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Un paesaggio marziano, spiegato dalla Nasa

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La fotografia panoramica più grande e ad alta risoluzione presa dal rover Curiosity della Nasa sulla superficie di Marte. È questo che mostra il video che vi mostriamo (credit Nasa/Jpl-Caltech/Msss), con le parole di spiegazione (in inglese) di Ashwin Vasavada, Project scientist del Progetto Curiosity.

Siamo nella regione denominata “Glen Torridon”, alle pendici del Monte Sharp (ufficialmente Aeolis Mons), dove appunto è atterrato il rover il 6 agosto 2012. L’immagine descritta nel video, invece, è stata presa tra il 24 novembre e l’1 dicembre 2019, durante la festività americana del Ringraziamento (Thanksgiving). Approfittando, appunto, di una pausa degli scienziati, Curiosity ha scattato una serie di oltre mille foto dalla postazione in cui si trovava. Le immagini sono state poi assemblate nei mesi successivi, fino a comporre una panoramica di quasi 1,8 miliardi di pixel, che ci consente un’immersione unica nel paesaggio marziano.

Per saperne di più
Sul rover marziano Curiosity: il sito della Nasa.
Un viaggio tra i geyser marziani.

La magia delle luci del Nord

La buia e interminabile notte polare è a volte rischiarata come per incanto da nastri colorati che compaiono, danzano e svaniscono nel cielo come spiriti o divinità che aleggiano sui paesaggi imbiancati. Quelle luci ineffabili sono generate da invisibili flussi di particelle provenienti dal sole che, guidate dal campo magnetico terrestre, si riversano sull’atmosfera ed eccitano gli atomi che la compongono, rendendoli luminosi. Così, per esempio, l’ossigeno alle quote più alte produce le più rare luci rosse, mentre a quote inferiori lo stesso ossigeno emette luce verde, che poi è la più abbondante e caratteristica, e anche quella che i nostri occhi meglio rilevano. L’azoto, dal canto suo, a seconda delle circostanze può anch’esso emettere luce blu, viola o rossa. La aurore boreali, come anche si chiamano le luci del Nord, sono a tutti gli effetti una danza di particelle, atomi, campi magnetici e colori.

Dentro la foto

Questa straordinaria foto scattata dall’italiano Giulio Cobianchi alle isole Lofoten, in Norvegia, cattura un raffinato gioco di luci naturali e artificiali. L’aurora boreale è l’arco colorato che illumina la parte destra dell’immagine, al quale sembra appoggiarsi l’ultima stella del Gran Carro, Alkaid. A sinistra, a riempire l’altra metà della scena, la grande striscia della Via Lattea (la nostra galassia), ma non solo. Accanto alla capanna illuminata, poco sopra l’orizzonte, c’è un puntino rossastro: è Marte. E più in alto, proprio sopra la capanna, la galassia Andromeda. Non li riconoscete? Potete aiutarvi con il supporto grafico fornito dalla Nasa a questo link, dove sono pubblicate le “foto astronomiche del giorno” come questa. Che poi, in realtà, non è una foto semplice, ma la composizione di 18 scatti per formare un panorama a 360°.

“Mentre scattavo ho fatto davvero fatica a restare concentrato, non riuscivo staccare gli occhi dal cielo”

Giulio Cobianchi, l’autore della foto, è nato nei pressi delle Dolomiti e vive attualmente con la moglie nelle isole Lofoten, un arcipelago con paesaggi da cartolina situato oltre il Circolo Polare Artico. Qui ha effettuato molte foto di aurore, di cui vi presentiamo una selezione nella gallery qui sotto (insieme a una foto delle Tre Cime di Lavaredo, che testimonia le origini altoatesine dell’autore): cliccateci sopra per vederle meglio, ne vale la pena. Cobianchi organizza viaggi e workshop fotografici, insegna fotografia anche online e più di 84mila le persone lo seguono su Instagram (@giulio_cobianchi_photo). «La stagione invernale 2020/2021 sta andando molto bene», ci racconta. «Sopratutto il 2021 è iniziato con tanta attività solare e cieli piuttosto limpidi».

In tenda, tra le montagne

Scattare foto come queste richiede, oltre che abilità tecnica, pazienza e dedizione. «La mia passione per “vivere” la natura mi porta a passare molte notti da solo, in tenda in mezzo alle montagne. Non c’è modo migliore per sentirsi in perfetta simbiosi con essa», ha dichiarato recentemente Cobianchi a Media Inaf. E poi, riguardo alla foto ripresa dalla Nasa: «A essere sincero mentre scattavo ho fatto davvero fatica a restare concentrato, non riuscivo staccare gli occhi dal cielo. Avevo alla mia destra l’aurora e alla mia sinistra la nostra galassia, è stata un’emozione incredibile, una delle migliori notti sotto alle stelle che abbia mai vissuto».

 

Per saperne di più

Il sito dell’Astronomy Picture of the Day della Nasa
L’intervista di Cobianchi su Media Inaf.
Il sito di Cobianchi.

 

Viaggio in una stella di neutroni

Già dagli anni ’30 del Novecento, dopo la scoperta dell’esistenza dei neutroni, si riteneva possibile in via teorica l’esistenza di un oggetto stellare composto solo da queste particelle elettricamente neutre. L’idea fu proposta da Walter Baade e Fritz Zwicky, in una nota a pie’ di pagina di un articolo del 1934 che si è rivelato uno dei più lungimiranti in astrofisica e che prevedeva anche l’esistenza delle supernove.

Una sfera perfetta. Una stella di neutroni è infatti quel che resta di un’esplosione di supernova, un fenomeno catastrofico che segna la morte di una stella massiccia, con massa pari a decine di volte il sole. In estrema sintesi, una stella di neutroni è un oggetto con un diametro di circa venti chilometri, con una massa superiore a quella dell’intero Sistema solare, che può ruotare al ritmo di 700 rivoluzioni al secondo ed è così sferico che la sua imperfezione più “vistosa” è al di sotto del millimetro.

