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L’esperienza della luce

Sulla soglia d’ingresso, al terzo piano della Manica Lunga del Castello di Rivoli, c’è una scritta: You are about to start a journey, “State per cominciare un viaggio”. Firmato Olafur Eliasson, l’artista islandese-danese qui in mostra fino al prossimo 26 marzo. «Questa frase è un saluto che l’artista fa a chi sta per entrare nello spazio espositivo, che è molto al buio», spiega la curatrice Marcella Beccaria. E in effetti, appena chiusa la porta alle proprie spalle, ci si trova immersi in un’oscurità in cui all’inizio non è facile orientarsi e ci si muove insicuri, nel costante timore di urtare qualcosa. Ma la prima opera che si incontra, Navigation star for utopia, è quasi un’ancora di salvezza: forse una bussola, forse una rosa dei venti, forse un astrolabio che proietta complessi giochi di luce sulle pareti.

L’opera “Navigation star for utopia” in acciaio, legno, vetro colorato, ottone, vernice e luci Led apre la mostra “Olafur Eliasson: Orizzonti tremanti” al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea
(Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista ; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

È il punto di partenza di un percorso che presenta una sequenza di sei “calidorama”, neologismo inventato dall’artista per indicare le sue opere, un po’ caleidoscopio, un po’ panorama. Sono installazioni basate su gruppi di specchi, sui quali vengono proiettati fasci luminosi, alterati o scomposti nelle varie componenti cromatiche attraverso il passaggio attraverso lenti o flussi d’acqua. Il risultato sono linee tremolanti o macchie di colore che si muovono e si moltiplicano attraverso gli specchi, ampliando l’orizzonte in cui si trova immerso l’osservatore.

“Stando all’interno di questi caleidorama, ti potresti sentire come di fronte al tempo mentre si svolge. È un’opportunità per riconsiderare il tuo senso della proporzione e del tempo, come quando si vedono le immagini del telescopio per lo spazio profondo che provengono dai limiti della nostra immaginazione” (Olafur Eliasson)

 

In fondo alla sala, quasi a definire lo spazio in cui ci troviamo in relazione al più ampio spazio cosmico, stanno due tronchi o monconi di rami. Uno poggia sul vetro della finestra, orientato lungo l’asse della Manica Lunga, proiettato verso l’esterno, verso il cielo. L’altro è appeso al soffitto, e ha una calamita fissata al suo interno che lo ancora alla direzione nord-sud. L’opera si chiama Your Non-human friend and navigator, ed è costituita da due driftwood, pezzi di legno modellato dal mare che l’artista ha raccolto sulle coste islandesi.

Olafur Eliasson, “Your living kaleidorama” (Il tuo caleidorama vivente. Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

L’intervista

Mentre torno indietro verso l’uscita, chiedendomi che cosa ho appena visto, incontro un’assistente che mi suggerisce: “Per l’artista questa mostra è un viaggio”. Già, un viaggio in uno spazio interiore in cui perdersi tra giochi di luce di cui si è protagonisti per poi riemergere e orientarsi in un ambiente cosmico. Per capire meglio come questa magia possa avvenire, e come effettivamente l’artista e il museo abbia pensato l’installazione, abbiamo incontrato la curatrice Marcella Beccaria.

Qual è il senso di questa mostra? È veramente un’esperienza che deve essere pensata come un viaggio?

È utile fare una premessa. Il lavoro di Olafur Eliasson si basa molto sull’interpretazione personale e soggettiva del visitatore. Ci sono artisti che vogliono controllare in maniera profonda il contenuto delle loro opere e il modo in cui vengono percepite; lo fanno in modi diversi, talvolta a partire dal titolo, spesso cercando di veicolare contenuti molto specifici e vincolanti. Olafur Eliasson non appartiene a questa categoria. È un artista che non intende dare un significato chiuso alle proprie opere. Anzi, per lui l’opera d’arte è una macchina che attiva i meccanismi della percezione ed è messa in funzionamento nel momento in cui c’è una visitatrice o un visitatore. Quindi l’opera in sé, da sola, non significa nulla. Per l’artista è fondamentale l’apporto delle persone, ciascuna delle quali ne ha una sua particolare esperienza. La scritta all’ingresso You are about to start a journey è un saluto rivolto a chi sta per entrare, per allertarlo del fatto che sta per immergersi in un ambiente buio, in cui è consigliabile lasciare che i propri occhi si abituino con lentezza. Siamo purtroppo ormai tutti oberati, ossessionati dalla gestione del tempo, e anche laddove finalmente visitiamo di persona i musei tendiamo qualche volta a essere condizionati dal desiderio di voler immediatamente vedere qualcosa. Per vedere qualcosa in questa mostra è consigliabile attendere che i nostri occhi si adattino, che le pupille si dilatino e ci consentano di leggere l’ambiente.

