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Dante Alighieri e la condivisione della conoscenza

E ’l cielo del Sole si può comparare all’Arismetrica per due proprietadi, l’una si è, che del suo lume tutte l’altre stelle s’informano; l’altra si è, che l’occhio nol può mirare. E queste due proprietadi sono nell’Arismetrica, ché del suo lume tutte le scienze s’alluminano… L’altra proprietà del Sole ancora si vede nel numero, ché l’occhio dello intelletto nol può mirare: perocché il numero, quando è in sé considerato è infinito; e questo non potemo noi intendere.

 (Dante Alighieri, Convivio, II)

 

Nelle pagine del Convivio e del De Vulgari Eloquentia, Dante aveva delineato un vero e proprio programma di divulgazione della conoscenza, poi messo in pratica nella Divina Commedia. Un sapere “a tutto tondo”, che include ovviamente anche la scienza. Sono infatti molti gli esempi che mostrano la profonda conoscenza da parte di Dante di concetti e metodi delle scienze matematiche, fisiche e naturali, e che al tempo stesso illustrano molteplici soluzioni per trasmettere queste conoscenze, non soltanto con l’uso di analogie e metafore, ma anche attraverso narrazioni (lo “storytelling”) arricchite con dialoghi, anticipando così certi metodi per comunicare la scienza utilizzati da diversi autori dopo di lui, fino ai giorni nostri.

Le fabbriche della cultura

Ma perché Dante sentiva tanta urgenza di trasmettere conoscenze elevate a un vasto pubblico? Il motivo principale è che in Europa, durante il XII e XIII secolo, ci fu un notevole recupero del sapere dell’antichità e anche produzione di nuove idee, favoriti da un’ingente opera di traduzione dal greco e dall’arabo in latino, in particolare a Toledo (in Spagna) e a Palermo (alla corte di Federico II di Svevia), due città in cui si era verificato un incontro di culture araba, greca e latina che prosperarono fianco a fianco per molti anni. Tra gli autori tradotti c’erano Aristotele, Tolomeo, Euclide, Archimede, Alhazen e Al-Khwarizmi, oltre a testi cinesi e indiani importati in Europa attraverso versioni arabe.

Nascono le università

Questo innescò la creazione di una rete di università che usavano il latino come lingua franca e favorì un intenso scambio internazionale di testi e studiosi. Le università di Oxford, Coimbra, Parigi, Montpellier, Bologna e Salerno furono fondate nel XII secolo, e quelle di Cambridge, Salamanca, Tolosa, Orléans, Napoli e Padova nel XIII secolo. In queste università, le arti del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) divennero materie comuni a tutti gli studenti.

E nascono le scuole “d’abaco”

Allo stesso tempo, in particolare nel XIII secolo, vennero create in molte città italiane scuole d’abaco, frequentate dalle classi emergenti di mercanti, artigiani, artisti, banchieri e dai loro figli. In queste scuole la lingua e la scrittura italiana popolare (il volgare), così come la matematica di base, la contabilità, la meccanica e altre materie, venivano insegnate essenzialmente per scopi pratici, soprattutto attraverso esempi. Anche se non ci sono informazioni, né documenti, sulla prima formazione di Dante, è probabile che abbia frequentato questo tipo di scuola da bambino, essendo figlio di un mercante. Inoltre, data la notevole cultura e curiosità mostrate da Dante nelle sue opere, si pensa che abbia frequentato, da adulto, anche alcune lezioni nelle università di Bologna e di Padova, forse anche a Parigi.

Teoria e pratica

Queste congetture sulla sua formazione sono in parte suggerite dal fatto che nelle sue opere mostra familiarità con entrambi i tipi di conoscenza: quella più teorica insegnata in latino nelle università e quella più pratica insegnata in lingua volgare nelle scuole d’abaco.

Il sapere liberato

Nel XIII secolo, anche nuove conoscenze e nuovi testi (in latino) si diffusero in Europa, dal Liber Abaci di Leonardo Pisano (Fibonacci) all’Ottica e Matematica di Roberto Grosseteste, fino al Trattato di Astronomia e Astrologia di Giovanni Sacrobosco e le Summulae Logicales di Pietro di Spagna (Petro Hispanus) solo per citarne alcuni. Tutti testi indirizzati a un’élite intellettuale. In effetti, molti studiosi avevano un’idea piuttosto esclusiva riguardo alla diffusione del sapere, specialmente per la filosofia e per la scienza (detta anche filosofia naturale). Questa era, per esempio, l’opinione dello studioso islamico Averroè (1126-98), un famoso filosofo, medico e giudice, autore di trattati su Aristotele, il quale affermava che insegnare alle persone umili era uno sforzo sprecato, e persino pericoloso in quanto poteva portare a malintesi ed essere fonte di scoraggiamento e umiliazione per coloro che non avevano gli strumenti per capire. Dante esprimeva invece un’opinione molto diversa, un’idea democratica della conoscenza, che deve essere offerta a tutti con strumenti diversificati, e avvalorò questa opinione nel Convivio (scritto in volgare) e nel De Vulgari Eloquentia (in latino).

La scienza, “ultima perfezione della nostra anima”

Il Convivio, che significa banchetto, una tavola che offre ai partecipanti il difficile “cibo” della conoscenza, è una sorta di enciclopedia in cui Dante spiega i grandi temi filosofici del suo tempo in un linguaggio comprensibile anche ai non specialisti: temi che vanno dalla linguistica alla scienza, dalla cosmologia alla politica. Nella prefazione Dante afferma che “tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere” e che “la scienza è l’ultima perfezione della nostra anima”. In esso mostra anche una profonda considerazione per la matematica, attraverso alcune interessanti analogie come quella riportata all’inizio di questo post.

Perché le rime? Servono a memorizzare

Nel De Vulgari Eloquentia, Dante esamina invece il problema della lingua più adatta a diffondere il sapere in modo universale, chiaro ed efficace. È scritto in latino in quanto diretto principalmente ai dotti dell’epoca, per mostrare loro l’utilità dell’“ottimo discorso volgare, comune a tutti gli italiani, che si può imparare senza altre regole imitando la nutrice”, ovvero la lingua madre. In questo libro, Dante analizza anche le strutture metriche più adatte alla forma poetica del canto, un genere letterario che, grazie al suo metro e all’uso della rima, permetteva a Dante di realizzare un poema adatto alla lettura ad alta voce e facilmente memorizzabile, in modo che potesse essere imparato e ripetuto anche dagli analfabeti. Questo è proprio ciò che Dante metterà in pratica nella Commedia, chiamata Divina dal Boccaccio.

Una lingua, tanti linguaggi

 Vale la pena di sottolineare che Dante individua anche un’altra difficoltà che stava emergendo nel XIII secolo, riguardante la specializzazione delle lingue all’interno delle varie professioni, anticipando così un problema che sarebbe diventato in seguito un grande ostacolo alla diffusione della conoscenza, come sottolineato da Charles Percy Snow nel famoso saggio Le due culture del 1959. Per descrivere questo problema, nel De Vulgari Eloquentia Dante propone una sua personale rielaborazione della leggenda biblica della Torre di Babele, dove l’influenza di Dio che confonde le lingue viene sostituita da una spiegazione endogena, o evolutiva, della differenziazione delle lingue.