Una stella di neutroni a confronto con la città di Monaco di Baviera, in Germania (ESO/ESRI World Imagery, L. Calçada). La massa di questi corpi celesti è superiore a quella del Sole, ma è compressa in volumi molto più piccoli.

Quello che dovete provare a visualizzare è un corpo celeste che abbia le dimensioni di una città come Francoforte o Milano, ma la cui massa è semplicemente enorme e la cui densità è assolutamente inimmaginabile per il nostro senso delle scale fisiche. Stiamo parlando di densità che sono un milione di miliardi di volte quella dell’acqua; un solo centimetro cubo di materiale proveniente da una stella di neutroni – vale a dire quanto una zolletta di zucchero – contiene una massa pari all’intera catena alpina, dalle Alpi Liguri a quelle Friulane.

Un cucchiaio di materia di una stella di neutroni ha la stessa massa di tutte le Alpi

Se già, dunque, facciamo fatica a immaginarle, come sono fatte al loro interno le stelle di neutroni? In realtà non lo sappiamo, ma ci sono alcuni aspetti della loro composizione sui quali tutti concordano. Per esempio, è abbastanza chiaro che una stella di neutroni non è fatta di soli neutroni, e contiene al suo interno anche altre particelle, sebbene in quantità ridotte. Ci sono di certo altri costituenti degli atomi come i protoni e gli elettroni, e proprio questi ultimi, con altre particelle cariche leggere, sono in grado di produrre le enormi correnti elettriche necessarie a generare gli imponenti campi magnetici che osserviamo. Inoltre, è abbastanza chiaro che la struttura di una stella di neutroni debba essere caratterizzata da alcune zone, i cui spessori ci sono noti con una certa precisione.

Luciano Rezzolla
Luciano Rezzolla è direttore dell’Istituto di fisica teorica alla Goethe Universität di Francoforte e membro del comitato scientifico dell’Event Horizon Telescope (EHT), che ha realizzato la prima foto di un buco nero.

Sottile atmosfera. Immaginiamo dunque di “entrare” in uno di questi corpi celesti, partendo dalla superficie e muovendoci verso il centro.­ Fare questo viaggio è in realtà impossibile perché le forze mareali a cui saremmo sottoposti ci distruggerebbero ben prima di avvicinarci alla superficie della stella. Possiamo tuttavia fare un viaggio con la mente, e in questo caso il primo strato che incontreremmo è una sorta di atmosfera: una buccia sottilissima, di spessore non superiore al centimetro, composta da atomi estremamente pesanti e con una densità miliardi di volte superiore a quella della nostra atmosfera. Per quanto estreme, le proprietà di questa atmosfera sono abbastanza chiare, e la sua fisica è relativamente ben testata, tanto che la riteniamo un elemento “noto”. Per quanto paradossale, l’unica parte di un oggetto con un raggio di una dozzina di chilometri che pensiamo di conoscere in dettaglio, a livello di proprietà, ha uno spessore di non più di un centimetro.

Come la Terra, anche una stella di neutroni ha una struttura a cipolla, con un’atmosfera, una crosta e un nucleo

Una “crosta” morbida. Muovendoci verso il centro, al di sotto dell’atmosfera troveremo quella che viene chiamata la crosta, vale a dire uno strato con uno spessore di circa uno o due chilometri, che contiene una serie di ioni pesanti – ossia con grande massa atomica – ma anche elettroni dall’energia estremamente elevata. È bene sottolineare che il termine “crosta” può esser fuorviante, in quanto si tratta in realtà di un materiale elastico e deformabile, simile piuttosto a una sostanza plastica estremamente densa. Parte della materia della crosta presenterà una struttura periodica e regolare in cui gli ioni sono a distanze precise e gli elettroni sono liberi di muoversi negli spazi lasciati vuoti. Questo tipo di struttura a reticolo è quello che incontriamo usualmente nei metalli e nei cristalli, ed è responsabile delle loro proprietà meccaniche.

Nebulosa del Granchio
La Nebulosa del Granchio, nella costellazione del Toro, a circa 6 mila anni luce da noi. È quel che resta di un’esplosione di supernova, e ospita al suo centro una stella di neutroni che ruota 30 volte al secondo attorno al suo asse (ESO).

Verso i misteri del nucleo. Al di sotto della crosta – in uno strato che potrebbe estendersi per sei o sette chilometri – incontreremo quello che viene e definito il nucleo esterno; lì la densità raggiunge le migliaia o decine di migliaia di miliardi (insomma, 1013 o 1014) di grammi per centimetro cubo. Una densità enorme, ma non quella massima, che si incontrerà spostandosi verso la zona centrale, il nucleo interno, che ha anch’esso uno spessore di sei o sette chilometri. Le proprietà della materia nel nucleo interno rimangono sconosciute e rappresentano una sfida teorica eccezionale, con la quale i fisici nucleari si confrontano ormai da quasi quarant’anni. Forse l’interrogativo più importante riguarda la presenza di particelle esotiche come gli iperoni, o addirittura quark liberi (sono le particelle elementari che compongono neutroni e protoni).

Forse nel loro nucleo esiste in forma stabile la materia che era presente nelle prime fasi di vita dell’universo

In un mare di quark. In altre parole, è possibile che al centro di una stella di neutroni – in conseguenza della densità elevatissima raggiunta nel suo nocciolo più interno, il cui raggio non supera il paio di chilometri – i quark siano così addossati gli uni agli altri da diventare “liberi”, ossia da non essere più confinati all’interno di un neutrone o protone, e formino una cosiddetta zuppa di quark. Quest’ipotesi è particolarmente affascinante, perché sappiamo che una zuppa di questo genere doveva esser presente nei primissimi istanti di vita dell’universo, fino a un centesimo di secondo, e si produce per tempi brevissimi quando facciamo collidere ioni pesanti negli acceleratori di particelle. L’idea che questa zuppa sia presente invece in maniera stabile all’interno delle stelle di neutroni e possa essere in qualche modo rivelata – magari tramite l’emissione di onde gravitazionali – apre dunque spazi di ricerca che coinvolgono scienziati di tutto il mondo, me compreso.

