Le radici comuni di arte e scienza

Tra miti, metafore, ragnatele, missioni spaziali, luci, suoni, onde gravitazionali e ombre impossibili, intervista a Stavros Katsanevas, direttore dell'European Gravitational Observatory. Un punto di vista originale e appassionato su arte, filosofia e scienza.

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Le radici comuni di arte e scienza

Tra miti, metafore, ragnatele, missioni spaziali, luci, suoni, onde gravitazionali e ombre impossibili, intervista a Stavros Katsanevas, direttore dell'European Gravitational Observatory. Un punto di vista originale e appassionato su arte, filosofia e scienza.

Sarà forse per le sue origini greche, che lo legano alle radici comuni del mito, della letteratura e della scienza; Stavros Katsanevas ama citare Dante, il poeta che meglio di chiunque altro ha saputo fondere insieme questi tre elementi nella sua Commedia. E così la voce emozionata che giunge via Zoom ne recita con accento straniero le ultime terzine: “Qual è ’l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: / veder voleva come si convenne  / l’imago al cerchio e come vi s’indova (…)”.

Stavros Katsanevas, docente classe exceptionnelle alla Université Paris VII Denis Diderot e direttore dell’European Gravitational Observatory, è uno scienziato che ha dedicato la vita allo studio delle particelle elementari e dei raggi cosmici in centri di ricerca come il Cern di Ginevra e il Fermilab di Chicago. Appassionato di filosofia e arte, coordina il gruppo Arte e Scienza Univers 2.0 della Fondazione Daniel&Nina Carasso. Memorabili le sue collaborazioni con l’artista argentino Tomás Saraceno, per esempio, in occasione dell’installazione On Air (v. foto sotto) e del concerto-spettacolo How to hear the universe in a spider/web: A live concert for/by invertebrate rights (Roma, capodanno 2021). 

Lo abbiamo incontrato per chiedergli di parlarci della sua esperienza, dei rapporti tra arte e scienza e delle prossime iniziative che ha in programma.

On Air
Installazione Algo-r(h)i(y)thms di Tomás Saraceno, nell’ambito dell’esposizione On Air al Palais de Tokyo di Parigi, nel 2018, curatrice Rebecca Lamarche-Vadel (Cortesia dell’artista, fotografia di Andrea Rossetti).

Che importanza hanno avuto le tue origini greche nella tua formazione e nella tua visione del mondo?

Certamente hanno avuto molta importanza, a cominciare dalla nozione di cosmo. Quando eravamo piccoli, a scuola, il nostro comportamento poteva essere classificato come cosmico o acosmico, cioè in armonia o in contrasto con il cosmo. E questa è una nozione tipicamente greca. Ma la parola “cosmo” ha una straordinaria pluralità di significati. Il filosofo Kostas Papaioannou ha detto: “Cosmo vuol dire al tempo stesso adornamento e splendore generale, universo o la totalità degli esseri viventi e costituzione politica basata sulla legge; un principio di ordine e armonia che regola le relazioni tra entità così come tra gli elementi di ciascuna entità; virtù o immanenza entro ciascun essere, che gli permettono di diventare ciò che è e di mantenersi tale”.  

“Quando eravamo piccoli, a scuola, il nostro comportamento poteva essere classificato come in armonia o in contrasto con il cosmo”

È interessante notare che la parola cosmos appare per la prima volta nell’Iliade, quando Era si dispone a sedurre Zeus per salvare i greci dai troiani. C’è una descrizione molto bella, di venti righe, su come la dea si adorna. Dunque, in origine, il significato della parola cosmos era legato alla cosmetica. Ricordo una cena a Stanford, quando il cosmologo Andrei Linde si lamentava che a volte la gente lo chiamava “cosmetologo”; quando gli ho detto che avevano parzialmente ragione, citando l’Iliade, ha ribattuto “ho sempre pensato che la cosmologia fosse sexy, ora capisco perché”.

Secondo me, poi, non è un caso che la scienza sia nata nella Grecia antica. Gli dei greci sono diversi dai personaggi della Bibbia: non vogliono dare lezioni etiche e sociali, sono più simili a forze della natura, e c’è un’idea di relazione tra la bellezza del mondo e la capacità di capirlo. Per certi aspetti, possiamo dire che Zeus è “multimessaggero”, un termine che si usa per definire la recente astronomia che si basa sull’osservazione di particelle di natura diversa. Allo stesso modo, nella mitologia greca, spesso Zeus comunica per mezzo di messaggeri come gli uccelli, il dio Hermes, la dea Iris (l’arcobaleno), il fulmine. Tutto questo è molto vicino alla fisica.

Che cos’è l’arte, per te?