Ritornando alla metafora del viaggio, è vero che ci sono alcuni riferimenti riscontrabili nella mostra. Per esempio, il percorso si apre con l’opera Navigation star for utopia, che ha una forma geometrica estremamente complessa ma riconducibile alla rosa dei venti. E alla fine della Manica Lunga c’è un’altra opera nella quale è inserito un magnete che la orienta verso nord. Quindi sì, la metafora del viaggio è possibile. Però ci tengo a dire che Olafur Eliasson non è mai troppo letterale, quindi non è necessariamente da interpretarsi così.

Your memory of the kaleidorama (Il tuo ricordo del caleidorama) di Olafur Eliasson (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Lei ha parlato di un aspetto scientifico e di uno spirituale. Ma i due sono veramente separati tra loro? Si possono distinguere?

Dipende. Alcuni contenuti delle opere di Eliasson si riallacciano alla storia della scienza, a una lunghissima genealogia che va dai primi esperimenti di Newton sulle proprietà della luce ai principi dell’ottica. Sicuramente qualche scienziato si può divertire enormemente nel ritrovare le proprietà della diffrazione, perché le opere tecnicamente funzionano facendo sì che i raggi di luce colpiscano alcuni bacini d’acqua, che a loro volta per diffrazione restituiscono immagini sugli schermi dei caleidorami. L’immagine che si vede è sempre diversa, proprio perché la rifrazione della luce dipende dal modo esatto in cui l’acqua è più o meno mossa.

L’accesso allo spazio però non è solo visivo, ci si entra con tutto il corpo. Queste macchine che Olafur ha creato funzionano nel momento in cui ciascuno dei visitatori entra nell’opera. Qualcuno resta affascinato dal punto di vista scientifico, qualcuno vi ritrova un altissimo significato spirituale. Prima ancora dell’inaugurazione abbiamo fatto un test; alcune persone mi hanno detto che stavano per scoppiare a piangere, perché le emozioni che provavano erano molto intense e molto spirituali.

Your power kaleidorama (Il tuo caleidorama potente) di Olafur Eliasson (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista ; neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

Questa mostra, più che una collezione di opere, si può vedere come un’unica opera pensata per lo spazio specifico in cui si trova. È stata concepita così?

Sì, esattamente. Siccome lo spazio della Manica Lunga è molto connotato, molto specifico, tecnicamente anche per noi addetti ai lavori è uno spazio difficile che comporta sempre superare alcune sfide, quello che fin da subito avevo chiesto a Olafur quando abbiamo cominciato a parlare della mostra è stato di tenerne conto, e lui è sempre stato ampiamente d’accordo. Quindi sì, in questo spazio ci sono opere specifiche, ma è pensato come un unico insieme. Inoltre le opere sono state pensate per svolgersi ed essere vissute nel tempo. Se poi un visitatore vuole percorrere la Manica Lunga a ritroso o fermarsi di più in un punto piuttosto che in un altro, questo è chiaramente una scelta individuale. Però le opere sono state pensate per questo spazio e sono state allestite seguendo una determinata sequenza.

Your non-human friend and navigator (Il tuo amico non umano e il navigatore) di Olafur Eliasson (Photo: Agostino Osio Courtesy l’artista neugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2022 Olafur Eliasson).

E in che modo è stata costruita la sequenza delle installazioni?

In modo da presentare tipologie visive, fisiche e percettive differenti. Intenzionalmente abbiamo messo all’inizio del percorso l’opera che ha il macchinario più complesso e restituisce l’immagine più semplice, perché volevamo mettere in evidenza l’esperienza visiva, che per molte persone è la più seducente. Volevamo anche che si vedesse subito che c’è un apparato che crea la visione.

Poi le opere succedono nello spazio. Il primo caleidorama che si incontra è quello con l’apparato tecnico più articolato ma anche quello che restituisce l’immagine di una linea se vogliamo più semplificata. L’opera successiva al contrario ha un apparato tecnico molto meno ingombrante e restituisce un’immagine estremamente composita, molto articolata. Seguono ulteriori variazioni su queste due possibili alternanze tra meccanismi complessi e tipologie di immagini restituite. Perché poi ogni opera ha una sua natura: cambiano le forme delle vasche, cambiano le tipologie di proiettori, cambiano gli angoli con i quali gli specchi che compongono le strutture si incontrano.

Al di là degli aspetti tecnici, ci sono altre idee scientifiche che caratterizzano queste opere?