Luciano Rezzolla

Luciano Rezzolla è direttore dell’Istituto di fisica teorica alla Goethe Universität di Francoforte e membro del comitato scientifico dell’Event Horizon Telescope (EHT), che ha realizzato la prima foto di un buco nero (Qui un suo Ted sulla scoperta).

Recentemente, ha pubblicato il libro L’irresistibile attrazione della gravità (Rizzoli), di cui questo brano è un estratto, adattato alla linea editoriale del sito.

La via della luce 2 (l’esperienza)

Siamo in un’ampia stanza bianca, seduti ciascuno sul suo tappetino, in attesa che la performance cominci. Alle pareti, immagini di donne con il burqa del FlavioLucchiniArt Museum, dove si svolge l’evento. Daniel Lumera, in abito blu, con in testa la fascia che registra la sua attività cerebrale, siede nella posizione del loto su un divano bianco, di fronte a una platea di qualche decina di persone. Si prova il microfono, si aggiustano gli altoparlanti, la gente si mette in ascolto. Il Meditation Rave sta per cominciare.

Premessa 1. Fa bene

Daniel comincia a parlare. Ci accompagna per mano nella pratica, ma non prima di aver speso due parole sui benefici della meditazione. «Fa molto molto bene», spiega: «Ci rigenera, incide sul tono d’umore, sulla salute mentale, sugli stati depressivi, sugli attacchi d’ansia, sugli attacchi di panico. E in più potenzia le capacità cognitive, quindi la memoria, l’attenzione, la capacità creativa. Tanto che l’Organizzazione Mondale della Sanità (Oms) l’ha inserita tra i tre pilastri del benessere, dopo la corretta alimentazione e il corretto movimento fisico».

Premessa 2. Non cercare la convenienza

La meditazione non deve essere pensata in modo opportunistico. «Non dovremmo essere spinti a meditare per convenienza, perché poi stiamo meglio», chiarisce Lumera. «La meditazione è un’arte nobile, che ha millenni di storia e che ci spinge a realizzare un aspetto molto profondo di noi, che è collegato con il proposito della nostra vita, con il senso di noi stessi, con il senso dell’esistenza. E per farlo abbiamo bisogno di silenzio, abbiamo bisogno di contemplazione, abbiamo bisogno di ascolto».

Premessa 3. Che cosa accadrà

Quello che ci accingiamo a fare sarà seguire una sequenza che Lumera definisce “perfetta”. «Incide su quattro neuromodulatori: il primo è la dopamina, che è l’ormone legato ai desideri e alle dipendenze, anche quelle psicologiche e relazionali. Poi stimoleremo l’epinefrina attraverso una particolare forma di respirazione. Quindi entreremo nella fase più contemplativa e verrà stimolato il rilascio di serotonina, l’ormone della felicità. E infine, nella fase di gratitudine finale, l’ossitocina, che è l’ormone dell’amore».

Premessa 4. Mantra d’autore

Nella seconda delle quattro fasi useremo un mantra molto diffuso – So Ham, il mantra del respiro – che merita due precisazioni. La prima riguarda il significato. Il mantra deriva infatti da un verso in sanscrito delle Upaniṣad: “La luce che è la forma più bella, io l’ho vista. Io sono ciò che Lei è. Io sono Quello!”. So Ham vuol dire letteralmente “Io sono quello”, cioè “Io sono la luce”.

La seconda precisazione riguarda il fatto che ci aiuteremo con un suono a 432 Hz creato da Alessandro De Rosa, allievo di Ennio Morricone.

Meditazione So Ham a 432 Hz di Daniel Lumera; la musica è di Alessandro De Rosa (durata 7 ore).

Premessa 5. Attività cerebrale e visualizzazione

Una peculiarità della performance è il fatto che l’attività cerebrale di Lumera apparirà su uno schermo pensato come un’opera d’arte. A spiegare come funziona è Luca Ascari, co-founder della startup Henesis. «Questa è una rappresentazione artistica di ciò che succede nel nostro cervello», esordisce Ascari. «I colori rappresentano la potenza dei segnali elettrici che la fascia sta registrando. Quando una zona diventa blu vuol dire che lì c’è un abbassamento dell’attività elettrica. Quando è rossa, vuol dire che c’è un innalzamento».

Ascari punta ora l’attenzione su un cerchio, anch’esso marcato da colori, che circonda la raffigurazione cervello. «Qui intorno abbiamo rappresentato in modo un po’ astratto 3 caratteristiche dei segnali elettrici delle varie fasi della meditazione», dice. «Sono caratteristiche estratte dalle basse frequenze, dalle medie frequenze e dalle alte frequenze. Il cervello durante la meditazione entra in varie fasi, che possono essere riconosciute nei segnali che registriamo».

Sarebbe tutto bellissimo. Ma, come nota lo stesso Ascari, chi segue Daniel Lumera nella meditazione, trovandosi a occhi chiusi non potrà vedere che cosa succede nello schermo.

Meditazione in 4 fasi

Daniel ringrazia Felicia Cigorescu, curatrice dell’evento. E avvisa che, durante il ciclo di respirazione, è normale che si avverta un eccesso di ossigenazione ed eventualmente un po’ di vertigine. In tal caso, è importante seguire il proprio ritmo. Tutto è chiarito, il Meditation Rave ha inizio.

locandina
La locandina dell’evento (Meditation Rave_@FLA Museum_02.03.2024).