Nella storia dell’uomo, all’origine c’era il mito. Poi è stata creata la scienza. E quel che fa l’arte, da sempre, è unire questi due elementi. Unire la nostra parte razionale con quella emotiva. È questo che mi affascina dell’arte: è la componente emotiva della comprensione del cosmo.

Ma c’è di più. Il mito è metafora, e la metafora è anche nella scienza (v. più avanti, ndj). È quel che rimane nella scienza del mito. Così ci muoviamo nel mondo: abbiamo le metafore, abbiamo le emozioni, abbiamo la ragione, abbiamo la parola (il lógos). E tutte queste componenti comunicano tra loro.

Quando hai cominciato a interessarti all’arte contemporanea?

Quando sono andato a studiare a Parigi, subito dopo la dittatura dei colonnelli, nel 1974. Lì ho incontrato il critico d’arte Jean Clair (1940-), che organizzò una mostra chiamata Les Machines Célibataires (1975). Fu lui a farmi notare che molte idee scientifiche legate alla rivoluzione industriale, come quelle di energia e di entropia, permeavano anche l’arte, e come le due componenti comunicassero.

Sempre a Parigi ho incontrato l’opera di Michel Serres (1930-2019), un filosofo che mi ha influenzato molto e che ho seguito per tutta la vita, anche se purtroppo sono entrato in relazione con lui poco prima della sua morte. Era un uomo che ha cercato di collocarsi esattamente tra le due sfere, quella dell’arte e quella della scienza.

Hai mai partecipato alla realizzazione di un’opera d’arte in prima persona?

Nel 2009 ero vicedirettore del National Institute of Nuclear and Particle Physics del CNRS, e pensai di organizzare qualcosa perché era l’anno dell’astronomia. Pensai allora di far illuminare la Tour Eiffel ogni volta che veniva colpita dai raggi cosmici, in onore di un celebre esperimento effettuato nel 1909 da Theodor Wulf (1868 – 1946). Tuttavia, non fu possibile realizzare il progetto sulla Torre Eiffel, dunque lo facemmo sulla Tour Montparnasse. Lì per lì ne fui molto soddisfatto, ma poi chiesi ad alcuni amici che cosa ne pensassero, e le reazioni non furono entusiastiche. Il motivo me lo svelò un amico gallerista, Jérôme Poggi, alcuni anni dopo: «Il problema è che hai cercato di illustrare un fenomeno fisico», mi disse. «Ma l’arte non è l’illustrazione della scienza, è qualcosa di diverso». Quella frase mi colpì, e ne ho trovato conferma in un’osservazione analoga di Leonardo da Vinci, secondo cui l’arte, ai suoi tempi, doveva smettere di sforzarsi di illustrare la Bibbia, per dedicarsi invece alla creatività delle forme.

Squaring
Stavros Katsanevas di fronte all’opera “Squaring the circle” di Attila Csörgő, Parigi 7 gennaio 2015 (S. Katsanevas).

Sempre Poggi, in un’altra occasione, mi presentò Attila Csörgő (1965-), e dall’interazione con questo artista è nata un’opera che trovo straordinaria, Squaring the circle (“La quadratura del cerchio”). Si tratta di una sorgente che illumina un disco, proiettando su un piano sottostante un’ombra a forma di quadrato. Sembra impossibile, ma Csörgő ci è riuscito grazie a un gioco di specchi che ha dell’incredibile. Mi ha detto che ha avuto l’intuizione mentre faceva il bagno, come Archimede.

Che cosa ti affascina di più dell’arte, e degli artisti?

Frank Oppenheimer, il fratello del “padre” della bomba atomica, disse: “Gli artisti e gli scienziati sono gli osservatori del mondo”. Sono quelli che notano cose che agli altri sfuggono. Infatti, ciò che mi affascina di più dell’arte è proprio la capacità di far notare qualcosa. Questo la accomuna a quanto facciamo anche noi in campo scientifico nei momenti più creativi.

Qual è il ruolo della tecnologia?

La tecnologia è molto utile, ma spesso la vedo più come uno strumento di progettazione che come un modo per andare più a fondo nella comprensione. Così come l’arte non deve essere un’illustrazione della scienza, la scienza e la tecnologia non devono essere un mero strumento per l’arte.

Pensi che l’arte possa influenzare la scienza?

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La Terra (Earthrise) ripresa dall’astronauta William Anders della missione Apollo 8 il 24 dicembre 1968. È ritenuta una delle foto di maggiore impatto della storia.