Ci sono molti aspetti che riguardano le neuroscienze. Olafur Eliasson è molto interessato a questo, in particolare agli studi di Francisco Varela degli anni ’70, che riguardano proprio il modo in cui la fisicità delle persone implica una conoscenza e una produzione di spazio molto specifica, ed è questo il motivo per cui, come dicevo prima, la presenza dei visitatori è parte integrante del contenuto.

 

Link e approfondimenti

La scienza delle reti 5: dimmi con chi vai…

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Sappiamo che di alcune reti – come quella delle interazioni fisiche tra i cittadini di un Paese, importante per studiare la diffusione di epidemie – non avremo mai una visione completa; ma possiamo cercare di ricostruirne le caratteristiche fondamentali per fare alcune previsioni. Tra le caratteristiche da considerare ci sono sicuramente la densità (cioè quanti archi sono presenti) e la distribuzione dei gradi (cioè quanto questi archi siano concentrati intorno a una parte dei nodi). È legittimo domandarsi se ci sia altro che è utile sapere di una rete.

Amici degli amici degli amici

La risposta ce la dà già la funzione “Persone che potresti conoscere” di Facebook, che in pratica cerca di indovinare, e sottoporci, le nostre amicizie non ancora “registrate” nella piattaforma. Per fare ciò, utilizza diverse fonti, ma secondo la documentazione ufficiale avere amici in comune “è il motivo più comune per cui vengono proposti suggerimenti”. Evidentemente Facebook sta sfruttando una caratteristica della rete sociale dell’amicizia che non riguarda semplicemente il numero medio di amici, o il fatto che alcuni hanno più amici di altri, ma il fatto che gli amici degli amici tendono a essere amici (più di persone prese a caso).

Raggruppamenti

È tipico di molte reti sociali che due nodi collegati a uno stesso nodo siano collegati anche tra loro, e questa caratteristica è detta clustering. Quindi una rete con clustering massimo è tale che i miei amici sono sempre amici tra di loro, e gli amici di un mio amico (me compreso) pure… in altre parole, è una rete a “isole” all’interno delle quali tutti sono amici, e all’esterno delle quali non esistono archi, come nelle due reti a sinistra nella figura sottostante. Invece una rete con clustering nullo è una in cui i miei amici non sono mai amici tra di loro, come nella rete circolare a destra.

Reti con clustering massimo, a sinistra, e nullo, a destra.

Interessi in comune

Come mai i miei amici sono spesso amici tra di loro? La risposta ovvia è che magari li ho fatti incontrare io. Ma ci può essere anche un altro motivo: ci siamo incontrati e trovati simpatici perché abbiamo interessi o gusti in comune. Per esempio, potrei stringere relazioni con persone che frequentano la mia stessa scuola, lavorano per la mia stessa azienda o frequentano concerti che piacciono a me – persone che facilmente stringono relazioni anche tra loro. Questo fenomeno si chiama omofilia (dal greco “amore per il simile”) ed è un altro modo in cui Facebook prova a suggerirmi persone che potrei conoscere: appunto, cercandole tra chi nella piattaforma condivide i miei interessi. Così come per il clustering, esiste un modo per misurare anche l’omofilia in modo preciso: per esempio, se in un gruppo di utenti Facebook conosciamo di ognuno il cantante preferito, possiamo misurare quanto le persone che hanno lo stesso cantante preferito tendano a essere amiche tra loro.

A gruppi

È frequente che le reti sociali abbiano un clustering alto e dimostrino un alto grado di omofilia, e questo ha a che fare, come accennato, con il modo in cui si formano queste reti. Magari non hanno proprio la struttura superconnessa delle due “isole” nella figura sopra, ma tendono comunque ad avere delle comunità: gruppi di nodi più connessi tra loro che con il resto della rete. Questi gruppi sono detti cluster e gli studiosi delle reti hanno sviluppato molti metodi per individuarli, in reti di ogni tipo. Nella figura sotto, vediamo una rete i cui nodi sono account Twitter dei parlamentari europei, e un arco indica che un parlamentare ha fatto un retweet di un tweet di un altro parlamentare. Ogni nodo è stato colorato in modo diverso a seconda del gruppo parlamentare: anche se tutti i nodi raffigurati sono, in un modo o nell’altro, indirettamente collegati tra loro, è chiaro che i collegamenti sono particolarmente forti all’interno dei gruppi, dimostrando cioè una struttura a cluster.

Struttura dei retweet tra parlamentari europei  (Fonte https://appliednetsci.springeropen.com/articles/10.1007/s41109-016-0001-4/figures/2 – licenza CC BY 4.0).