Primo ciclo di respiro

«Siediti in una posizione comoda, con la colonna vertebrale eretta». È il più classico degli inizi. «Fai un profondo respiro, chiudi gli occhi. Porta tutta la tua attenzione al respiro, alla sensazione che in questo preciso istante l’aria crea entrando e uscendo dalle tue narici». Comincia così un ciclo di 28 respiri. Il ritmo è serrato, non c’è pausa tra un’inspirazione e un’espirazione. L’aria entra ed esce come in un soffietto. Provo un senso di ebrezza e di vertigine, ma riesco a tenere il ritmo.

Secondo ciclo di respiro

Dopo un’inspirazione e un’espirazione più lente e profonde, seguite da un momento di apnea, arriva un piccolo premio. «Libera il respiro totalmente. Porta l’attenzione oltre il capo, nello spazio vuoto sopra di te. Senti espansione nel silenzio. Senti come una pioggia di luce, di vita, che discende dall’alto, che porta pace, presenza, armonia, giustizia, verità, amore».

Piccola pausa. E comincia un secondo ciclo di 28 respiri, per il quale è richiesta maggior consapevolezza e maggior profondità. Penso a quanta esperienza abbia Lumera, che riesce a contare, a condurre e a rilassarsi.

Ciclo del So Ham

È arrivato il momento del mantra. Sono un po’ stordito, ma presente. Mi sembra che stia andando bene. «Ascolta i suoni delle mie parole. Porta tutta la tua attenzione a 3 centimetri sopra il capo. Pronunceremo adesso il suono So Ham. Insieme. Soooo haaaam». E via così, per 28 volte. Il mantra è un potente mezzo di concentrazione. Aiuta a focalizzare l’attenzione, a regolare il respiro, a svuotarsi dei pensieri. E al tempo stesso induce vibrazioni che ci portano in risonanza con il nostro stesso corpo, con gli altri corpi, con tutte le anime presenti nella sala.

A un certo punto la vibrazione finisce, e si rimane nel silenzio, nella luce.

In meditazione

Se tutto va bene, questo dovrebbe essere il culmine della meditazione. «Porta tutta la tua attenzione nella fontanella alla sommità del tuo capo», dice Lumera. «Tutto il tuo essere è lì. E rimani nel silenzio, nella presenza, nella pura consapevolezza di essere. Esattamente nella sommità del tuo capo. Entra adesso in uno stato di presenza, senza fare più nulla». Tra una frase e l’altra scorrono i minuti, o forse i secoli. Il tempo è alterato, lo spazio si è dissolto. Tutto è luce. «Lentamente, appoggiamo le nostre mani nel cuore, mantenendo gli occhi chiusi. E prendiamo contatto con il cuore. Fai un sorriso al tuo cuore e senti il tuo cuore che ti sorride».

Grazie

Si esce da questo momento solare come da un grembo materno. Ed ecco che avviene qualcosa di inatteso. Daniel ci dice di pensare a una persona amata. «Non importa che sia accanto a te in questo pianeta. Può essere tua madre, tuo padre, un figlio, una sorella, un compagno, una compagna, un amico». Ci chiede di chiamarla e di pensarla mentre sorride e si avvicina. «E avvolgendo le tue parole con dolcezza, con delicatezza, dille “grazie”. Grazie. Grazie per ogni istante che ci è stato concesso, grazie per ogni abbraccio, grazie per il dolore, grazie per l’amore, grazie per ogni respiro, grazie per tutto ciò che è stato. Grazie per essere stato presente nella mente, grazie per il dono della tua vita. E adesso digli “io ti libero”. Inspira, espira, apri le mani e lasciala andare. Guardala mentre vola via, mentre va nel luogo più bello, più luminoso»… Grazie. Grazie.

(Continua)

 

Link e approfondimenti

  • La prima parte dell’articolo (prologo e intervista).
  • Il sito dell’evento Meditation Rave.
  • Il libro 28 respiri per cambiare vita (Mondadori), di Daniel Lumera.
  • Il nuovo libro di Daniel Lumera, Come se tutto fosse un miracolo (Mondadori), in libreria dal 2 aprile 2024.
  • Il sito del FlavioLucchiniArt Museum, che ha ospitato l’evento.
  • Il sito di Henesis, la startup che ha realizzato le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale usate nell’evento.

La casa sulla collina

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Mentre scrivo ho davanti agli occhi, oltre l’ampia finestra che mi separa dall’esterno, la vigna da cui tutto è cominciato. Ho in testa le parole con cui mi ha accolto Gianluca, il “padrone di casa”: «Dopo essere rimasto quasi immutato per secoli, negli ultimi cinquant’anni questo paesaggio è cambiato. A fine ’800, i visitatori venivano qui per ritrovare i paesaggi dei quadri di Piero della Francesca, di Raffaello. Fino alla Seconda guerra mondiale, c’erano ovunque campi coltivati. Ora i campi sono stati abbandonati, è cresciuto il bosco e sono arrivati alberi che prima non c’erano, come le acacie e i pini». Dell’antico vigneto che fino a pochi decenni fa ricopriva un ampio terreno non resta che un fazzoletto di terra dispiegato di fronte ai miei occhi.

Connubio totale

Sono a Ca’ Romanino, una residenza realizzata negli anni ’60 da Giancarlo De Carlo in cima a una collina a due passi da Urbino. E Gianluca Annibali è il giovane presidente della fondazione che mantiene abitata la casa, consentendo un pernottamento di 24 ore agli interessati.

L’architettura dialoga sempre con il paesaggio che la circonda, ma in questo caso il connubio è totale. I vecchi alberi sono integrati nella costruzione. Gli spazi in cui mi muovo sono in parte costruiti, in parte scavati nel terreno. La casa fa parte della collina stessa in cui si trova e viceversa: dove c’è il prato, sono sepolte le macerie di un vecchio casolare che è stato demolito. Qui il confine tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale non c’è; quello che conta sono i volumi che si susseguono senza soluzione di continuità, le forme, la luce.

Ca' Romanino 2
Il piano superiore dell’edificio. In basso, si vede l’ingresso nascosto e incastonato nella collina (Foto A. Parlangeli).

