Dante Alighieri e la condivisione della conoscenza

Nelle pagine del "Convivio" e del "De Vulgari Eloquentia", Dante aveva delineato un vero e proprio programma – tra l’altro modernissimo nei metodi – di divulgazione della conoscenza, poi messo in pratica nella "Divina Commedia".

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Dante Alighieri e la condivisione della conoscenza

Nelle pagine del "Convivio" e del "De Vulgari Eloquentia", Dante aveva delineato un vero e proprio programma – tra l’altro modernissimo nei metodi – di divulgazione della conoscenza, poi messo in pratica nella "Divina Commedia".

E ’l cielo del Sole si può comparare all’Arismetrica per due proprietadi, l’una si è, che del suo lume tutte l’altre stelle s’informano; l’altra si è, che l’occhio nol può mirare. E queste due proprietadi sono nell’Arismetrica, ché del suo lume tutte le scienze s’alluminano… L’altra proprietà del Sole ancora si vede nel numero, ché l’occhio dello intelletto nol può mirare: perocché il numero, quando è in sé considerato è infinito; e questo non potemo noi intendere.

 (Dante Alighieri, Convivio, II)

 

Nelle pagine del Convivio e del De Vulgari Eloquentia, Dante aveva delineato un vero e proprio programma di divulgazione della conoscenza, poi messo in pratica nella Divina Commedia. Un sapere “a tutto tondo”, che include ovviamente anche la scienza. Sono infatti molti gli esempi che mostrano la profonda conoscenza da parte di Dante di concetti e metodi delle scienze matematiche, fisiche e naturali, e che al tempo stesso illustrano molteplici soluzioni per trasmettere queste conoscenze, non soltanto con l’uso di analogie e metafore, ma anche attraverso narrazioni (lo “storytelling”) arricchite con dialoghi, anticipando così certi metodi per comunicare la scienza utilizzati da diversi autori dopo di lui, fino ai giorni nostri.

Le fabbriche della cultura

Ma perché Dante sentiva tanta urgenza di trasmettere conoscenze elevate a un vasto pubblico? Il motivo principale è che in Europa, durante il XII e XIII secolo, ci fu un notevole recupero del sapere dell’antichità e anche produzione di nuove idee, favoriti da un’ingente opera di traduzione dal greco e dall’arabo in latino, in particolare a Toledo (in Spagna) e a Palermo (alla corte di Federico II di Svevia), due città in cui si era verificato un incontro di culture araba, greca e latina che prosperarono fianco a fianco per molti anni. Tra gli autori tradotti c’erano Aristotele, Tolomeo, Euclide, Archimede, Alhazen e Al-Khwarizmi, oltre a testi cinesi e indiani importati in Europa attraverso versioni arabe.

Nascono le università

Questo innescò la creazione di una rete di università che usavano il latino come lingua franca e favorì un intenso scambio internazionale di testi e studiosi. Le università di Oxford, Coimbra, Parigi, Montpellier, Bologna e Salerno furono fondate nel XII secolo, e quelle di Cambridge, Salamanca, Tolosa, Orléans, Napoli e Padova nel XIII secolo. In queste università, le arti del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) divennero materie comuni a tutti gli studenti.

E nascono le scuole “d’abaco”

Allo stesso tempo, in particolare nel XIII secolo, vennero create in molte città italiane scuole d’abaco, frequentate dalle classi emergenti di mercanti, artigiani, artisti, banchieri e dai loro figli. In queste scuole la lingua e la scrittura italiana popolare (il volgare), così come la matematica di base, la contabilità, la meccanica e altre materie, venivano insegnate essenzialmente per scopi pratici, soprattutto attraverso esempi. Anche se non ci sono informazioni, né documenti, sulla prima formazione di Dante, è probabile che abbia frequentato questo tipo di scuola da bambino, essendo figlio di un mercante. Inoltre, data la notevole cultura e curiosità mostrate da Dante nelle sue opere, si pensa che abbia frequentato, da adulto, anche alcune lezioni nelle università di Bologna e di Padova, forse anche a Parigi.

Teoria e pratica

Queste congetture sulla sua formazione sono in parte suggerite dal fatto che nelle sue opere mostra familiarità con entrambi i tipi di conoscenza: quella più teorica insegnata in latino nelle università e quella più pratica insegnata in lingua volgare nelle scuole d’abaco.