La logica del lockdown

I cluster non servono solo a rendere più colorate le rappresentazioni delle reti: hanno implicazioni importanti per il contagio in caso di malattie infettive. Consideriamo una popolazione che abbia una struttura a isole: piccoli gruppi di persone che si frequentano molto tra loro, ma nessun contatto tra gruppi diversi. Se anche una malattia dovesse diffondersi in un gruppo, non riuscirebbe a propagarsi agli altri, quindi alla fine raggiungerebbe poche persone. E questa in fondo è la logica dei lockdown: è chiaro che non ferma il contagio per esempio tra conviventi – anzi, semmai lo facilita – ma si impedisce la diffusione da una famiglia all’altra (non a caso in Italia il DPCM del 26 aprile 2020, all’uscita dalla fase di lockdown più duro, stabiliva che si potessero frequentare anche congiunti non conviventi – con l’idea appunto che ogni famiglia rappresentasse un piccolo cluster).

Collegamenti pericolosi

Tanto più la rete di contatto di una popolazione ha una struttura a cluster, tanto più diventano importanti quei pochi archi che collegano tra di loro i cluster. E questo è una ragione per cui durante tutte le varie ondate della pandemia di COVID-19 ci sono stati blocchi di vario tipo su base geografica (divieto di transito inizialmente tra comuni, poi tra regioni e altri Paesi, oltre alla proroga dell’obbligo di green pass alla frontiera): siccome comuni, regioni e Paesi tendono a essere cluster – che in quanto tali tendono a mantenere il contagio all’interno, e quindi limitato – gli archi che rischiano di fare danni maggiori sono quelli tra cluster, come quelli che si creano quando qualcuno si sposta da una regione a un’altra.

Via aerea

Gli strumenti più avanzati di previsione del contagio epidemiologico si basano su modelli che, pur non scendendo al livello del singolo individuo o della singola famiglia, riproducono le principali caratteristiche di una rete, permettendo di simulare la diffusione di un’epidemia. E questo significa sempre più basarsi anche su dati come quelli sugli spostamenti per via aerea. Infatti gli aerei, collegando in poche ore comunità a migliaia di chilometri di distanza, possono rappresentare un vettore potentissimo per il contagio, qualcosa che i virus di un paio di secoli fa non avevano a disposizione e che ha cambiato i connotati delle pandemie, in particolare per quel che riguarda la velocità di diffusione.

Imparare a prevenire

Il nostro percorso nella teoria delle reti, che si era aperto parlando di reti di trasporto, si chiude parlando di reti di trasporto. Di fronte a un mondo più connesso, in cui qualsiasi malattia infettiva può viaggiare velocemente, un’arma fondamentale è la prevenzione, e in particolare lo studio delle connessioni su cui si spostano, proprio come facciamo noi esseri umani, le nostre malattie.

Link e approfondimenti

• Il libro La responsabilità di rete (il Mulino) di Pietro Battiston, e il suo sito.

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Frange nell’erba: la land art guarda alle onde gravitazionali

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Imponente, flebile, effimera. Condivide alcune delle caratteristiche delle onde gravitazionali l’opera Frange di interferenza. In ascolto del cosmo creata dall’artista visivo Luca Serasini e dal sound designer Massimo Magrini proprio in uno dei luoghi dove queste fluttuazioni dello spaziotempo vengono catturate dall’uomo: il rivelatore di onde gravitazionali Virgo, presso l’Osservatorio gravitazionale europeo (Ego) a Cascina, provincia di Pisa. Il progetto, che appartiene al genere della land art, è stato inaugurato l’8 ottobre 2022 in uno spazio esterno dell’osservatorio, vicino al braccio ovest dell’interferometro.

Come suggerisce il nome, a essere raffigurate sono le frange di interferenza, attraverso le quali gli scienziati leggono il passaggio di un’onda gravitazionale registrato da esperimenti come Virgo e le sue controparti statunitense (Ligo) e giapponese (Kagra). Questo segnale, notoriamente minuto – l’esperimento è in grado di rilevare variazioni relative nella lunghezza dei due bracci dell’interferometro pari a un decimillesimo della dimensione di un nucleo atomico – sarà riprodotto da Serasini su scala enormemente più grande in un campo all’interno del sito di Virgo, per permettere a chi visita l’installazione di immergersi in queste figure che portano con sé la traccia di immani collisioni tra oggetti estremi quali buchi neri e stelle di neutroni, avvenute a distanze di milioni o perfino miliardi di anni luce da noi.

Un’opera d’arte interattiva e tutta da esplorare, per tuffarsi nel paesaggio sonoro creato da Magrini, tecnologo che si occupa di sistemi interattivi e arte elettronica presso l’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione del Cnr.