Dopo aver raccontato la versione classica:

“…quasi tutto il genere umano si era dato convegno per l’iniqua impresa: chi comandava i lavori, chi progettava le costruzioni, chi erigeva muri, chi li squadrava con le livelle, chi li intonacava con le spatole, chi era intento a spaccare le rocce, chi a trasportar massi per mare e chi per terra, e altri a diversi gruppi attendevano a diversi altri lavori; quando furono colpiti dall’alto del cielo da una tale confusione che, mentre tutti si dedicavano all’impresa servendosi di una sola e medesima lingua, resi diversi da una moltitudine di lingue dovettero rinunciarvi, e non seppero più accordarsi in un’attività comune”

fornisce la sua spiegazione:

“Infatti solo a coloro che erano concordi in una stessa operazione rimase una stessa lingua: per esempio un’unica lingua per tutti gli architetti, una per tutti quelli che rotolavano massi, una per tutti quelli che li apprestavano; e così accadde per i singoli gruppi di lavoratori. E quante erano le varietà di lavoro in funzione dell’impresa, altrettanti sono i linguaggi in cui in questo momento si separa il genere umano; e quanto più eccellente era il lavoro svolto, tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano”

Il mestiere del comunicatore

Oggi diremmo che i medici parlano con il loro linguaggio specifico, così come i fisici, i matematici, i chimici, i filosofi eccetera, e di conseguenza non si capiscono più tra loro. Quindi, c’è bisogno di qualcuno (il giornalista scientifico, il divulgatore, ecc.) che si occupi di trovare un modo per comunicare il sapere a tutti, utilizzando un linguaggio rigoroso e condiviso.

Che cosa succede al nostro corpo quando andiamo in montagna?

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C’è a chi piace d’inverno, quando c’è neve e si può sciare. C’è chi la preferisce d’estate, quando è bello perdersi nei boschi e nei paesaggi infiniti seguendo uno tra i tanti sentieri. In tutte le stagioni, la montagna è tra le destinazioni più ambite e più sane. E va benissimo, purché si sappia che quando si sale di quota qualcosa accade nel nostro organismo. Ed è meglio esserne consapevoli.

Il nostro corpo è infatti una macchina che si è evoluta per funzionare bene a livello del mare, dove la pressione atmosferica è indicativamente di 760 mmHg. Se si sale di quota, però, la pressione diminuisce. A 5.500 metri è circa la metà. Risultato: facciamo più fatica a respirare e tutto il metabolismo si modifica per portare ossigeno ai tessuti e consentirci la sopravvivenza.

A spiegarci che cosa succede esattamente è Gianfranco Parati, direttore scientifico dell’Istituto Auxologico di Milano, docente di cardiologia all’Università Milano-Bicocca e pioniere di questo settore con ricerche che ha svolto con i suoi collaboratori – nell’ambito dei progetti di ricerca HIGHCARE – sul Monte Rosa, nel campo base dell’Everest e sulle Ande nel corso di quasi vent’anni.

Quando saliamo di quota, il nostro organismo si modifica in modo molto complesso. In estrema sintesi, che cosa succede?

Succede che il corpo deve adattarsi, perché la pressione barometrica scende e nei polmoni l’ossigeno viene spinto con meno forza nel sangue. Nei nostri studi, abbiamo visto che la pressione arteriosa sale, che aumenta la frequenza cardiaca, che il cuore si contrae in modo diverso: si verifica in particolare una torsione (twist) della punta del ventricolo sinistro. Inoltre le arterie diventano un po’ più rigide (perché il sistema simpatico le contrae) e aumentano i globuli rossi (per portare più ossigeno). Nel sonno, aumentano le apnee notturne. E alle normali apnee “ostruttive”, legate al passaggio dell’aria nelle alte vie aeree, si aggiungono quelle “centrali”».

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Gianfranco Parati, durante la spedizione HIGHCARE-Himalaya 2008 (G. Parati).

Che cosa sono le apnee centrali?

Le apnee centrali sono causate da un impulso del sistema nervoso centrale, che ferma il respiro per alcuni secondi. In quota, infatti, si verifica una situazione molto particolare. A causa della carenza di ossigeno, ventiliamo più velocemente. È un meccanismo istintivo, guidato da alcuni recettori (i chemocettori carotidei) che avvertono la riduzione di ossigeno nel sangue; ma è poco efficiente, perché respirando più velocemente utilizziamo tutte le vie aeree, quindi anche i bronchi, mentre la parte che scambia l’ossigeno sono gli alveoli. Insomma, con l’iperventilazione si spende molta energia e non si utilizza gran parte dell’ossigeno inalato.

Non finisce qui, il corpo paga un prezzo aggiuntivo: butta fuori molta CO2, rendendo il sangue più alcalino. Le conseguenze sono ben visibili di notte. Nel sonno, infatti, il respiro è automatico, ed è regolato da alcuni recettori, che stanno nelle carotidi e nel cervello. Quelli nelle carotidi sentono l’ossigeno, quelli nel cervello la CO2. Durante il sonno, i chemocettori che stanno nel cervello si accorgono del calo del livello di CO2 e, per farlo risalire, bloccano il respiro per alcuni secondi. Peccato che, così facendo, il livello di ossigeno scende ancora di più. Quindi di notte si alternano momenti di iperventilazione dovuta alla quota a momenti di pausa per compensare. Con il risultato che, paradossalmente, l’ipossia aumenta. Ed è per questo che molte persone in montagna stanno peggio di notte.

Qual è, dunque, la causa fisiologica del cosiddetto “mal di montagna”?

La causa principale di molti sintomi tipici del mal di montagna – nausea, mal di testa, insicurezza – è proprio il sangue alcalino. In più, si respira male e possono verificarsi aritmie. Dunque in montagna bisogna fare attenzione, soprattutto se si è soggetti a rischio (per esempio, cardiopatici e ipertesi) e soprattutto di notte, per cui è meglio sottoporsi a una visita di controllo facendo attenzione ad alcune linee guida che abbiamo formulato.

Come cambia l’adattamento in quota con il sesso e con l’età?

Le donne si adattano meglio degli uomini. Per esempio, a 3.400 metri, gli uomini hanno apnee nel 40-50% dei casi, le donne quasi per niente. A 5.400 metri anche le donne hanno un po’ di apnee, ma comunque la metà rispetto agli uomini. L’ipotesi è che a fare la differenza siano gli ormoni sessuali femminili, che potrebbero costituire un meccanismo protettivo interessante da studiare. Però anche le apnee ostruttive sono meno frequenti nelle donne, quindi potrebbero esserci anche ragioni anatomiche, o diversi meccanismi di regolazione. Riguardo all’età, al suo aumentare diminuisce la capacità di adattamento, per cui sopra i 60 anni bisogna fare più attenzione.

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Ci si adatta a ogni quota?

Oltre una certa altitudine non ci si adatta mai completamente. I rifugisti della Capanna Margherita sul Monte Rosa, per esempio, non stanno in quota in via continuativa. Dopo un po’ rientrano. Perché noi non siamo fatti per stare in quegli ambienti. Possiamo ottimizzare l’adattamento, ma fino a un certo punto. È quello che fanno gli alpinisti quando scalano l’Everest. Vanno su per un mese, un mese e mezzo. Salgono e poi scendono. Vanno a 6 mila metri, poi scendono a 4-5 mila. Quindi vanno a 7 mila e ridiscendono. Si adattano un po’ per volta, cercando di non superare la soglia di permanenza, perché dopo un po’ di giorni si attiva un catabolismo proteico e si perdono le proteine: i muscoli perdono potenza, anche il cuore. Lo abbiamo sperimentato noi stessi nella nostra spedizione al campo base dell’Everest: siamo rimasi in quota un mese e mezzo e abbiamo perso in media 9 kg a testa. Non solo di grasso, anche di muscoli. E ci vuole un po’ di tempo per recuperare i muscoli.

Quali sono le conseguenze più gravi del mal di montagna?

Tra le conseguenze più gravi ci sono l’edema polmonare e l’edema cerebrale, che possono portare alla morte. Nei primissimi giorni di esposizione in quota, tutti hanno una trasudazione di liquidi maggiore. In genere, un po’ alla volta, questa eccedenza si risolve. Ma non è sempre così. L’edema polmonare, all’inizio, a livello subclinico ce l’hanno un po’ tutti. A causa dell’ipossia, infatti, aumenta la pressione polmonare. Allo stesso tempo, si verifica una disfunzione endoteliale: le piccole cellule che ricoprono i capillari negli alveoli diventano meno efficienti nel liberare ossido nitrico e si scollano un po’. Si verifica, dunque, una trasudazione di liquido. Nei polmoni, già c’è difficoltà a respirare perché la pressione barometrica, e quindi la pressione parziale di ossigeno, scende. In più, questo velo di liquido peggiora ulteriormente la situazione, perché fa da barriera al passaggio dell’ossigeno che va dall’alveolo al sangue. Con l’adattamento, se si supera questa fase, l’edema si riassorbe. Quando invece non si riassorbe, può peggiorare e portare a un edema polmonare acuto, che è molto pericoloso.