Ingresso nascosto

La prima cosa che colpisce quando si arriva è che manca la porta d’ingresso. Non c’è. O, meglio, non si vede. Si entra infatti nell’edificio attraverso un passaggio tagliato nella collina e delimitato con il cemento armato. Per arrivare alla porta, bisogna percorrere quel passaggio e girare l’angolo. Appena lo si fa, si nota che in realtà gli ingressi sono due. Su uno, che potremmo definire il principale, c’è il nome della proprietaria, Sonia Morra. L’altro era pensato per gli ospiti, a cominciare dallo stesso De Carlo. Entro da qui, e sono subito invaso da un forte senso di familiarità. Ho vissuto per un periodo della mia vita, ospite di amici a Milano, in una casa brutalista che ho molto amato, e ritrovo subito anche qui alcuni elementi comuni: l’uso del cemento armato, le pareti in mattoncini rossi, il soffitto ruvido, le porte tagliate a tutta altezza, i termosifoni situati sotto le finestre, le pareti mobili. Non si può dire però che De Carlo fosse un architetto brutalista, e infatti a ben guardare si trovano elementi tutti suoi, come quelli ispirati al mondo navale assimilati nella sua infanzia. De Carlo, infatti, era nato a Genova e il padre era un ingegnere navale. Ecco allora che a Ca’ Romanino si ritrovano finestre che ricordano oblò, boccaporti. C’è una stanza cilindrica con una porta scorrevole e due passaggi, uno verso l’esterno e uno verso il soggiorno, che ricorda una camera di decompressione. E ci sono quattro camere singole che comunicano a due a due per mezzo di pareti mobili, come cabine di una nave. Anche i due punti cottura erano pensati originariamente in modo minimale, quasi campale. Ma la proprietaria convinse l’architetto a progettare almeno una cucina vera e propria. «Ho detto subito a Giancarlo che non potevo accontentarmi di un posto di cottura, che non potevo nemmeno immaginare una casa senza cucina», ha ricordato la donna.

Ca' Romanino 3
Il soggiorno, lo spazio (condiviso) più importante dell’abitazione. È ispirato al patio di villa Sarabhai di Le Corbusier ad Ahmedabad, in India (Foto A. Parlangeli).

Molteplici influssi

Gli spazi della casa sono divisi in due blocchi comunicati. C’è una zona notte in basso, con le già citate quattro stanze singole, e una zona notte in alto. I due blocchi comunicano attraverso un soggiorno, anch’esso tagliato in due, dominato da un grande camino in ferro al centro e illuminato da un’ampia finestrata divisa in sei. Questa vetrata, evidenza Annibali, è ispirata al patio di villa Sarabhai di Le Corbusier ad Ahmedabad, in India, con l’unica differenza dell’aggiunta del vetro per ragioni climatiche. D’altra parte lo stesso De Carlo ha ammesso di ispirarsi ad architetti come Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright e Le Corbusier.

Condivisione e riservatezza

Giancarlo De Carlo dava molta importanza all’impatto sociale dell’architettura ed è noto per la progettazione di spazi che agevolassero l’incontro e la condivisione, come quelli dei collegi universitari. A Ca’ Romanino, però, avviene il contrario: la residenza era infatti pensata come un ritrovo tra amici, che garantisse a ciascuno la sua liberà e la sua indipendenza.

Uno spazio tra amici

«La casa fu costruita tra il ’67 e il ’68, ma il terreno era stato acquistato una decina di anni prima», racconta Gianluca. «Sonia e Livio Schirollo erano una coppia milanese che si era trasferita a Urbino. Vennero a sapere dal sindaco che quel terreno era in vendita e lo comprarono perché erano interessati al vigneto, che all’epoca era molto più ampio di adesso». Poi Livio ricevette una piccola eredità e decise di costruire una casa, affidando l’incarico a De Carlo, con cui lui e la moglie erano molto amici. Sia De Carlo sia Schirollo, infatti, erano stati chiamati a Urbino da Carlo Bo. Schirollo era stato in precedenza docente di Storia della filosofia a Torino, De Carlo era stato segnalato a Bo da Elio Vittorini e Vittorio Sereni.

Alcune foto scattate durante il soggiorno (A. Parlangeli).

Fritto misto e melanzane

La casa fu realizzata in economia; ma fu completata e arredata, e ancora oggi si può ammirare così com’era. Spesso i coniugi Schirollo avevano ospiti a cena, a cominciare da Giancarlo De Carlo e Carlo Bo. Quest’ultimo, ha detto Sonia, “è sempre stato attratto da piatti semplici come la pasta con il pomodoro o con i fagioli e dal fritto misto”. Mentre a De Carlo piacevano le melanzane grigliate.

“Uno spazio non diventa mai un luogo finché non ci sono degli esseri umani che lo esperiscono, che lo cambiano, che lo modificano” (Giancarlo De Carlo)

Antichi vitigni

Poi la vita ha fatto la sua parte. I coniugi Schirollo si separarono, e da allora lo stesso De Carlo cominciò a frequentare sempre meno la casa. Fino a che Sonia decise di creare un’associazione, poi divenuta fondazione, per mantenere l’abitazione in uso insieme al vigneto, che – pur nelle sue dimensioni ridotte – include nove vitigni (come el scruculin, el sgranarèll, el famo’s, el tintorièll) di cui alcuni autoctoni e rari. «Il progetto che ha caratterizzato la fondazione fino ad adesso è che questa casa, nata per accogliere un gruppo di amici, diventasse patrimonio di tutti», conclude Annibali. «Oggi, infatti, con il progetto 24 ore, la casa non è solo visitata, è vissuta». Come disse lo stesso De Carlo: “Uno spazio non diventa mai un luogo finché non ci sono degli esseri umani che lo esperiscono, che lo cambiano, che lo modificano”.