A chi volesse vivere a pieno l’esperienza, si consiglia di indossare scarpe comode e di portare il proprio smartphone e le cuffie per poter ascoltare in stereofonia remoti echi cosmici mentre si passeggia tra le frange scolpite nell’erba, combinati ai rumori dell’ambiente, sia naturali che antropici, come le vibrazioni della terra, il sibilo del vento, il battito delle pale eoliche o l’impatto delle onde del mare sulla costa non lontana.

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L’artista visivo Luca Serasini (a sinistra, foto di Stefano Casati) e il sound designer Massimo Magrini (a destra).

Per scoprire i retroscena di questo incontro tra l’arte contemporanea, il soundscape e l’astrofisica d’avanguardia, Media Inaf ha intervistato l’ideatore dell’opera, Luca Serasini, artista visivo attivo tra Cascina e Marina di Pisa.

Come mai ha deciso di portare la land art a Virgo?

«I primi land artist volevano portare l’arte fuori dalle gallerie e in posti sperduti, difficilmente accessibili: così tu visitatore diventi una parte minuscola dell’opera, che puoi vivere e farne esperienza. I quadri di solito li vedi solo, ne fai esperienza sì ma all’interno di uno spazio raccolto, la galleria. Nella land art ci sono gli agenti atmosferici: ci possono essere la pioggia, i fulmini… È come stare nel deserto: il sentimento di stare da solo insieme a un’opera d’arte nella natura. Io ho iniziato a lavorare al “Progetto Costellazioni“, che l’anno prossimo compie dieci anni, ribaltando le costellazioni e portandole sulla terra, in modo che le persone potessero camminare sulle stelle. Piano piano la cosa si è evoluta: nel 2019, per una residenza d’artista su una spiaggia in Marocco, ho realizzato un pattern di stelle binarie, perché ho scoperto che molte stelle come il Sole nascono in coppia. Ora sto lavorando anche sulle popolazioni di stelle, partendo dalla popolazione I, la più recente, e poi verso quelle più antiche. Quindi sto andando, anche con Frange di interferenza, verso una ricerca sull’origine dell’universo, sempre a ritroso nel tempo. Avendo Virgo “a casa”, mi è sembrato più che naturale poter collaborare con loro. L’allora direttore Lo Surdo mi ha accolto subito e poi la collaborazione è continuata con l’attuale direttore Stavros Katsanevas, Valerio Boschi e Vincenzo Napolano».

Cosa potranno fare i visitatori di Frange di interferenza?

«Per me le onde gravitazionali sono una grande energia che viene sprigionata miliardi di anni fa, che attraversa tutto l’universo e arriva anche sul nostro pianeta. È un fenomeno però invisibile. Con il disegno della frangia di interferenza, di un ipotetico rilevamento da parte di Virgo dell’arrivo di un’onda gravitazionale, lo rendiamo visibile ai visitatori, che possono camminare proprio sopra questa installazione. È come se l’onda gravitazionale forgiasse un tatuaggio sulla Terra. Per ora ho creato i contorni di queste figure in un campo all’interno del sito di Virgo. Adesso, per creare una differenza tra il campo e la figura d’interferenza, taglierò l’erba all’interno delle figure. Per quanto riguarda il paesaggio sonoro costruito da Massimo, poiché siamo all’aperto, lasceremo la possibilità al visitatore di utilizzare il proprio telefono: sarà possibile accedere a una webapp per ascoltare dei soundscape che, grazie a un meccanismo di geo-localizzazione, saranno mutevoli a seconda della posizione relativa del visitatore all’interno dell’installazione».

Frange progetto
Il progetto dell’opera (L. Serasini, pastello su carta).

Questo lavoro di tagliare l’erba influenza in qualche modo le misure del rivelatore?

«Me lo sono chiesto, mi hanno detto di no. Sono abituati a tutta una serie di rumori ambientali, dall’aeroporto ai trattori nei campi».

L’erba però poi cresce, quindi si tratta di un’opera in un certo senso effimera, che si può “catturare” solo in un breve periodo, un po’ come un’onda gravitazionale. Per quanto tempo sarà visibile?

«L’installazione inizia l’8 ottobre e finirà il 22. Questa è infatti una delle peculiarità della land art: il tempo o gli agenti atmosferici spesso la consumano, la modificano o la cancellano. In uno dei punti più alti della land art, Robert Smithson ha creato un’enorme spirale fatta di scogli nel Great Salt Lake in Utah, e siccome il lago è salato cambia il colore e il livello molto spesso. Il ricercatore Raul Armando Amoros Hormazabal parla in un suo testo dell’entropia della land art, un discorso molto interessante».