Quali sono i possibili rimedi?

Nei casi più gravi di edema, bisogna scendere al più presto a una quota più bassa. Per acclimatarsi meglio, invece, ci sono alcuni rimedi. Per esempio, la ventilazione meccanica a pressione positiva continua, o C-PAP (Continuous Positive Airway Pressure); cioè quella macchina che si usa nella terapia delle apnee ostruttive. La C-PAP si usa anche in cardiologia, per i pazienti con scompenso cardiaco. Il cuore sfiancato, infatti, non riesce a far circolare il sangue, quindi la pressione nelle vene e nei capillari polmonari aumenta. I polmoni trasudano e si allagano. E allora bisogna togliere l’acqua in eccesso. Oltre ai diuretici, anche la C-PAP funziona molto bene nei pazienti con scompenso, perché la pressione dell’aria sposta l’acqua e libera gli alveoli, rendendo possibile lo scambio di gas. Lo stesso meccanismo vale in montagna. Sulla Capanna Margherita, ma anche nel campo base dell’Everest, abbiamo visto che nei primi due o tre giorni di permanenza in quota, quando si sta male, la saturazione scende al 70%-80%. In queste condizioni, 10 minuti di C-PAP fanno salire la saturazione al 90%. Dopo un paio di settimane in quota, la C-PAP non ha più nessun effetto, perché ormai l’organismo si è adattato e l’edema è stato riassorbito.

C’è anche un’altra tecnica che abbiamo sperimentato con successo, quella del respiro lento. Abbiamo applicato questa metodica, in particolare, con un sistema israeliano a guida musicale, basato sull’uso di una banda toracica (che misura il respiro), un computer che genera una musica dolce ritmica e delle cuffie per ascoltarla. Dopo aver indossato l’apparecchio, ci si siede rilassati, si respira normalmente e si ascolta. Il computer genera una musica che è stimolata dalla frequenza del respiro. Dopo un minuto o due, il software comincia a prendere il comando; cioè modifica la musica e piano piano, in modo impercettibile, la rende più lenta. Così, senza sforzo, ci si trova a respirare alla frequenza di sei atti al minuto, invece di venti. E questo respiro lento costringe i polmoni a espandersi molto di più. Respiro lento vuol dire infatti respiro profondo: in questo modo, come insegna lo yoga, si utilizza la pompa respiratoria molto meglio. È una buona abitudine per tutti. Perché si usano tutti gli alveoli e aumenta la superficie di scambio. Non solo. Stiracchiandoli, i setti diventano più sottili: il polmone si espande di più e quindi scambia meglio. Infine, si stimolano alcuni recettori vagali che stanno sulle superfici dei polmoni e riducono un po’ quell’attivazione simpatica tipica dell’ipossia: si contrastano così gli effetti sul cuore, sulla frequenza del battito cardiaco e sull’iperventilazione. Abbiamo testato anche questo metodo in alta quota. Partivamo con valori della saturazione pari a 70-80%. Dopo 15 minuti di respiro lento con la musica, la saturazione di ossigeno saliva fino al 90-92%. Quando si smetteva, tornava a 70-80%.

Una delle tende dove hanno dormito gli sperimentatori al campo base dell’Everest.
Una delle tende dove hanno dormito gli sperimentatori al campo base dell’Everest.

Queste tecniche si possono usare anche nella pratica medica, a casa o in ospedale?

Sì, ed è uno degli aspetti centrali della nostra ricerca. Noi usiamo infatti la montagna come un laboratorio, che serve a testare alcune ipotesi sull’importanza dell’ossigeno nel nostro organismo. In ospedale abbiamo infatti molti pazienti ipossici. In questo caso l’ipossia non dipende dalla quota ma da altre condizioni come scompenso cardiaco, asma, enfisema, apnee nel sonno, obesità. Questi pazienti hanno però comorbidità di vario tipo, cioè sono complessi, e si fa fatica a capire quali sintomi siano dovuti all’ipossia e quali ad altri fattori. In montagna si riesce a semplificare la situazione: si prende un solo problema, che è quello della carenza di ossigeno nel sangue, in soggetti sani e si testano vari rimedi – C-PAP, respiro lento, farmaci che riducono l’alcalinizzazione del sangue con lieve effetto diuretico (come l’acetazolamide) e betabloccanti – che poi si possono tradurre in clinica. Per esempio, abbiamo applicato con successo le tecniche di respirazione lenta ai nostri pazienti con scompenso cardiaco, come terapia riabilitativa. Abbiamo testato anche i betabloccanti, e abbiamo visto che c’è un’enorme differenza tra betabloccanti selettivi e non selettivi per i recettori beta-1 cardiaci. In alta quota i selettivi sono più efficaci e danno meno effetti collaterali in termini di ridotta capacità di esercizio. Infine abbiamo testato anche l’acetazolamide, cioè il diamox, che è eccezionale in montagna. Questo farmaco blocca infatti l’anidrasi carbonica, cioè il meccanismo che rende il sangue più alcalino, e quindi previene il mal di montagna. Infatti si consiglia a chi non è allenato e va sopra i 3 mila metri: in questi casi può essere utile cominciare ad assumerlo due giorni prima e continuare per uno o due giorni in quota, finché c’è un po’ di adattamento. L’acetazolamidefa scendere anche la pressione e può prevenire l’edema. Però, assumendola più a lungo, possono manifestarsi effetti collaterali come la disgeusia: il gusto cambia e non si riesce più nemmeno a bere una birra, perché sa di metallo. Non è una terapia a lungo termine, tranne che per patologie particolari, però può essere molto utile per adattarsi in quota.

In tanti anni di ricerca e di esperienze in quota, qual è l’episodio più significativo che le è rimasto in mente?

Ce ne sono tanti. E anche a me non sono mancate le disavventure. Una volta siamo saliti un po’ in fretta alla Capanna Margherita e l’ho pagata cara. Di notte i miei collaboratori mi sono saltati addosso con cortisone e ossigeno, perché avevo aritmie ventricolari pericolose. Per fortuna eravamo tutti monitorati. Un’altra volta, sempre alla Capanna Margherita, fu un mio collaboratore a stare male; ma lo nascose perché non voleva tornare indietro. Arrivati al rifugio, non si presentò a cena. Allora salimmo a controllare e lo trovammo in coma. Aveva un edema cerebrale. Ricorderò lo spavento per tutta la vita: era notte e fuori c’era una tempesta che veniva da sud, quindi da Alagna non potevano mandare un elicottero. L’edema cerebrale si tratta con il cortisone, con l’acetazolamide, un po’ possono aiutare anche i farmaci antiossidanti; ma l’unica vera soluzione è scendere, e lui doveva scendere. Ha rischiato la vita. Per fortuna un elicottero è riuscito a salire dalla Svizzera. Non poteva arrivare al rifugio, perché in cresta c’era troppo vento, e allora lo abbiamo trasportato alle tre di notte con una barella al Colle Gnifetti, un avvallamento a 4.200 metri di quota. Come il malcapitato è sceso a terra, a Zermatt, è rifiorito. È passato tutto in un attimo. Perché la pressione barometrica ha riportato in asse i suoi sistemi di regolazione: l’edema si è riassorbito e tutto è tornato alla normalità. Ma lui se l’è vista brutta. In queste situazioni, in alta quota, bisogna stare molto attenti.