Penso di sì. Consideriamo la corsa allo spazio durante la Guerra Fredda. Da una parte c’era Sergei Korolev, il padre dei razzi sovietici, che faceva parte del movimento artistico dei cosmisti. Dall’altra Frank Malina, il primo direttore del Jefferson Lab negli Stati Uniti, che era un’artista acusmatico. Entrambi cercavano un modo per lasciare questo mondo pieno di problemi e andare nello spazio. Ed entrambi, in vita, sono rimasti nell’ombra per ragioni di riservatezza militare (Malina fu perfino perseguitato durante il maccartismo). Ma i loro sforzi ci hanno offerto immagini di cui nemmeno sospettavamo l’esistenza, come la Terra che sorge nello spazio (earthrise): un’immagine che ha cambiato tutto. Anche l’ecologia è nata da lì, dalla nostra prima vera presa di conoscenza nei confronti del nostro pianeta. 

Dunque, l’arte influenza la scienza attraverso gli uomini, gli scienziati.

Sì, o almeno alcuni di loro. Ma lo fa anche, in modo più profondo, attraverso le metafore. Una freccia, per esempio, è spesso metafora di una relazione causale, o di scambio di informazioni. L’albero, invece, può essere preso come metafora dell’evoluzione di Darwin, con un tronco comune da cui si separano i rami. E l’artista Tomás Saraceno attira la nostra attenzione sulle ragnatele, modello di una molteplicità senza centro. Dietro al nostro pensiero più astratto ci sono metafore simili; anche in quelli che chiamiamo “esperimenti di pensiero”.  Nel corso della storia si sono susseguite tre concezioni di spazio. La prima è quella di Galileo e Newton, che vede lo spazio come un grande contenitore in cui si svolgono gli eventi. La seconda è quella di Einstein, in cui lo spazio è qualcosa che circonda un oggetto e può essere influenzato dalla sua presenza. Ora stiamo elaborando una terza versione, in cui lo spazio emerge da una relazione, dall’interazione tra le particelle. E questa è un’idea antica legata all’arte. Nell’antica Grecia c’erano parole diverse per indicarli: tópos (legato al tatto), chorós (lo spazio che separa gli oggetti), il vuoto, l’apeiron (l’informe). C’erano tutte queste nozioni che sia l’arte che la scienza devono ora ripensare, per trovare un nuovo cammino.

Al contrario, può la scienza influenzare l’arte?

Su questo tema è stato scritto molto. Per esempio, Erwin Panofsky ha pubblicato il saggio Galileo critico delle arti (in Italia edito da Abscondita), che documenta proprio l’influenza del grande scienziato sull’arte del suo periodo. Lo stesso è avvenuto con la Relatività. La critica d’arte statunitense Linda Dalrymple Henderson ha spiegato come Picasso, Duchamp e altri artisti dell’epoca si siano ispirati alla teoria di Einstein e abbiano cercato di raffigurare la quarta dimensione introdotta dalla Relatività. Credo che ora le onde gravitazionali daranno il via a una nuova rivoluzione, che è quella dell’astronomia multimessaggera. Perché finora abbiamo pensato l’universo solo in termini visivi, o meglio elettromagnetici; ma dobbiamo tenere in considerazione anche le altre modalità: le onde gravitazionali e i neutrini.

Dal multi-messaggero possiamo passare anche al multisensoriale. Cioè l’idea che ci sia uno spazio legato alla visione, uno che nasce dall’udito, uno dal tatto. Per esempio, siamo orgogliosi di avere a EGO, tra i nostri scienziati, un’astronoma non vedente, Wanda Díaz-Merced, leader mondiale nella sonificazione dei dati astronomici (per un progetto di Tomás Saraceno sulla sonificazione delle vibrazioni delle ragnatele, v. video sopra, ndj).

Tornando alla domanda, c’è anche un altro modo in cui la scienza può influenzare l’arte. Noi scienziati siamo più portati degli artisti al ragionamento collettivo, perché la scienza è una grande conquista comune e molti progetti avanzati richiedono la collaborazione di migliaia di persone. Ora vedo che anche molti artisti si stanno spostando sempre di più verso un ragionamento collettivo, e lo trovo molto positivo.

Qual è il miglior esempio che ti viene in mente di matrimonio tra arte e scienza?

Qui ammetto di essere di parte, perché mi viene subito da pensare al mio amico Tomás Saraceno. Le sue opere riflettono soprattutto le idee del biologo tedesco Jakob Johann Freiherr von Uexküll (1864-1944), e in particolare il concetto di Umwelt. Cioè il fatto che ogni specie animale, attraverso i suoi sensi, si crea una propria percezione di spazio. I ragni, per esempio, lo fanno attraverso le loro ragnatele, che sono l’analogo dello spazio-tempo nella nostra concezione attuale dell’universo.