La land art, ci ha spiegato, nasce per portare l’arte fuori dalle gallerie. Come si concilia questo con la comunicazione scientifica, che dal canto suo vuole portare la ricerca fuori dai laboratori?

«Con i miei progetti, cerco di far vivere ai visitatori l’esperienza del numinoso, del sacro, che è un po’ quello che sento quando parlo del cosmo, delle leggende, e che rivivo ogni qualvolta sono in un campo aperto e realizzo o usufruisco di queste installazioni. Di solito sono molto grandi: per me la land art deve essere minimo 50 metri per 50 metri, il visitatore ci si deve perdere, deve camminare, sentirsi più piccolo rispetto alle dimensioni dell’installazione. Che è un po’ come sentirsi piccolo rispetto all’universo. Questo lavoro poi è una collaborazione con Massimo, l’idea è più mia ma poi abbiamo lavorato assolutamente insieme, e l’aggiunta di un altro senso – l’udito – aumenta la sensazione di numinoso, di essere in presenza di un fenomeno importante».

Come è nata l’idea di scolpire le frange d’interferenza nel campo?

«Ho iniziato la collaborazione senza un’idea precisa di cosa fare. Poi mi è venuto in mente di realizzare proprio una land art, anziché una mostra di lavori. Quando sono arrivato a Virgo, mi hanno fatto fare una visita e ho visto il modellino nella hall. Lì ho scoperto il reticolo di diffrazione ottico che ho poi scelto come disegno per l’opera. Mi è sembrato un pattern molto interessante, astratto, ma che deriva da un fenomeno naturale, la luce che passa attraverso le fessure. Rispetto all’immagine dei cerchi concentrici che viene fuori da Virgo, il procedimento geometrico per realizzare questo disegno in maniera il più possibile precisa è anche più difficile. Durante la pandemia abbiamo fatto due fasi di test in un campo vicino al terminale del braccio ovest di Virgo, grazie a una persona che ci ha offerto diecimila metri quadri di campo coltivato a erba medica gratuitamente. Abbiamo fatto dei test per la realizzazione delle frange, sia tagliando l’erba dentro che tagliando l’erba fuori, oppure mettendo del tessuto non tessuto in un campo praticamente vuoto. Di solito per fare queste cose devi essere in due o tre. Finora ho lavorato da solo ma a me piace anche lavorare da solo: sei solo tu con i picchetti, il martello, in mezzo a un campo in cui tutto il tempo c’è vento. Per me è molto meditativo».

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Luca Serasini durante un test dell’opera (L. Serasini, M. Magrini).

Si è ispirato ad altri progetti di land art oppure si tratta della prima opera di questo tipo dedicata all’astrofisica di frontiera?

«Virgo ha lavorato molto con l’artista argentino Tomás Saraceno, mandando dei segnali laser nel cielo, sia a Roma che qui a Pisa, e forse qualche installazione è vicina anche alla land art. Poi ci sono i Sun tunnels di Nancy Holt, anche questi nello Utah. Sono grandi tubi di calcestruzzo nel deserto in cui si può entrare, con dei fori che rappresentano le stelle di alcune costellazioni. Quello che faccio con le mie Costellazioni, facendo land art anche in modo interattivo, usando spesso dei dispositivi elettronici interattivi e la musica insieme a Massimo, credo di essere l’unico a farlo, ma è difficile avere una percezione totale di quello che succede in tutto il mondo».

Quali saranno i prossimi passi dopo Frange di interferenza?

«Oltre al progetto per Virgo, mi sono già portato un po’ avanti. Essendo i quattro interferometri [oltre all’italo-francese Virgo, ci sono i due interferometri che formano Ligo, negli Stati Uniti, e Kagra in Giappone; ndr] su tre continenti differenti, ho preso ispirazione da un progetto di Walter de Maria, un famoso land artist che faceva fotografie su diversi continenti e le sovrapponeva, per creare altre due installazioni. Una è per Kagra: una visualizzazione del futuro catalogo di sorgenti di onde gravitazionali (O4) a cui parteciperà anche questo nuovo rivelatore. L’altra, per il Ligo Hanford Observatory, che è nel deserto, è una poesia scritta in codice python, che si intitola The landing on a fringe, da realizzare sul terreno con terra battuta oppure terra e colla. I programmatori del progetto sono molto razionali, ma usano spesso nomi molto fantasiosi per le variabili, come la routine watchdog, un cane da guardia in attesa di eventi dal cosmo: così ho avuto l’idea per la poesia, in cui utilizzo i nomi delle variabili e altri pezzi dal codice per creare un discorso. Questi lavori sono stati esposti in una mostra a Cascina dedicata alle fasi di ideazione e realizzazione del progetto, che comprende anche video installazioni fatte insieme a Massimo. Gli altri progetti sono sogni, però se non si sogna non si vive per il futuro».

