Kapoor spiegato da Kapoor, a Venezia

Sangue, terra, pigmenti, ritualità… e le nuove opere in Vantablack. L’artista di origini indiane si racconta in occasione dell’apertura di una sua grande mostra a Venezia.

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Kapoor spiegato da Kapoor, a Venezia

Sangue, terra, pigmenti, ritualità… e le nuove opere in Vantablack. L’artista di origini indiane si racconta in occasione dell’apertura di una sua grande mostra a Venezia.

In occasione dell’apertura della 59ma Biennale d’Arte, è stata inaugurata a Venezia un’importante retrospettiva dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor. La mostra, curata dallo storico dell’arte olandese Taco Dibbits (direttore del Rijksmuseum di Amsterdam) sarà aperta fino al 9 ottobre ed è dislocata in due sedi, le Gallerie dell’Accademia a Dorsoduro e Palazzo Manfrin a Cannaregio.

Anish Kapoor con Homi K. Bhabha a Venezia (A. Parlangeli).

Il giorno dell’apertura della mostra, in una conferenza alle Gallerie dell’Accademia, Kapoor ha conversato con Homi K. Bhabha e con il pubblico, offrendo preziose chiavi di lettura sulle sue opere e sul suo modo di fare arte.

La terra

Un elemento particolarmente importante per Kapoor, per il suo significato simbolico e rituale, è la terra. «Sono stato in psicoanalisi per troppi anni, trenta o qualcosa del genere», racconta l’artista rievocando la sua infanzia. «Molti anni fa, sono andato in Israele con mio fratello – mio padre era indiano, mia madre ebrea irachena – e ho vissuto un periodo difficile, che mi ha portato a una sorta di esaurimento nervoso. Avevamo una zia, a Tel Aviv, che suggerì a mia madre di andare in India, prendere un po’ di terra– una terra speciale – e metterla sotto il mio letto, per farmi stare meglio. Torno a pensarci spesso. Per me, il primo materiale rituale è la terra. Il secondo è il sangue, e continuo a giocare passando dall’uno all’altro».

Anish Kapoor, Mother as a mountain (A. Parlangeli).

Sangue

Ci sono almeno tre cose da dire sul sangue.

Anish Kapoor, opera in mostra a Venezia (A. Parlangeli).

1. Pollock

«Pensiamo per un secondo a Jackson Pollock, che dipinge con la tecnica del dripping», continua Kapoor. «Che cosa sta facendo? Con che cosa sta dipingendo? La chiamiamo vernice. In realtà, per me, è sangue. (…) È un atto profondamente rituale. E poi Pollock prende il risultato di questo processo e ne fa una metamorfosi fondamentale, lo appende al muro. Pollock trasforma così il corpo in anima, lo traduce in un paesaggio cosmico. Wow».

Anish Kapoor, opera in mostra a Venezia (A. Parlangeli).

2. Freud

Ma il sangue è anche violenza, omicidio. «Freud ha scritto un libro molto bello, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, in cui propone prima di tutto che Mosè fosse un egiziano, il che è veramente bizzarro, meraviglioso per molti versi; propone anche che il monoteismo sia un’idea egiziana, ipotesi problematica ma interessante. E poi sostiene che lo stesso Mosè sia stato assassinato ritualmente, affinché la nuova religione, l’ebraismo, potesse essere adeguatamente impiantata nella popolazione. Quindi l’omicidio come origine: penso che sia l’idea più forte, perché lo facciamo ancora e ancora. La violenza è con noi… guardate che cosa accade oggi nel mondo. In modo più evidente, o meno evidente, la violenza emerge sempre».

Anish Kapoor, Shooting into the corner (A. Parlangeli).

E quando gli si chiede se i recenti fatti in Ucraina abbiano influenzato questa sua mostra, risponde: «Molte di queste opere risalgono a quindici anni fa, la violenza è sempre tra noi».

Anish Kapoor, stessa opera, altro punto di vista (A.Parlangeli).

3. Rosso

«Vorrei dire un’altra cosa sul sangue. È rosso», continua Kapoor. «Il rosso fa parte del mio lavoro da moltissimo tempo. È una costante, fin dall’inizio. In genere, la storia del colore è stata la storia del colore e della luce. Ma la mia piccola avventura mi ha portato nel colore e nell’oscurità. Il rosso crea un particolare tipo di oscurità, che è così fondamentale per me. È un colore della terra, scorre verso il basso, come il nero. Puoi metterlo a fuoco. I tuoi occhi lo possono vedere, a differenza del blu, in particolare il blu molto scuro (ne uso molto), che non puoi vedere, su cui non ti puoi concentrarti. Ma il rosso crea un’oscurità che per me è più scura di quella del nero o del blu. E questo perché non vediamo il colore solo con gli occhi, lo percepiamo psicologicamente, e lo vediamo carico di pericoli».

Anish Kapoor, Destierro (A. Parlangeli).

Mondi interiori

Altro tema importante di questa mostra, e per Kapoor, è quello dell’interiorità fisica e spirituale. «Sono giunto all’idea che un oggetto non trovi una descrizione esaustiva nella sua presenza e nella sua struttura fisica», spiega. «Come ha sottolineato Heidegger in modo molto bello, l’interno è più grande. Quando chiudo gli occhi, so che c’è in me qualcosa di più grande di ciò che costituisce la mia apparenza. Cerco di esprimere questa idea meglio che posso attraverso gli oggetti vuoti, attraverso il nero… Ma guardando all’interno non posso fare a meno di imbattermi in quel mondo viscerale – Che cosa c’è? Sangue? Carne? – che ci compone, e che mi sembra essenziale».