Il sapere liberato

Nel XIII secolo, anche nuove conoscenze e nuovi testi (in latino) si diffusero in Europa, dal Liber Abaci di Leonardo Pisano (Fibonacci) all’Ottica e Matematica di Roberto Grosseteste, fino al Trattato di Astronomia e Astrologia di Giovanni Sacrobosco e le Summulae Logicales di Pietro di Spagna (Petro Hispanus) solo per citarne alcuni. Tutti testi indirizzati a un’élite intellettuale. In effetti, molti studiosi avevano un’idea piuttosto esclusiva riguardo alla diffusione del sapere, specialmente per la filosofia e per la scienza (detta anche filosofia naturale). Questa era, per esempio, l’opinione dello studioso islamico Averroè (1126-98), un famoso filosofo, medico e giudice, autore di trattati su Aristotele, il quale affermava che insegnare alle persone umili era uno sforzo sprecato, e persino pericoloso in quanto poteva portare a malintesi ed essere fonte di scoraggiamento e umiliazione per coloro che non avevano gli strumenti per capire. Dante esprimeva invece un’opinione molto diversa, un’idea democratica della conoscenza, che deve essere offerta a tutti con strumenti diversificati, e avvalorò questa opinione nel Convivio (scritto in volgare) e nel De Vulgari Eloquentia (in latino).

La scienza, “ultima perfezione della nostra anima”

Il Convivio, che significa banchetto, una tavola che offre ai partecipanti il difficile “cibo” della conoscenza, è una sorta di enciclopedia in cui Dante spiega i grandi temi filosofici del suo tempo in un linguaggio comprensibile anche ai non specialisti: temi che vanno dalla linguistica alla scienza, dalla cosmologia alla politica. Nella prefazione Dante afferma che “tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere” e che “la scienza è l’ultima perfezione della nostra anima”. In esso mostra anche una profonda considerazione per la matematica, attraverso alcune interessanti analogie come quella riportata all’inizio di questo post.

Perché le rime? Servono a memorizzare

Nel De Vulgari Eloquentia, Dante esamina invece il problema della lingua più adatta a diffondere il sapere in modo universale, chiaro ed efficace. È scritto in latino in quanto diretto principalmente ai dotti dell’epoca, per mostrare loro l’utilità dell’“ottimo discorso volgare, comune a tutti gli italiani, che si può imparare senza altre regole imitando la nutrice”, ovvero la lingua madre. In questo libro, Dante analizza anche le strutture metriche più adatte alla forma poetica del canto, un genere letterario che, grazie al suo metro e all’uso della rima, permetteva a Dante di realizzare un poema adatto alla lettura ad alta voce e facilmente memorizzabile, in modo che potesse essere imparato e ripetuto anche dagli analfabeti. Questo è proprio ciò che Dante metterà in pratica nella Commedia, chiamata Divina dal Boccaccio.

Una lingua, tanti linguaggi

 Vale la pena di sottolineare che Dante individua anche un’altra difficoltà che stava emergendo nel XIII secolo, riguardante la specializzazione delle lingue all’interno delle varie professioni, anticipando così un problema che sarebbe diventato in seguito un grande ostacolo alla diffusione della conoscenza, come sottolineato da Charles Percy Snow nel famoso saggio Le due culture del 1959. Per descrivere questo problema, nel De Vulgari Eloquentia Dante propone una sua personale rielaborazione della leggenda biblica della Torre di Babele, dove l’influenza di Dio che confonde le lingue viene sostituita da una spiegazione endogena, o evolutiva, della differenziazione delle lingue.

Dopo aver raccontato la versione classica:

“…quasi tutto il genere umano si era dato convegno per l’iniqua impresa: chi comandava i lavori, chi progettava le costruzioni, chi erigeva muri, chi li squadrava con le livelle, chi li intonacava con le spatole, chi era intento a spaccare le rocce, chi a trasportar massi per mare e chi per terra, e altri a diversi gruppi attendevano a diversi altri lavori; quando furono colpiti dall’alto del cielo da una tale confusione che, mentre tutti si dedicavano all’impresa servendosi di una sola e medesima lingua, resi diversi da una moltitudine di lingue dovettero rinunciarvi, e non seppero più accordarsi in un’attività comune”

fornisce la sua spiegazione:

“Infatti solo a coloro che erano concordi in una stessa operazione rimase una stessa lingua: per esempio un’unica lingua per tutti gli architetti, una per tutti quelli che rotolavano massi, una per tutti quelli che li apprestavano; e così accadde per i singoli gruppi di lavoratori. E quante erano le varietà di lavoro in funzione dell’impresa, altrettanti sono i linguaggi in cui in questo momento si separa il genere umano; e quanto più eccellente era il lavoro svolto, tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano”

Il mestiere del comunicatore

Oggi diremmo che i medici parlano con il loro linguaggio specifico, così come i fisici, i matematici, i chimici, i filosofi eccetera, e di conseguenza non si capiscono più tra loro. Quindi, c’è bisogno di qualcuno (il giornalista scientifico, il divulgatore, ecc.) che si occupi di trovare un modo per comunicare il sapere a tutti, utilizzando un linguaggio rigoroso e condiviso.

Gian Italo Bischi
Gian Italo Bischi
Laureato in fisica, è professore ordinario di Matematica generale e Sistemi dinamici e giochi evolutivi presso il Dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università di Urbino. Ha pubblicato articoli e libri sui modelli dinamici e le loro applicazioni alla descrizione di sistemi complessi. Si occupa anche di divulgazione, in particolare sulle connessioni fra la matematica e gli altri campi del sapere.

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