Tra tutte le opere di Saraceno, mi ha colpito particolarmente quella che ha esposto al Palais de Tokyo di Parigi, la già citata On air. Al suo interno, da visitatore, ti muovevi tra stringhe che, se toccate, emettevano suoni. E così, spostandoti, creavi una composizione musicale, nella quale ti trovavi immerso come un ragno nella sua ragnatela. Ogni tanto arrivavano i suoni delle onde gravitazionali, di cui anche tu potevi diventare una sorgente; mentre nella stanza accanto c’era una sala operativa piena di schermi, in cui giungevano in tempo reale i dati dei satelliti. Per me era una fonte d’ispirazione continua, che mi ha fornito molte idee. E anche Saraceno prendeva idee da noi. È stata un’esperienza entusiasmante, molto proficua per tutti.

Hai in mente qualche nuova iniziativa per l’European Gravitational Observatory?

L’anno prossimo si celebrerà il centenario dell’assegnazione del Premio Nobel ad Albert Einstein. Il premio, in realtà, gli era stato attribuito per il 1921, ma gli fu assegnato l’anno dopo insieme al fisico Niels Bohr, uno dei padri della meccanica quantistica. Le discussioni tra Einstein e Bohr sulla natura indeterministica della realtà microscopica sono rimaste nella storia, quindi trovo questa coincidenza del Nobel ancora una volta una bella metafora.

RitmoSpazio
Il catalogo della mostra “Il ritmo dello spazio” (pubblicato da ETS), che si è svolta a Pisa dal 12 ottobre all’8 dicembre 2019.

Il cuore del problema è ancora aperto, ed è questo. La Relatività di Einstein, in sé, è una teoria deterministica. Nello spazio-tempo in 4 dimensioni, tutto è perfettamente descritto dall’inizio alla fine. Nulla può cambiare, nel grande disegno. Nella meccanica quantistica, invece, il futuro è aperto e non può essere calcolato se non in maniera probabilistica. Quindi per me il nodo cruciale di tutto – dell’arte, della filosofia, della scienza, dell’esistenza – è proprio questo: come si fa a conciliare il determinismo del passato con l’apertura verso il futuro? Come si fa a conciliare quello che i greci chiamavano stasis, qualcosa che è, con il flux, che invece diviene? Proprio questo, per inciso, secondo Aristotele è il nodo della tragedia, una situazione in cui il passato dell’uomo non può essere da guida per il futuro, forgiando così il suo ethos, il suo carattere.

In occasione del centenario del Nobel ad Einstein, dunque, abbiamo in programma di organizzare una mostra su questi temi.

Nel frattempo, questo periodo di pandemia ci può insegnare qualcosa?

Sappiamo che dopo ogni pandemia ci sono molti cambiamenti. In questo periodo siamo rimasti a lungo in casa. L’esperienza che abbiamo vissuto nei periodi di confinamento è stata per tanti aspetti simile a un viaggio nello spazio, perché eravamo come astronauti rinchiusi in una navicella. Abbiamo sperimentato nuovi modi di vivere gli ambienti chiusi, di parlare, di comunicare.

Newton scrisse la sua teoria della Gravitazione universale mentre era isolamento fuori Londra per evitare la peste. Anche Shakespeare ha scritto molto dopo un’epidemia di peste. In generale, le epidemie sono momenti di transizione: oggi per noi la sfida è cogliere l’occasione per porre le basi di un futuro migliore. Da questo punto di vista, credo molto nella scuola e nell’educazione, perché la cultura è il miglior antidoto contro le tentazioni d’identità nazionalistiche e autoritarie che ogni crisi, inevitabilmente, porta con sé.

Un ultimo pensiero?

Per chiudere questa conversazione non trovo niente di meglio delle parole che usa Dante nell’ultimo canto della Divina Commedia: “A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle”.  

 

 

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Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli è fisico (PhD) e giornalista, caporedattore del mensile Focus. Appassionato di scienza, tecnologia e innovazione, nel 2019 ha conseguito un Executive MBA presso il MIP/Politecnico di Milano. Ha scritto diversi libri, tra cui Uno spirito puro. Ennio De Giorgi, genio della matematica (Milella 2015, Springer 2019) e Viaggio all’interno di un buco nero (StreetLib, 2019). È stato curatore di La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli 2016) di Guido Tonelli, sulla scoperta del Bosone di Higgs; La musica nascosta dell’universo (Einaudi 2018) di Adalberto Giazotto, sulla scoperta delle onde gravitazionali ; Benvenuti nell'Antropocene (Mondadori, 2005) del premio Nobel Paul Crutzen, padre del termine "antropocene" .

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