Anish Kapoor, opera in mostra a Palazzo Manfrin (A. Parlangeli).

Nero

Nella mostra di Venezia, sono esibite per la prima volta opere in Vantablack, un materiale a base di nanotubi di carbonio capace di assorbire il 99,95% della luce, molto più di quanto riescano a fare i pigmenti tradizionali. Che cosa rappresenta questo nero estremo per Anish Kapoor? «Provo a rispondere», ribatte l’artista nella sala delle Gallerie dell’Accademia. «Siamo qui, in queste Gallerie piene di un’arte incredibile. Un’arte che fa una cosa fondamentale: dà apparenza agli oggetti. Tradizionalmente, un pittore fa apparire le cose. La mia missione è esattamente l’opposto, riguarda la dissoluzione degli oggetti. Ci sono state almeno due grandi innovazioni nel Rinascimento. Una è la prospettiva, l’altra – che ritengo altrettanto importante – è la piega. La piega, il tessuto. Tutti i grandi dipinti rinascimentali, come questo (e indica un dipinto di Tintoretto alle sue spalle, nda) hanno infinite pieghe. È certamente un segno di esistenza, legato all’idea antica del corpo e della materia. Ma se metti il Vantablack su una piega, questa scompare. Non puoi vederla. Quindi a mio parere questo materiale, usato nel modo giusto, è al di là dell’essere. Mi ricollego al pittore ucraino Kazimir Malevich, che dipinse il Quadrato nero. Per lui innanzitutto questo quadro era un’icona, e il quadrato nero era un oggetto a quattro dimensioni. Tre dimensioni sono quelle spaziali che conosciamo, l’altra è suprematista, spirituale.

Un quadro di Kapoor in una sala delle Gallerie dell’Accademia (A. Parlangeli).

Ovviamente tutta l’arte è illusionistica, non possiamo farci niente. È un trucco. Questo è il gioco dell’artista. L’arte è finzione (fiction). E non è forse questa finzione portatrice di una verità più profonda di questa cosa che chiamiamo realtà?

Anish Kapoor, opera in Vantablack (A. Parlangeli).

Il vuoto

Resta un punto da affrontare, essenziale nelle opere di Kapoor. Il vuoto, che ritroviamo nei molti buchi realizzati dall’artista (in uno è perfino caduta una persona), ma anche in tante altre opere come quelle con il Vantablack. Kapoor fa cenno a questa tematica, nel corso dell’incontro; ma a fornire una chiave di lettura dei cosiddetti void works è soprattutto il suo amico Homi Bhabha: «Ritengo che siano vuoto (void) anche i lavori con gli specchi», chiosa il filosofo. «Non sono semplicemente opere che riflettono la luce. Le persone a volte si divertono di fronte alle proprie immagini distorte come se fossero in un selfie. Ma non è questo il punto. Il punto è che un void work non è un’opera vuota. Il vuoto contiene. E ci pone di fronte a domande come “Chi sono io?”, “Che cosa sono”?».

Anish Kapoor, specchio concavo a Palazzo Manfrin (A. Parlangeli).

Così il vuoto si riempie anche di significati, ponendoci di fronte innanzitutto al rapporto tra noi stessi e l’opera d’arte.

Sky mirror, retro dell’installazione (A. Parlangeli).

Buddismo zen

Il tema del vuoto ci porta a un altro aspetto importante per Kapoor, il buddismo zen, e in particolare la meditazione seduta (zazen). «Ho praticato il buddismo zen a lungo», rivela l’artista, «per 25-30 anni. Seduto. Che dire di questo? Nient’altro che banalità. Ma sedere davvero significa osservare e lasciare andare. Guardare oltre quello che si pensa, quello che si sa. E mi domando se persino la mia ossessione per il non oggetto, se si vuole con l’oggetto oscuro, interiore, perfino vuoto (void) provenga dalla meditazione seduta».

Pregnant white within me
Anish Kapoor, Pregnant white within me (A. Parlangeli).

Ma… che significa?

Per concludere, arriviamo alla questione che in tanti si pongono di fronte all’arte moderna: che cosa vuol dire? Kapoor, riguardo alle sue opere, risponde così: «Non cerco di creare un significato, ma di lasciare che il significato emerga. Siamo noi che riempiamo di significato un’opera, che ci piaccia o no. A mio parere, una grande opera d’arte lascia questo spazio aperto. Pensiamo a La tempesta di Giorgione e all’eterno dibattito su che cosa rappresenti davvero quel quadro. Viviamo in un mondo di non oggetti. Il mio compito è di disimparare (de-school myself), e poi permettere alle cose di emergere».

Anish Kapoor, Death of the artist, in mostra alle Gallerie dell’Accademia (A. Parlangeli).

(I virgolettati sono la traduzione più fedele possibile di frammenti di discorso, e di domande dirette, liberamente riorganizzati ai fini della realizzazione dell’articolo).

Link e approfondimenti

• Il sito della mostra di Kapoor Gallerie dell’Accademia.
Un breve video che mette in evidenza come appare un’opera 3D in Vantablack.
Il materiale più nero che esista, sviluppato dall’artista Diemut Strebe al MIT di Boston.
• Il filone dedicato al nero su Josway.

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