Claudia Mignone, testo adattato

LICENZA PER IL RIUTILIZZO DEL TESTO: (CC BY-NC-SA 4.0)

Link e approfondimenti

Articolo originale sul sito Media Inaf
• Il sito web del progetto “Frange di interferenza”
• Indirizzo email per prenotare una visita: info@ego-gw.it
• Il Progetto Costellazioni: www.lucaserasini.it/progettocostellazioni

La scienza della meditazione al Maxxi di Roma

Arte, scienza e meditazione si incontrano dal 20 al 24 settembre 2022 al MAXXI di Roma, nel progetto LA MENTE MEDITANTE. Art, Science, and an Enlightened Mind che nasce da una collaborazione tra il museo, il team di Giacomo Rizzolatti dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr e Daniel Lumera, autore di best seller su questi temi.

Ricerca vera, in pubblico

Scopo dell’evento è svelare i processi neurali che si sviluppano nel corso della meditazione, visualizzandoli in tempo reale su un grande schermo.

Visualizzare la mente

Daniel Lumera, in particolare, darà vita a un’inconsueta performance, entrando in stato meditativo per circa 7 ore al giorno per 5 giorni, di volta in volta con ospiti del mondo dell’arte, della cultura, della scienza, ma anche con il pubblico del museo, rendendo visibili ai partecipanti e agli spettatori, sotto forma di colori, tutti e quattro gli stati meditativi descritti dalle antiche tradizioni sapienziali: attenzione focalizzata, concentrazione sostenuta, contemplazione profonda e meditazione vera e propria (v. approfondimento più avanti).

Lumera e Melandri
Daniel Lumera e Giovanna Melandri al MAXXI di Roma.

Il pubblico vedrà quindi su un grande schermo, sotto forma di uno spettro cromatico che oscilla dal blu al rosso, come il segnale elettrico (Eeg) registrato sullo scalpo si evolve nel tempo durante una sessione di meditazione, che dura circa 30 minuti. Il segnale sarà trasmesso dalle fasce posizionate sul capo di Lumera e su quello dell’ospite accanto a lui a un computer dove verrà elaborato in tempo reale.

I quattro stati della meditazione

Ecco che cosa sono e in che cosa si differenziano i quattro stati della meditazione citati in precedenza.

1. Attenzione focalizzata

L’attenzione focalizzata consiste nel concentrarsi senza distrazioni su un singolo oggetto di attenzione, che può essere interno o esterno a noi, astratto o concreto: qualcosa che ci ispira e che richiama alla mente impressioni di pace, serenità oppure forza, benessere, chiarezza.

2. Concentrazione sostenuta

La concentrazione sostenuta ha invece tre caratteristiche fondanti: è stabile, intensa e assoluta; non prevede sforzo ma presenza, si è attivi nel sostenerla, ma senza alcun tipo di forzatura. È uno stato di intenzionalità e volontà che ci consente di essere completamente rilassati, presenti e a nostro agio in questa dimensione di centratura.

3. Contemplazione profonda

La contemplazione profonda, poi, si caratterizza per silenzio mentale, assenza di definizione e assenza di giudizio.

4. Meditazione

Quando la contemplazione profonda viene sostenuta e prolungata si entra naturalmente nella fase della meditazione, dove si raggiunge una condizione di calma e di leggerezza in cui il respiro diventa molto profondo; non si ha più la sensazione di eseguire una pratica, bensì si rende chiaro alla nostra presenza un senso di integrità, di purezza, preludio a una sensazione unica, come se l’anima “sorridesse”. L’esercizio sta nel lasciare che quello stato prenda il sopravvento e arrendersi a esso.

Hanno detto…

Infine le dichiarazioni delle persone coinvolte nel progetto.

Giacomo Rizzolatti

«L’integrazione tra discipline diverse all’interno di MAXXI è elemento essenziale per studiare come il cervello reagisce all’opera d’arte e allo spazio architettonico circostante, ma in un ambiente ecologico», ha detto Giacomo Rizzolatti. «Per questa ragione, la collaborazione con MAXXI rappresenta per noi un’opportunità eccezionale per valutare i processi neurali alla base della nostra capacità di vivere e abitare lo spazio. Dall’incontro con Daniel Lumera è nata anche l’idea di approcciare il processo meditativo con metodo scientifico pubblico, cioè di rendere visibile l’attività neurale non solo al soggetto meditante stesso, ma anche allo spettatore, nell’ambiziosa idea di creare una consapevolezza nel visitatore delle dinamiche cerebrali in corso durante la meditazione».