 

Siti e approfondimenti

  • Le linee guida dell’Istituto Auxologico.
  • In questo sito, una pubblicazione coordinata da Gianfranco Parati con informazioni specifiche per chi soffre di cuore ma desidererebbe salire in quota.
  • Il sito della Società Italiana Medicina di Montagna.
  • Il sito del progetto europeo multidisciplinare HIGHCARE (HIGH altitude Cardiovascular REsearch).

 

Nel leggendario Eldorado degli Egizi

“Lode a te, Amon-Ra, Signore di Karnak, principe di Tebe!(…) per amore del quale il deserto produce… argento, oro e veri lapislazzuli, aromi e incenso del paese dei Megiay…” Così canta l’inno ad Amon-Ra un componimento egizio di circa 3.400 anni fa. Ma dov’è questo favoloso paese dell’oro dei Megiay? Per trovarlo bisogna risalire il Nilo dal Mediterraneo, superare Aswan, Abu Simbel, le terre conosciute e i deserti pieni di incognite, le cateratte e il calore più cocente del globo. Solo alla fine ci troveremo nel leggendario paese dell’oro degli Egizi, la Nubia, l’ultima frontiera del Sahara.

Il regno dei faraoni neri

Il Nilo taglia il deserto formando una strettissima lunga oasi che da Khartoum, in Sudan, va fino al Cairo, lungo un percorso di circa 2.800 chilometri; di questi, 1.600 sono in Nubia. Proprio al centro di questa terra, nel cuore della grande “S” formata dal fiume, si trova l’antica capitale del Faraoni Neri: Napata. Da qui gli antichi sovrani, intorno all’800 a.C., partirono alla conquista dell’Egitto e vi fondarono la XXV dinastia, denominata appunto “la Dinastia dei Faraoni Neri”in quanto più scuri di pelle degli Egizi. Sempre qui si rifugiarono fuggendo all’invasione assira intorno al 650 a.C. E l’antica capitale diventò il cuore di un regno che sarebbe diventato il veicolo della cultura mediterranea in Africa sino al IV sec. d.C.

La montagna con testa di cobra

Uno spettacolo irreale si offre agli occhi di chi, attraversato il deserto del Bayuda, l’area racchiusa nella grande ansa del Nilo, arriva fino a Napata. Sulla piatta distesa ciottolosa si erge la Montagna Sacra di Amon, il Jebel Barkal. Pareti a picco, cima piatta e un enorme pinnacolo, che avrebbe dovuto diventare un’enorme testa di cobra, sembra un guardiano implacabile dell’area sacra.

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Il massiccio del Jebel Barkal. Gli Egizi vedevano nello sperone di roccia una testa di cobra (M. Levi).

Ai suoi piedi il complesso di templi dell’antica capitale, di cui la gran parte sono ancora sepolti sotto le sabbie. Il più imponente è senza dubbio il tempio di Amon, con i suoi arieti mutilati e l’altare in granito grigio ancora al suo posto al di là dei monconi di imponenti colonne. Ma il più affascinante, forse, è quello dedicato alla dea Hathor, metà costruito e metà scavato nelle viscere della montagna, col vestibolo dai pilastri sostenuti dal dio Bes, difforme e massiccio, e dalle pareti coperte da immagini sacre… come è facile immedesimarsi nel passato. Girando attorno alla montagna è lì che la sorpresa diventa ancora più irreale: una manciata di piramidi aguzze si slancia verso il cielo, nascendo da queste sabbie dorate. Ma è dalla cima piatta di questa montagna che possiamo abbracciare appieno lo spettacolo che ci circonda. Davanti a noi ciò che gli antichi Egizi e i Nubiani videro per millenni: il grande fiume Nilo, dono degli dei, che ancora oggi scorre placido con il suo corso sinuoso riflettendo la luce accecante del sole come il dorso di un serpente, perdendosi nell’orizzonte.  Guardando invece a Nord, lo sguardo affonda nel nulla, nello sterminato deserto nubiano disabitato e sconosciuto fino al confine con l’Egitto.

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Piramidi ai piedi del Jebel Barkal (M. Levi).

I custodi dell’oro

È proprio in quest’immensità che dopo due giorni mi sarei diretto per raggiungere la sconosciuta Berenice Pancrisia, la città dell’oro, nascosta tra le aspre e selvagge montagne del Sahara orientale dove vivono gli ultimi nomadi Beja, gli antichi Megiay degli Egizi.

Mangiatori di serpenti

Nomadi da millenni, i Beja abitano una delle aree più aride del globo e sono suddivisi in varie sottotribù: Ababdeh, Adendowa, Amarar, Bisharin, Beni Hamer. Già noti ai faraoni egizi e successivamente ai Tolomei con il nome di Cadoi aphiphagi, cioè “mangiatori di serpenti”. Erano chiamati Blemmi dai Romani, uomini misteriosi che Plinio il Vecchio descriveva senza testa, con occhi e bocca aperti in mezzo al petto. Gli scrittori arabi del medioevo li designavano con il nome di Buja, da cui l’attuale Beja. Per gli anglosassoni del XIX secolo divennero i temibili Fuzzy-Wuzzies (per i loro capelli crespi) mahadisti che riuscirono a sfondare il quadrato inglese a Khartoum e a conquistare la città difesa da Gordon Pascià.

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Nomadi del deserto nubiano (M. Levi).

Con il pugnale in mano

Per oltre 4.000 anni i Beja hanno percorso il caldo deserto e le colline desolate del Mar Rosso alla ricerca di pascoli per i loro cammelli e per le loro capre. Erano temuti per le scorrerie che effettuavano contro i ricchi insediamenti lungo il Nilo. Dopo il saccheggio si rifugiavano nel deserto di cui conoscevano tutti i meandri e i pozzi dove poter trovare acqua, anche i più nascosti. Di carattere chiuso e solitario i Beja non amano i grandi raggruppamenti. Gli insediamenti si compongono di poche capanne con struttura di rami piegati ad arco sui quali sono stese stuoie di paglia. Le donne, che indossano una sorta di sari coloratissimi, hanno il volto scoperto, civettuole treccine che incornicino il viso e il naso ornato con lamine d’oro. Gli uomini ostentano una folta capigliatura nera, lucida di grasso, una lunga jallabia (tipica veste) bianca e curiosi gilet grigi o neri. Non si separano mai dalle armi: la spada custodita in una guaina di cuoio ornata d’argento, il pugnale legato all’avambraccio sinistro per essere prontamente sguainato con la mano destra e l’atumar, il bastone da lancio simile a un boomerang, già utilizzato nell’Egitto faraonico per la caccia ai volatili e alle gazzelle.

Il pozzo perduto

A mezzogiorno del 15 aprile, nel deserto nubiano la temperatura supera spesso i 40°. Con i miei compagni di viaggio ci stavamo dirigendo verso Nord attraversando una pianura piatta e giallastra che si estende fino all’estremo orizzonte e sullo sfondo si intravede lontanissima, distorta dalle onde di calore, una catena di montagne azzurrine. Più tardi, quando le ombre della sera colorarono di viola la pianura sconfinata, i suoi vari contorni si precisarono. Dapprima ondulazioni basse e colline, poi vere e proprie montagne rocciose scure con picchi e pareti sgretolate dai fortissimi sbalzi di temperatura. Era una catena di montagne che correva parallela alla costa del Mar Rosso e che bloccava tutte le perturbazioni, rendendo così questa parte di deserto aridissima. Ci inoltrammo nella stretta valle di Wadi Khomareb cercando il pozzo segnato sulle vecchie carte topografiche inglesi degli anni ’40 del secolo scorso. Nonostante disponessimo di un Gps, non riuscivamo a trovarlo; evidentemente la precisione della vecchia carta lasciava un po’ a desiderare.