Link e approfondimenti

• Il sito della Fondazione Ca’ Romanino.
• Il sito di Josway dedicato ai due rinascimenti di Urbino, con le foto dei collegi universitari di Giancarlo De Carlo descritti anche da Italo Calvino.

La caccia infinita alle cifre di π

π è il simbolo della matematica per antonomasia. È il rapporto tra la lunghezza di una circonferenza e il suo diametro, ovvero la misura dell’area di un cerchio di raggio 1, ovvero la misura della superficie di una sfera di diametro 1. Emerge in situazioni imprevedibili, destando meraviglia, per esempio come limite della somma dei reciproci dei quadrati (π²/6 = 1/1² + 1/2² + 1/3² + …), oppure nell’identità di Eulero (e+ 1 = 0), che è stata giudicata la formula matematica più poetica, da un sondaggio condotto sui lettori del The Mathematical Intelligencer nel 1990.

Forse la più sorprendente apparizione di questo numero è quella scoperta da Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, il quale nel XVIII secolo calcolò che il reciproco di π è la frequenza con la quale uno stuzzicadenti, lungo la metà della larghezza delle assi del parquet del suo studio, cadendo a caso, incrociava la fuga tra due assi. Cosa vi è di più semplice o più prosaico? Basta un po’ di maleducazione nel gettare lo stuzzicadenti per definire π.

Lo scorso 5 agosto i ricercatori dell’Università delle Scienze Applicate dei Grigioni in Svizzera hanno annunciato di aver calcolato il valore di π con l’approssimazione di 62,8 bilioni di cifre esadecimali, mediante un programma per computer che ha girato per circa 1 mese.  Ovvero hanno calcolato 62,8×1012 cifre con una notazione per i numeri nella quale si usano 16 cifre da zero a diciassette, cioè 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, A, B, C, D, E, F. Questo risultato ha permesso loro di entrare nel Guinness dei primati, in quanto il numero di cifre di π precedentemente conosciute erano “solamente” di 50×1012 (senza togliere nulla ai ricercatori svizzeri, incidentalmente, vi ricordo la discussione  su Josway circa la problematicità nel convincersi della correttezza di un programma).

Il numero π pervade tutta la matematica e le sue applicazioni, anche dove non lo si immaginerebbe. Serve conoscere un valore abbastanza preciso di π per effettuare le giuste correzioni ai sistemi Gps (Global Positioning System) dovute agli effetti della Relatività generale di Einstein. Serve conoscere un valore abbastanza preciso di π per rendere efficienti gli algoritmi per la compressione dei dati basati sull’analisi armonica e le trasformate di Fourier, impiegati ad esempio dai sistemi di trasmissione della musica e delle immagini in streaming.

È legittimo, però, chiedersi: a cosa serve conoscere tante cifre quante ne hanno calcolate i ricercatori dei Grigioni? È difficile immaginare una qualche applicazione real-life nella quale servano più di una ventina di cifre decimali di π. Per esempio, è stato dimostrato che, per il calcolo astronomico del volume dell’universo con l’approssimazione del diametro di un atomo di idrogeno, 39 cifre decimali esatte sono più che sufficienti. Insomma, in una visione essenzialmente utilitaristica, anche conoscere già 1.000 cifre di π sarebbe uno spreco computazionale.

Cercherò quindi di dare alcune motivazioni per giustificare il fascino di questa ricerca, al di là del valore della prestazione degli informatici svizzeri, che è indubbiamente straordinaria, se si pensa che il matematico dilettante inglese William Shanks impiegò molti mesi nel 1873 per calcolare 707 cifre delle quali solo le prime 527 erano corrette.

Pimanifesto
Il manifesto della prima Giornata del π tenuta a Udine nel 2009.

Fate attenzione al prossimo quattordici marzo, poco prima delle quattro di pomeriggio! No, non è solamente il compleanno di Albert Einstein. Osservate bene le cifre che potete utilizzare per descrivere questo momento: 3, 14, 15, 9 … sono proprio quelle dell’incipit di π!  Il 14 marzo è infatti stata denominata “Giornata del pi greco”! La sua prima celebrazione si tenne nel 1988 all’Exploratorium di San Francisco, per iniziativa del fisico statunitense Larry Shaw. Nei dieci anni nei quali ebbi il privilegio di essere sindaco della città di Udine, celebrai ogni anno tale ricorrenza organizzando iniziative per festeggiare e promuovere la cultura matematica nelle piazze e nelle scuole della città. L’alfabetizzazione matematica è infatti necessaria per una consapevolezza e resistenza civile a fronte dell’abuso di dati, percentuali, e previsioni numeriche di cui siamo fatti bersaglio negli ultimi decenni.

L’iniziativa più folle, ma anche di maggior successo, tra le celebrazioni della Giornata del pi greco, è la gara a chi ricorda a memoria la maggior quantità di cifre decimali di questo numero. Sul sito www.pi-world-ranking-list.com, c’è la classifica mondiale di questa prova, e le regole per registrare eventualmente la vostra prestazione. L’indiano Sharma Suresh Kumar detiene attualmente il record del mondo, impresa realizzata il 21 ottobre 2015 ricordando ben 70.030 cifre decimali esatte in 17 ore e 14 minuti. Il primato italiano è invece detenuto da Luca Valdacca, che il 28 maggio 2020 ha ricordato 22.801 cifre superando così il precedente primato di Nicola Pascolo che, nella Giornata del pi greco del 2012 a Udine, ne ricordò ben 6.935.

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Un momento della gara per la scrittura delle cifre di pi greco a Udine. In primo piano, a sinistra, Nicola Pascolo (F. Honsell).

In realtà, in quell’occasione Pascolo scrisse quasi 10.000 cifre, ma la 6936-esima era sbagliata e ciò invalidò tutte le rimanenti, che pure erano giuste. Quell’impresa durò quasi 7 ore. La foto a lato lo ritrae, primo a sinistra, in quell’occasione; ma la foto mi piace perché illustra quanto π sia democratico e non faccia differenze né di genere né di età. Se vi appassionano le gare di memoria, date però un’occhiata a quest’altro sito e troverete le graduatorie delle competizioni mnemoniche più impensate.

