Guido Tonelli, sulla scoperta del Bosone di Higgs; La musica nascosta dell’universo (Einaudi 2018) di Adalberto Giazotto, sulla scoperta delle onde gravitazionali ; Benvenuti nell'Antropocene (Mondadori, 2005) del premio Nobel Paul Crutzen, padre del termine "antropocene" .

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