Lingua antica

Improvvisamente, dietro un gruppo di acacie vedemmo fuggire una capra. Un’esclamazione proruppe da tutti i miei compagni di auto: se c’è una capra, c’è il pastore e se c’è il pastore sicuramente sa dove si trova il pozzo. Infatti, poco dopo apparì da lontano la sagoma di un essere umano. Ci dirigemmo verso di lui, ma notammo una curiosa reazione: cercava di scappare. Mandai avanti allora il pick up condotto dal nostro autista Amir, spiegandogli di parlare in arabo per tranquillizzarlo. In effetti vidi finalmente il pick up fermo e Amir che parlava con il ragazzo nomade. Raggiunti i due chiesi subito di informarsi dove fosse il pozzo, ma la risposta di Amir fu: “Ma che lingua parlano questi? Non capisco quasi nulla!”. In effetti gli Adendowa, sottotribù dei Beja, parlano un antico dialetto che ha solo qualche parola di arabo. Abdallah, così si chiamava il giovane nomade, ci indicò di andare avanti. Lo facemmo e dopo poco vedemmo un insieme di alcune povere capanne di rami e stuoie.

Un tè nel deserto

Appena ci avvicinammo con l’automezzo, gli uomini ci vennero incontro con un sorriso smagliante: salaam aleikum(“la pace sia con te”), aleikum salaam (“con te sia la pace”), kullo tamam (“tutto bene”), al amdulillah (“tutto bene se Dio vuole”). I soliti convenevoli, necessari in questo paese prima di affrontare qualsiasi discorso vero e proprio. Nascosti dalle capanne alcune donne e dei ragazzini ci spiavano incuriositi, ma i più piccoli sembravano proprio terrorizzati. Con il grande senso di ospitalità nei confronti dei viandanti che contraddistingue tutti i nomadi sahariani, ci portarono una stuoia e ci invitarono a sederci, pronti a offrici il chai (“tè”). Gli anziani parlavano l’arabo più correttamente, e tramite Amir riuscimmo ad avviare un minimo di conversazione.

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Nomadi del deserto nubiano (M. Levi).

La paura dell’uomo bianco

Fu un pomeriggio straordinario e incredibile: stavamo parlando con uomini che vivevano come millenni fa. Eravamo in una situazione analoga a quella degli antichi prospettori di miniere egizie che esploravano il deserto e incontravano i Magiay. Non c’era un pezzo di plastica in giro, tutto era costruito semplicemente con i materiali che può offrire il deserto: legno, pelle, tessuti di lana di cammello, ossa di animali. Ci dissero che in quella valle a loro memoria non erano mai passati kawajia (“stranieri bianchi”) e che quindi era comprensibile che i ragazzini fossero terrorizzati. Non avevano mai visto un uomo bianco, e ci spiegarono che, quando i bambini fanno i capricci, li minacciano di farli portare via dall’uomo bianco…

Chi va piano…

Ci accompagnarono al pozzo e ci rifornimmo d’acqua utilizzando le loro attrezzature: una sacca di pelle e una corda di foglie intrecciate che doveva essere calata nel buco nero profondo una decina di metri. Ci chiesero di rimanere per la notte facendoci capire che avrebbero potuto uccidere una capra per la cena. Rifiutai gentilmente adducendo la necessità di dover partire per raggiungere in tempo la nostra meta. Mi sovvenne la risposta di un nomade Tuareg incontrato anni prima in Algeria. Alla mia spiegazione che per raggiungere con l’automezzo l’oasi di Ain Salah distante oltre 400 chilometri bastavano un paio di giorni (contro gli oltre 15 necessari a cammello), replicò: “E che cosa fai negli altri 13 giorni?”. Infatti, un proverbio tuareg recita: “Chi corre sempre, saprà sempre meno cose di colui che resta calmo e riflette”.

Un’offerta non gradita…

Ma rifiutai anche per altri motivi: per loro sarebbe stato un valore eccessivo uccidere una capra, ma il loro senso di ospitalità glielo imponeva. Per noi era invece assolutamente superfluo, dato che di cibo ne avevamo a sufficienza. E c’era anche un altro motivo. In un’occasione analoga, ospitato in un accampamento di Tuareg, mi fu offerto la parte più preziosa della capra essendo l’ospite di riguardo: l’occhio, che avrei dovuto estrarre con un dito direttamente dal globo oculare. Non mi sentivo proprio di ripetere quell’esperienza decisamente… forte.

Tombe e incisioni

Bir Nurayet (3)
Bir Nurayet (M. Levi).

Proseguimmo il nostro viaggio esplorativo addentrandoci in una zona di aspre montagne, quelle che separano il deserto nubiano dal Mar Rosso. Si sviluppano in una catena lunga oltre 500 chilometri che corre parallela alla costa del Mar Rosso dall’Egitto al Sudan fino al confine con l’Eritrea, e alcune cime superano i 2.000 metri di altezza. Nella parte nord del Sudan, queste montagne sono caratterizzate da picchi di granito scuro che svettano verso il cielo. Proprio tra queste sconosciute montagne, circa otto anni fa una missione archeologica polacca ha scoperto una grande quantità di incisioni rupestri che dimostrano una presenza umana di migliaia di anni fa, probabilmente lungo una via carovaniera che dal Mar Rosso portava sul Nilo. La zona è caratterizzata da una montagna isolata a forma fallica che evidentemente era adorata sin dall’antichità. Infatti, oltre alle incisioni rupestri, si trovano numerose tombe preislamiche a “torta”, così chiamate per la loro forma, e anche alcuni cimiteri attuali.

Bir Nurayet (5)
Incisioni rupestri a Bir Nurayet (M. Levi).

Berenice, finalmente!

Ci addentrammo sempre di più tra le montagne, percorrendo aspre vallate che a volte si rivelavano chiuse e ci costringevano spesso a ritornare sui nostri passi. Dopo diversi tentativi raggiungemmo finalmente la valle del Wadi Allaqi, e all’improvviso davanti a noi si ersero due imponenti costruzioni in pietra, erano due castelli diroccati circondati dai resti di decine di abitazioni.

Berenice (5)
Berenice Pancrisia (M. Levi).

Eravamo a Berenice, la città citata da Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia al libro sesto, vanamente agognata dai cercatori di tesori. Di Berenice Pancrisia, la città delle miniere d’oro dei Tolomei, si favoleggiò per secoli, fino a farla entrare nella leggenda e a dubitare realmente della sua esistenza, anche perché si diceva che gli spiriti, suoi gelosi custodi, l’avrebbero fatta sparire dagli occhi di quanti fossero mai riusciti a trovarla.

Antiche macine x oro (1)
Antiche macine per l’oro (M. Levi).

Una leggenda? Sicuramente sì, ma come tutte le leggende forse con un fondo di verità. Probabilmente i forti riflessi degli implacabili raggi del sole prodotti sui cristalli di quarzo di cui sono ricche queste montagne, riusciva ad abbagliare chi vi fosse arrivato, impedendone la vista.

Olafur Eliasson come esperienza quantistica

Quando la porta si chiude dietro di me, recidendo ogni legame con il prima, affondo nell’oscurità di una notte senza stelle. Per un lungo istante cado nel nulla, inghiottito dal buio e dal silenzio. A correre in mio soccorso è la luce.

E luce fu

Siamo al terzo piano della Manica Lunga del Castello di Rivoli, in occasione della mostra Orizzonti Tremanti di Olafur Eliasson. Questo artista islandese-danese è noto per le sue opere che parlano il linguaggio della luce, degli specchi, dei colori. Come l’installazione The Weather Project alla Tate Modern di Londra, costituita da un sole artificiale che nel 2003 ha illuminato gli spazi della Turbine Hall di un’irreale luce gialla. O come il progetto Little Sun di una lampada a Led, nata dall’intenzione di portare la luce in aree sperdute dell’Africa e ora acquistabile su Amazon con l’idea di favorire lo sviluppo sociale in modo sostenibile. E proprio la sostenibilità è un altro tema particolarmente a cuore a Olafur Eliasson, che tra il 2014 e il 2018 ha portato a Parigi, a Londra, a Copenhagen, a Shanghai grandi blocchi di ghiaccio provenienti dagli iceberg artici per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti del cambiamento climatico. Attualmente, l’artista è in mostra anche a Palazzo Strozzi a Firenze.