Giacomo Rizzolatti
Giacomo Rizzolatti, uno degli autori della scoperta dei neuroni specchio. Partecipa all’evento al Maxxi di Roma.

Daniel Lumera

«Questa performance», aggiunge Daniel Lumera, «intende unire tre linguaggi universali, quali arte, scienza e meditazione, in un contesto architettonico speciale, dove ombra e luce si uniscono a suono e silenzio per mettere a nudo il cervello umano e le sue “trasformazioni”, attraverso le pratiche contemplative millenarie che la scienza e le neuroscienze moderne hanno riconosciuto come medicina naturale, di fondamentale importanza per la nostra salute, il nostro benessere e l’evoluzione stessa dell’essere umano, e mediante le quali sviluppiamo le abilità cognitive».

Giovanna Melandri, MAXXI

Conclude Giovanna Melandri, Presidente Fondazione MAXXI: «Da sempre al MAXXI esploriamo le connessioni con altre discipline: il rapporto tra arte e scienza nella mostra Gravity; arte e spiritualità in Della materia spirituale dell’arte; arte, intelligenza artificiale e tecnologie digitali in What a Wonderful World. E sempre, al centro di ogni progetto, le persone, i visitatori che sono parte attiva di ogni iniziativa. (…) L’aspetto interessante di questo progetto è la possibilità di dare forma visibile a questa intuizione. Vedere come funziona una mente meditante diviene così performance-testimonianza di come le attività neuronali cambino profondamente. Come scriveva Giordano Bruno: “Non è la materia che genera il pensiero, ma è il pensiero che genera la materia”».

(Adattamento da comunicato stampa)

Link e approfondimenti

• Info e biglietti su www.maxxi.art/events/la-mente-meditante/

 

 

 

La grande bellezza der Fontanone

Salendo sul Gianicolo veniamo sorpresi da un imponente monumento: la Fontana dell’Acqua Paola, nota anche come Fontanone del Gianicolo, dove sono state girate le prime scene del film La grande bellezza.

Un nuovo acquedotto

Tra le imprese architettoniche volute da papa Paolo V Borghese (1552-1621), c’è il rinnovamento dell’acquedotto Traiano-Paolo, che non garantiva sufficiente afflusso alle zone Trastevere e Vaticano. Per celebrare questa realizzazione, il papa commissionò nel 1610 una maestosa fontana in posizione dominante: la terrazza antistante offre ancora oggi una meravigliosa vista sulla città.

Primo progetto

Il primo progetto, terminato nel 1614, prevedeva cinque arcate sorrette da colonne; tutta questa struttura sorregge le iscrizioni. Non mancano drago ed aquila, emblemi del papa fondatore. Questo primo progetto fu opera di Giovanni Fontana e Flaminio Ponzio, che per realizzarlo riutilizzarono le colonne dell’antica basilica costantiniana di San Pietro, mentre il marmo decorativo proviene dal Foro Romano e dal Tempio di Minerva.

Errore

La parte alta del monumento ospita, in maniera ben visibile, l’iscrizione che celebra la realizzazione dell’opera… tuttavia vi è un errore: si cita l’acquedotto Alsietino anziché quello Traiano.

Cambiamenti

Alla fine del ’600 il monumento venne affidato all’architetto Carlo Fontana da papa Alessandro VIII, per modificarne l’aspetto ampliandola e conferirgli la configurazione attuale: non più cinque vasche ma un grande bacino di marmo.

Tra cannonate e restauri

Ma la storia “der Fontanone” non finisce qui: il monumento fu danneggiato dagli spari dei cannoni francesi nel 1849. Per riportarlo all’attuale splendore sono stati necessari tre restauri: nel 1859, nel 1934 e negli anni Cinquanta. Dopo il giubileo, dal 2002 al 2004, il comune ha provveduto a un restauro conservativo. Nel primo trentennio del ’900, la Fontana dell’Acqua Paola ha anche alimentato la prima centrale idroelettrica di Roma.

Film e canzoni

Er Fontanone è uno dei simboli della città, ispirazione di libri come il Viaggio in Italia (1787) di Johann Wolfgang von Goethe. Ed è presente in molti film, fiction, o spot pubblicitari che si susseguono dagli anni ’50 a oggi. Protagonista indiscussa anche nella famosa canzone Roma Capoccia di Antonello Venditti.

Da dove scattare

Una curiosità. Un punto di vista interessante per scattare una foto al monumento si raggiunge percorrendo il piccolo viale antistante fino a inquadrare la fontana tra le colonne della piccola barriera marmorea nel piazzale.

Approfondimenti e link

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