Pi greco si presta a questo tipo di gare, perché non è un numero razionale la cui sequenza di decimali dopo la virgola si ripete dopo un po’, oppure risponde a qualche regola facile da calcolare. π è un numero irrazionale le cui cifre decimali compaiono in modo statisticamente casuale, tanto che i matematici congetturano che sia un numero normale, ovvero che nella sua coda tutti i numeri interi occorrano tra le sue cifre con la giusta frequenza, ovvero un decimo i numeri di una cifra, un centesimo quelli di due cifre, e così via. Nella Giornata del pi greco del 2012 a Udine, decidemmo di realizzare la catena umana delle prime mille cifre di π, con i ragazzi delle scuole medie, intorno all’ellisse di piazza Primo Maggio. Tale piazza si trova nel luogo nel quale Boccaccio ambientò la quinta novella della nona giornata del Decamerone facendovi sorgere il magico “giardino di gennaio bello come di maggio”. Proprio perché tutti congetturano che π sia un numero normale, per l’occasione ci procurammo circa 100 magliette per ciascuna delle cifre, in modo da poter raggiungere l’obiettivo, ma nessuno si ricordò di… procurare una maglietta con la “virgola”.

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Furio Honsell e concittadini in una Giornata del pi greco a Udine. La virgola è stata aggiunta in un secondo momento (F. Honsell).

Qui a sinistra potete vedere la foto che testimonia quanto sia vero il detto di Flaubert “dieu est dans le detail”, anche se forse lo scrittore francese la intendeva in un altro senso, forse più vicino a quello di Szymborska, di cui parleremo tra breve, rispetto alla legge di Murphy!

Ciò che stupisce di π è che a fronte della naturalezza con la quale si concepisce geometricamente ovvero esteticamente – cosa c’è di più naturale e perfetto di una sfera? – vi sia questa apparente casualità digitale così difficile da afferrare.

La storia della scoperta delle cifre di π ha un’origine antica.

Possiamo iniziare da Salomone che, in questo caso forse più sbrigativo che sapiente (ma certe volte anche questa è saggezza), usò come valore di π il numero 3 (1Re7,23). I babilonesi usavano un’approssimazione razionale per π data dalla frazione 25/8 (da bambino mi insegnarono 22/7, che è approssimazione migliore). Archimede capì che π era difficile da cogliere con esattezza ed escogitò il metodo di approssimarlo racchiudendo un cerchio tra poligoni regolari inscritti e circoscritti, con numeri di lati via via crescenti. Si stufò nel ripetere l’operazione quando giunse a concludere che π, ovvero il perimetro del cerchio, era compreso tra quello di 2 poligoni rispettivamente di perimetro 3 e 10/70 e 3 e 10/71. Nel 480, Zu Chongzhi trovò un’approssimazione razionale di π sorprendente, 355/113! Ma fu il matematico indiano Mahdava di Sangamagrama che, mille anni dopo, comprese come fosse possibile esprimere molto naturalmente π/4 come somma limite della serie infinita:  1 – 1/3 + 1/5 – 1/7 + … (che per eurocentrismo ostinato noi continuiamo a chiamare formula di Leibniz, dedicandola a un matematico vissuto secoli dopo). Questa fu la prima di tantissime e regolarissime sequenze infinite e relazioni notevoli che, oggi sappiamo, π soddisfa e che ci permettono di trattarlo senza che ci si debba smarrire nelle sue cifre.

Perché π ha suscitato tante emozioni? La causa è forse un pregiudizio: ciò che è misurabile è comprensibile mentre l’incommensurabile è inafferrabile. Pregiudizio che sembra risalire ai pitagorici e all’orrore con il quale accolsero la scoperta che la diagonale di un quadrato non è commensurabile al lato. Si narra che addirittura la morte fosse la pena per chi svelasse la dimostrazione che √2 non è un numero esprimibile come una frazione. L’irrazionale distruggeva irreparabilmente l’illusione che il mondo fosse retto da un’armonia razionale. La commensurabilità, ovvero la proprietà che due quantità siano multiplo intero di una stessa unità di misura (per esempio, due bastoni di lunghezza 1/43 e 1/47 unità, rispettivamente, sono tra loro commensurabili, perché sono multiplo intero di un bastoncino di lunghezza 1/2021), sembra concetto elementarissimo. Ma a guardare più a fondo la cosa, la commensurabilità stessa è concetto di complessità illimitata. Un punto su un bastone può condensare l’informazione di tutte le biblioteche del mondo, anche se divide il bastone in due segmenti tra loro commensurabili. È sufficiente che il minimo comune multiplo delle misure dei due pezzi sia un numero abbastanza grande. Che un numero possa codificare qualsiasi informazione, compresa quella esprimibile a parole, penso sia ovvio per tutti, essendo alla base della rivoluzione digitale.

Ma quanto tempo ha fatto perdere la natura numericamente irripetibile di π? Basti pensare al problema della quadratura del cerchio, ovvero al problema di costruire un quadrato di area uguale a quella di un cerchio, con esattezza assoluta, utilizzando solamente la riga e il compasso. Ha sedotto matematici, e non, da Euclide fino a Lindeman, che nel 1882 dimostrò essere impossibile (ma molti ancora non si sono rassegnati, e continuano a provarci). Pi greco è complice inoltre di uno dei più grandi grattacapi dell’umanità, ovvero il problema dello “spiaccicamento della sfera” che, espresso in modo più forbito, è il problema di come fare delle carte geografiche che si possano stendere su una tavola. L’amara verità è che nessuna triangolazione è mai esatta e quindi sfugge sempre qualcosa. Se si riescono a conservare le aree, non si riescono a conservare gli angoli tra le rette e viceversa. Se si tiene conto degli angoli allora le distanze scappano all’infinito, oppure le linee rette diventano curve, oppure non si conservano le direzioni.