Divenuto figura simbolo dell’incontro tra arte, tecnologia e scienza, Olafur Eliasson ha disegnato anche il trofeo del Breakthrough Prize, assegnato annualmente nei campi della fisica fondamentale, della matematica e delle scienze della vita.

Tutto questo evoca il nome dell’artista, e tutto questo aleggia nell’esperienza che ci apprestiamo a vivere.

Esperienza 1. Simmetria

Dopo un primo momento di distacco dal mondo e di spaesamento, mentre gli occhi ancora si abituano all’oscurità dell’ambiente, la luce che mi guida è quella di Navigation star for utopia, la prima opera che si incontra nel percorso: una figura geometrica in 3D illuminata dall’interno, che attraverso le sue tante facce trasparenti proietta forme e colori sulle pareti circostanti. Ricorda un astrolabio o una rosa dei venti, e sembra offrire una direzione ai visitatori appena entrati. Al centro dell’opera c’è però soprattutto un’idea chiave della fisica quantistica, quella di simmetria.

L’opera “Navigation star for utopia” in acciaio, legno, vetro colorato, ottone, vernice e luci Led apre la mostra di Olafur Eliasson al Castello di Rivoli (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista ; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Non importa esattamente di quale simmetria si tratti, qui la similitudine ha più un valore evocativo che descrittivo. Ma la simmetria è nel poliedro fantastico di Eliasson così come nella più intima struttura quantomeccanica del mondo. Nella moderna teoria dei campi, infatti, tutte le particelle elementari sono espressioni di particolari simmetrie all’interno di spazi astratti, lontani dalla nostra esperienza quotidiana ma capaci di descrivere con grande precisione il regno dell’ultrapiccolo.

Il Modello Standard delle particelle elementari è lo schema teorico più completo che abbiamo della realtà microscopica, ed è interamente basato sulle simmetrie. Il Modello Standard si basa però su tante simmetrie diverse. Nel mondo reale, manca l’analogo del poliedro fantastico di Eliasson, che permetta di orientarsi con l’ausilio di un’unica simmetria da cui le altre si possano derivare come geometrie proiettate sulle pareti. Non sono mancati tentativi in tal senso, cioè di giungere a una visione unificata della fisica, a un’unica simmetria più fondamentale di tutte le altre. Ci aveva provato anche Einstein. Ma tutti i tentativi sono finora falliti, resta solo la speranza che l’unificazione possa essere raggiunta in futuro.

Esperienza 2. Proiezione olografica

Le proiezioni di Navigation star for utopia rimandano a un altro concetto chiave della fisica teorica, il principio olografico. Quest’idea, nata una trentina d’anni fa, sta riscuotendo un crescente successo nell’ambito della fisica teorica pur essendo ancora altamente speculativa. L’idea fu avanzata per la prima volta dal premio Nobel olandese Gerard ’t Hooft, per poi essere applicata da Juan Maldacena alla Teoria delle stringhe, che descrive le particelle elementari come minuscole corde vibranti. Quando Maldacena ne parlò a un meeting di scienziati nel 1998, i partecipanti lo celebrarono intonando una canzone ispirata alla Macarena.

Caleidorama
Un’altra immagine prodotta da un caleidorama (A. Parlangeli).

Il principio olografico afferma che, in determinate condizioni, ciò che avviene in uno spazio fisico è scritto sulla superficie che lo racchiude. È come dire che una mela può essere completamente descritta dalla sua buccia, o che un pacco regalo è leggibile dalla carta che lo contiene. Questo è sorprendente, in quanto si può dimostrare che, in matematica, il numero di punti racchiusi all’interno di un solido geometrico 3D tradizionale, come un cubo o una sfera, è molto maggiore del numero di punti di una qualsiasi superficie (più precisamente, se si prova a mettere in corrispondenza ogni punto della superficie con un punto del volume, con un procedimento messo a punto dal matematico Georg Cantor a fine ’800, si trova sempre che gran parte dei punti del volume restano esclusi).

Il mistero dei buchi neri

Nonostante questo, ci sono diverse buone ragioni per cui, secondo i fisici, il principio olografico potrebbe essere valido. Consideriamo per esempio i buchi neri. Nella seconda metà del secolo scorso, il fisico Stephen Hawking si accorse che una proprietà termodinamica fondamentale di questi corpi celesti estremi, l’entropia, sembra essere proporzionale alla loro superficie. Tutto ciò che cade in un buco nero, infatti, lascerebbe una traccia sull’orizzonte degli eventi, cioè il limite ultimo oltre cui nulla di quello che viene inghiottito può tornare indietro, nemmeno la luce. Insomma, sulla superficie del buco nero, in linea di principio, si potrebbe leggere tutta la sua storia passata, e quindi tutto quello che contiene.

Come in un vecchio film

Come anticipato, il fisico Juan Maldacena ha applicato un principio simile a uno spazio astratto che rappresenta un modello stilizzato di universo. Si tratta, sia chiaro, di un universo del tutto diverso dal nostro. Il nostro universo è infatti infinito, o almeno si pensa che lo sia, e in ogni caso non si conosce nessuna superficie che lo delimiti. Maldacena ha invece utilizzato uno spazio detto “anti de Sitter”; e ha dimostrato che  tutto ciò che avviene al suo interno è equivalente a quello che avviene sulla sua superficie, ma con leggi fisiche diverse. La differenza principale è che nello spazio anti de Sitter 3D è presente la gravità, in quello 2D che lo circonda la gravità non c’è. Per il resto, il mondo in superficie può essere proiettato in 3D esattamente come, nei vecchi cinema, un film veniva proiettato dalla pellicola al grande schermo. Possiamo pensare al principio olografico come a un proiettore che da una superficie proietta l’universo. L’idea è interessante per i fisici, perché ormai da decenni stanno cercando una teoria capace di descrivere la gravità in termini quantistici, ma non ci riescono (la già citata teoria delle stringhe è uno dei tentativi in tal senso). La speranza allora è quella di trovare la soluzione sulla superficie, per proiettarla sul mondo reale. Per questo i colleghi di Maldacena, nella conferenza del 1998, gli hanno dedicato una canzone.

Esperienza 3. Osservabile e osservato

Tutto questo mi balena nella mente per un istante mentre osservo Navigation star for utopia. Penso alla simmetria e al principio olografico, di fronte alle luci e ai colori proiettati sulle pareti in quell’angolo della stanza. Se gli spunti terminassero qui, però, certamente non avrei una motivazione sufficiente a scrivere queste righe. Quello che mi spinge più di ogni cosa sono i sei caleidorami che si susseguono lungo il percorso nella Manica Lunga.

Come in un caleidoscopio

I caleidorami, lo ricordiamo, sono installazioni costruite appositamente per questa mostra, che immergono gli spettatori in un panorama costruito come un caleidoscopio. Si entra in una cupola costituita da specchi che riflettono lo spazio intorno e al tempo stesso moltiplicano le luci prodotte da appositi fasci luminosi che attraversano flussi o specchi d’acqua. Tutti i caleidorami sono diversi, e producono immagini diverse; ma si basano su questi elementi essenziali.

Entrare in un caleidorma può essere un’esperienza fortemente emozionale, pur senza distinguere il tripudio di fenomeni ottici che ivi ha luogo: rifrazione, riflessione, dispersione dei colori e tanto altro. Se ne potrebbe discutere all’infinito ma, anche qui, non è questo che ci interessa. Quello che conta sono un paio di considerazioni che ci riportano alla meccanica quantistica. La prima, forse meno rilevante, è quella che ci riporta al già discusso concetto di simmetria, in quanto le luci e le immagini stesse dello spettatore si moltiplicano all’infinito espandendo enormemente lo spazio percepito a chi si trova nel centro. E la simmetria cambia a seconda degli angoli che gli specchi formano tra loro.

Your power kaleidorama (Il tuo caleidorama potente) di Olafur Eliasson (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista ; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Tutto è indeterminato

La seconda considerazione, che ci porta al cuore della questione, riguarda il rapporto tra osservabile e osservato. Chiunque abbia studiato un po’ di meccanica quantistica sa infatti che questa relazione è al centro della visione quantistica del mondo, e in particolare del Principio di indeterminazione di Heisenberg. Questo principio, pubblicato dal fisico tedesco Werner Heisenberg nel 1927, asserisce che non si può conoscere con precisione arbitraria sia la posizione sia la velocità di una particella elementare; proprio perché nel misurare le proprietà di una particella ­­– cioè nel semplice atto di osservarla ­– ne perturbiamo lo stato, per cui quanto meglio ne conosciamo la posizione in un determinato istante, tanto meno ne conosciamo la velocità; e dunque la posizione in un istante futuro. Il principio di indeterminazione si può formulare in modo molto operativo: per osservare una particella, occorre illuminarla, quindi colpirla con fotoni (i quanti di luce) o altro. In questo modo, possiamo determinare il suo stato; ma sempre con una certa incertezza, proprio perché, colpendola con altre particelle (i fotoni o altro), la disturbiamo.

Più in generale, in meccanica quantistica, ogni misura che si effettua su una particella (tranne in casi particolari) ne altera lo stato. Ma proprio qui nasce un’insoddisfazione a livello concettuale e filosofico: perché deve esistere questa dicotomia tra osservato e osservatore? In altre parole, perché noi, in quanto osservatori, entriamo nella descrizione quantistica in modo diverso rispetto alle particelle che osserviamo? Non siamo tutti parte della stessa realtà?

Si è provato a rispondere in modo diverso a queste domande, ma una risposta definitiva non c’è.

Osservatori non neutrali

Qualcuno ha notato che nel passaggio dal microcosmo al macrocosmo, cioè dalle particelle indeterministiche alla realtà apparentemente deterministica alla quale siamo abituati, l’ambiente gioca un ruolo determinante, perché l’interazione tra innumerevoli entità quantistiche sarebbe talmente complessa da portare a una descrizione statistica di tipo diverso, più simile alle leggi della fisica classica (cioè non quantistica) a noi familiari. Qualcun altro ha notato che la particolarità di noi come osservatori è che siamo entità coscienti. Di certo, nel trovarmi in mezzo alle immagini riflesse dagli specchi dei caleidorami, in cui la mia presenza compare in maniera inscindibile dalle figure colorate che contemplo, mi sento parte dell’opera così come un osservatore che osservi una particella quantistica in movimento, e mi domando quanto quest’esperienza mi possa insegnare più in generale di quel complesso rapporto che c’è sempre e comunque tra me e la realtà di cui faccio parte e in cui agisco. Spesso ci piace pensarci al di fuori di ciò che guardiamo, soprattutto se ci arroghiamo il diritto di esprimere un giudizio. Queste opere ci ricordano che non è così. Noi siamo parte integrante della realtà, ci stiamo dentro come in un caleidorama, e anche se questa realtà non ci piace faremmo meglio a prenderne coscienza.

Rete di fluttuazioni

C’è di più. Al di là della nostra immagine riflessa, nei caleidorami prende forma in modo più sottile anche l’interazione tra noi e l’ambiente. Le figure che si susseguono nelle installazioni, infatti, come già detto sono generate da fasci di luce che passano attraverso prismi e strati d’acqua, per cui mutano in continuazione a causa delle lievissime fluttuazioni dei mezzi che attraversano. Queste fluttuazioni dipendono da innumerevoli fattori ambientali, non ultimo il modo in cui giunge dalla rete idrica il flusso d’acqua stesso. Ma dipendono anche da noi spettatori, e poco importa se siamo noi in persona con il nostro corpo, con il nostro respiro, oppure il nostro vicino che muove un passo per allontanarsi da noi esclamando “Ah!”, condizionato dalla nostra semplice presenza, generando con il piede e con la voce fiotti di vibrazioni che inondano l’aria e l’ambiente. E qui, dunque, noi e gli altri spettatori contribuiamo tutti all’opera in modo diretto e indiretto, attraverso la nostra interazione gli uni con gli altri e con l’ambiente. Diveniamo un tutt’uno con i caleidorami e con la stanza, e in questo ciascuno può provare un’emozione diversa.

Il fascino dell’autoreferenzialità

Ai matematici e agli artisti piace l’autoreferenzialità. Basti pensare agli autoritratti di Leonardo da Vinci e di Rembrant van Rijn, oppure all’incredibile Las Meninas di Diego Velázquez, oppure a un film come di Federico Fellini, che prende consistenza e forma mentre viene girato. Oppure ancora l’opera Seeing Reading (1979) di Joseph Kosuth, esposta al piano terra della Manica Lunga, che consiste in una scritta color cobalto in neon che asserisce: “This object, sentence, and work completes itself while what is read constructs what is seen“.

Pericoli logici

Nella logica bisogna prestare attenzione all’autoreferenzialità, perché crea paradossi; come nel caso dell’espressione “questa frase è falsa” (paradosso del mentitore). Oppure come nel caso dell’insieme di tutti gli insiemi che non contengono sé stessi (paradosso di Russell). Per questo, a lungo la logica ha cercato di rifuggire dall’autoreferenzialità. Oggi, però, l’atteggiamento è diverso, e si tende ad accogliere l’autoreferenzialità senza rinunciare a eliminare i paradossi. Tanto che perfino Kurt Gödel, per dimostrare i suoi teoremi di incompletezza – forse il punto più alto della logica di tutti i tempi –, si è basato su una riformulazione moderna del paradosso del mentitore.

Your memory of the kaleidorama
Your memory of the kaleidorama (Il tuo ricordo del caleidorama) di Olafur Eliasson (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Esperienza 4. Intrecciati nell’entanglement

L’entanglement è un fenomeno quantistico messo in evidenza per la prima volta da Albert Einstein in un articolo scritto con Boris Podolsky e Nathan Rosen nel 1935. Einstein, in realtà, voleva mettere in evidenza il lato paradossale di questo fenomeno, perché non digeriva la natura probabilistica della meccanica quantistica e cercava di metterne in luce la presunta incoerenza. Non ci riuscì mai davvero, ma riuscì a dimostrare che la realtà a livello microscopico si comporta in maniera davvero strana. L’entanglement è infatti una proprietà grazie alla quale due o più particelle si guardano, potremmo dire, come in uno specchio; per cui se se ne tocca una, alterandone lo stato, immediatamente anche l’altra ne risente.

Immaginiamo per esempio due particelle-trottole correlate, cioè legate da entanglement, che ruotino attorno allo stesso asse ma in senso inverso. Poi immaginiamo di separarle e di portarle ai lati opposti della Galassia. Quindi cambiamo l’asse di rotazione di una delle due… che cosa succederà all’altra? Se le particelle sono rimaste correlate, anche l’altra cambierà il suo asse, per continuare a ruotare in senso opposto all’altra. E il cambiamento sarà istantaneo, come se le due comunicassero tra loro rompendo il limite della velocità della luce. In realtà si può dimostrare che, nonostante questa proprietà, due osservatori che usino le due particelle per comunicare tra loro non potranno mai scambiarsi informazioni a velocità superiori a quella della luce. E quindi la relatività resta valida, senza contraddizioni.

L’entanglement è una proprietà che non ha analoghi nel mondo classico. Però, osservando le immagini di me e degli altri visitatori riflesse negli specchi dei calidorami non posso fare a meno di pensare alla relazione che attraverso questa esperienza si stabilisce tra me e loro. Siamo parte della stessa realtà, legati gli uni agli altri dalla compresenza in un’opera che ci include tutti nel prendere forma essa stessa.

Esperienza 5. Tutto è relazione

E arriviamo così all’ultimo punto, messo in evidenza dal fisico Carlo Rovelli nel suo ultimo libro, Helgoland (Adelphi). E cioè l’idea che, nella realtà di cui facciamo parte, quello che conta non sono tanto le cose, quanto le relazioni. Questo è un punto di vista detto “relazionale”, che nasce per risolvere la dicotomia tra osservatore e osservato di cui abbiamo detto in precedenza. Scrive Rovelli in Helgoland: «Pensiamo il mondo in termini di oggetti, cose, entità: un fotone, un gatto, un sasso, un orologio, un albero, un ragazzo, un paese, un arcobaleno, un pianeta, un ammasso di galassie… Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire l’uno sull’altro. È a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non agli oggetti isolati (…). Invece di vedere il mondo fisico come un insieme di oggetti con proprietà definite, la teoria dei quanti ci invita a vedere il mondo fisico come una rete di relazioni di cui gli oggetti sono i nodi». Dunque non esiste più il confine tra osservatore e realtà: quello che conta sono le interazioni, e tutto interagisce con tutto. Fino ad arrivare alla conclusione estrema, che verosimilmente troverebbe d’accordo Olafur Eliasson: «Non ci sono proprietà al di fuori delle interazioni».

Link e approfondimenti

L’intervista alla curatrice della mostra su Olafur Eliasson al Castello di Rivoli, Marcella Beccaria.
• Il sito ufficiale di Olafur Eliasson e quello della mostra Olafur Eliasson: Nel tuo tempo a Firenze.
• L’articolo di Josway sul paradosso dell’informazione.
• Alcune parole di Paul Dirac su matematica e bellezza.
Un articolo del New York Times sul principio olografico e la “Macarena” dedicata a Juan Maldacena.
• L’articolo sull’entanglement e sul libero arbitrio.
• Carlo Rovelli spiega l’interpretazione relazionale della meccanica quantistica attraverso l’opera dell’artista Cornelia Parker.
• Il libro Helgoland (Adelphi) di Carlo Rovelli.
• L’articolo sull’autorefenzialità di Furio Honsell.

 

Il meglio di Josway nel 2022

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Cari lettori,

nell’augurarvi un felice 2023, vorrei salutarvi facendo il punto sul 2022 appena trascorso.

Il suono della scienza

L’anno si è aperto con un post sulla sonificazione di Andrea Capozucca, Il suono nascosto della realtà, che offre una ricca rassegna di esempi in cui i dati sono tradotti in suoni per comprenderne più a fondo il significato. L’articolo è stato visualizzato 999 volte… spero dunque che si possa arrivare alle quattro cifre dopo questa mail. Sempre Andrea ha pubblicato, subito dopo, una ricca intervista in due puntate a Wanda Díaz-Merced, astronoma indicata da BBC come una delle 7 pioniere della scienza moderna. In seguito a questa intervista, Wanda è stata poi ospite del Festival della scienza di Fermo e del Festival della scienza di Genova.

La grande bellezza

Sempre a gennaio, Sandra Lucente ci ha accompagnato tra le geometrie di Castel del Monte (2.634 visualizzazioni), un luogo ricco di simboli e di significati, che come pochi altri stimola l’immaginazione. Giorgio Scozzafava, invece, ci ha fatto scoprire alcuni angoli di Roma, tra cui la Fontana dell’Acqua Paola dove sono state girate le prime scene del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

L’ultima foto di Venezia

Febbraio ci ha regalato una meravigliosa immagine di storni in volo, premiata dalla Nasa, e le indimenticabili emozioni dell’aurora boreale. Abbiamo raccontato con un fumetto dell’ex ingegnere statunitense Jorge Cham la sonda della Nasa Parker Solar Probe, il primo manufatto umano ad aver toccato l’atmosfera esterna del sole. Poi abbiamo incontrato il fotografo Mario Peliti, che ci ha raccontato come sta documentando gli ultimi respiri – ahimé – di Venezia. E sempre a Venezia abbiamo intervistato Anish Kapoor in occasione dell’apertura della sua duplice mostra, a Palazzo Manfrin e alle Gallerie dell’Accademia, in cui per la prima volta ha presentato opere realizzate in Vantablack.

Pi greco

Il 14 marzo, meglio noto ai matematici come 3.14 o “giorno di pi greco”, abbiamo immancabilmente riproposto il post di Furio Honsell sul numero trascendente più celebrato di tutti i tempi. E siamo stati in un monastero buddista per imparare i segreti della meditazione zen (curiosamente, è una tecnica di interesse per i manager, così come l’apnea)

Elon Musk, Donald Trump e la guerra dei social network

Ad aprile ci siamo proiettati, con il rover Perseverance, sulla superficie di Marte. Mentre, a maggio, Carlo Rovelli ci ha portato all’interno di un buco nero con un’inedita intervista sul paradosso dell’informazione. Sempre a maggio, in un post molto attuale su Elon Musk, Donald Trump e la guerra dei social network, Pietro Battiston ha toccato molti temi che ha approfondito in una serie di cinque puntate sulla scienza delle reti. Nei suoi post, Battiston ha parlato più volte di fake news; a novembre Massimo Polidoro ci ha svelato come smontarle, dialogando con i negazionisti.

In hotel, nel Metaverso

Ancora non vi basta? Siamo stati nel primo hotel del metaverso, nel museo del grande pennello Cinghiale, nei borghi più belli d’Italia, nel luogo più santo di Roma. E Maurizio Levi ci ha portato con i suoi ricordi e con le sue foto tra gli Himba della Namibia e tra le rovine di Berenice Pancrisia, il leggendario Eldorado degli Egizi.

Senza respiro

Nell’ultima parte dell’anno, abbiamo commentato il Nobel per la fisica di quest’anno, assegnato al complesso fenomeno dell’entanglement quantistico, che lo stesso Einstein aveva definito “spooky action at a distance”. Abbiamo incontrato David Quammen ­­– il celebrato autore di Spillover (Adelphi) ­che anni fa aveva profetizzato l’arrivo di una pandemia di un nuovo coronavirus proveniente dalla Cina – in occasione dell’uscita del suo nuovo libro Senza respiro (Adelphi), sull’origine e sull’evoluzione del Covid 19. E, in seguito a un recente esperimento che ha anche risvolti militari, abbiamo fatto il punto sulla fusione nucleare.

Arte, ottica e neuroscienze

Per il filone Arte&Scienza, siamo stati nel sito di Virgo, a Pisa, a visitare l’installazione di land art interattiva Frange di interferenza. In ascolto del cosmo. E siamo stati al Castello di Rivoli per la mostra Orizzonti tremanti di Olafur Eliasson, ricca di suggestioni e di spunti legati alle leggi dell’ottica e alle neuroscienze, di cui ci ha parlato la curatrice Marcella Beccaria.

La scienza di Dante

A fine anno abbiamo inaugurato anche una nuova sezione di Scienza&Letteratura, con un articolo di Italo Bischi sul programma di divulgazione scientifica di Dante Alighieri (sorprendentemente attuale!), impreziosito da un’illustrazione di Giorgia Gigì. Presto ne seguiranno altri sulla scienza nella Divina Commedia, il programma è già tracciato.

Addio, Stavros

L’anno si chiuderebbe qui nel migliore dei modi, proiettandoci in un futuro ricco di promesse. Purtroppo, non posso fare a meno di ricordare un amico che nei mesi scorsi ci ha lasciato, l’ex direttore dell’European Gravitational Observatory (Ego) di Pisa, la struttura che gestisce il rivelatore di onde gravitazionali Virgo. Ci lascia in eredità il suo ricco pensiero, in particolare sul rapporto tra arte e scienza, di cui ci resta una lunga intervista e un’interminabile quantità di iniziative che i suoi colleghi di Ego si stanno impegnando a portare a termine.

La gloria del leone

Vorrei però concludere con leggerezza, ironicamente potremmo dire “in gloria”, ricordando il post degli anni passati che più di tutti ha riscosso successo. Indovinate qual è? Posso solo svelare che, con le sue 7.584 visualizzazioni, fa davvero la parte del leone.

Buon anno a tutti!