Forse chi più di chiunque altro ha giustificato la necessità di conoscere le cifre di π, seppure indirettamente, è la poetessa polacca Maria Wisława Anna Szymborska (1923-2012), Premio Nobel per la letteratura 1996, che nella raccolta Numero enorme (Wielka Liczba) del 1976, scrisse la poesia Liczba Pi (Pi greco):

È degno di ammirazione il Pi greco
tre virgola uno quattro uno.
Anche tutte le sue cifre successive sono iniziali,
cinque nove due, poiché non finisce mai.
Non si lascia abbracciare sei cinque tre cinque dallo sguardo,
otto nove, dal calcolo,
sette nove dall’immaginazione,
e nemmeno tre due tre otto dallo scherzo, ossia dal paragone
quattro sei con qualsiasi cosa
due sei quattro tre al mondo.
(…)

(Wisława Szymborska – Opere – Adelphi  2008)

In Cianfrusaglie del passato – La vita di Wisława Szymborska di Anna Bikont e Joanna Szczęsna (Adelphi – 2015) è riportato: “Qualche giorno dopo, all’incontro di Udine, il sindaco ed ex rettore della locale università, il matematico Furio Honsell, volle leggere pubblicamente la poesia Pi Greco.” Si tratta della Festa del pi greco del 2015 a Udine. Per illustrare la poetica di Szymborska, che ritorva l’universo nelle cifre di π leggendole come una sciarada, mi limito a tradurre due frasi.

La prima è tratta dalla motivazione del Nobel. “(…) for poetry that with ironic precision allows the historical and biological context to come to light in fragments of human reality.” (“per una poesia che con precisione ironica permette al contest storico e biologico di venire alla luce sotto forma di frammenti di una realtà umana”).

La seconda è tratta dal suo discorso di accettazione al Nobel. “But ‘astonishing’ is an epithet concealing a logical trap. We’re astonished, after all, by things that deviate from some well-known and universally acknowledged norm, from an obviousness we’ve grown accustomed to. Now the point is, there is no such obvious world. Our astonishment exists per se and isn’t based on comparison with something else. Granted, in daily speech, where we don’t stop to consider every word, we all use phrases like “the ordinary world,” “ordinary life,” “the ordinary course of events”… But in the language of poetry, where every word is weighed, nothing is usual or normal. Not a single stone and not a single cloud above it. Not a single day and not a single night after it. And above all, not a single existence, not anyone’s existence in this world.” (Ma ‘meraviglioso’ è un epiteto che nasconde un tranello logico. Siamo meravigliati, dopo tutto, da cose che deviano da una norma ben nota o universalmente riconosciuta, da un’ovvietà a cui ci siamo abituati. Ora il punto è questo, non esiste un tale mondo ovvio. La nostra meraviglia esiste per se e non si basa su confronto con qualcosa d’altro. È vero, nel parlare quotidiano, dove non ci fermiamo a considerare ogni parola, usiamo frasi come ‘nella realtà ordinaria’, ‘vita quotidiana’, ‘il naturale corso degli eventi’… Ma nel linguaggio poetico, nel quale ogni parola è soppesata, nulla è consueto o normale. Non una singla ola pietra o una nube in alto sopra ad essa. Non una singola giornata non una singola notte successiva. E soprattutto non una singole esistenza, non l’esistenza di chiunque a questo mondo).

Penso che queste parole abbiano la forza di dare dignità anche a ogni singola cifra di π, anche se dopotutto, come disse Goethe, il poeta sa che cosa voleva scrivere, ma non sa che cosa ha scritto.

Schermata 2021-09-27 alle 22.21.59Concludo con un problemino, per farvi asciugare le lacrime di commozione di fronte alla poesia. Se è impossibile quadrare il cerchio, non tutte le aree con bordi curvi hanno però superfici che non si possano esprimere in modo razionale. Sapendo che il diametro dei cerchi è 1, quanto misura la superficie dell’area rossa nella figura a lato?

Infine, spero di avervi convinto che conoscere le cifre di π è importante, perché come disse la poetessa: le cife di π si susseguano incitando, oh sì, incitando la pigra eternità a durare.

La via della luce 1 (prologo)

Lo incontriamo sul divano che sarà il palcoscenico della sua performance. Daniel Lumera, esperto di meditazione e autore di best seller come 28 respiri per cambiare vita (Mondadori), si sta preparando con lo staff tecnico. Nel momento in cui arrivo, sta verificando che la fascia che ha in testa funzioni correttamente: serve a registrare la sua attività cerebrale e a proiettarla su un piccolo schermo, in modo che il mondo invisibile che vive nella sua mente possa trovare una traduzione in forma di mappe mentali e colori. È questa, infatti, la cifra dello spettacolo che si sta per svolgere al FlavioLucchiniArt Museum, negli spazi di Superstudio Più, a Milano.

Sballarsi senza droghe

Siamo andati a trovarlo poco prima di Meditation Rave, un evento di meditazione collettiva che unisce arte, scienza e spiritualità sulla scia della Mente Meditante, altro spettacolo che si è svolto al MAXXI di Roma con la partecipazione di Giacomo Rizzolatti, il coordinatore del gruppo che ha scoperto i neuroni specchio.

«Il termine “Meditation Rave” è una provocazione», spiega Lumera. «I rave sono associati alla droga, allo sballo; noi vogliamo dedicarli alla meditazione. E vorremmo andare in Stazione Centrale e al Duomo, organizzare con i ragazzi flash mob che durino tutta la notte, anche con la musica. Insomma, questo è l’inizio di un filone di ricerca che vuole essere molto provocatorio e affermare che non c’è bisogno di droga per sballarci. La vita è una droga pazzesca e possiamo usarla per stare bene».

Meditation Rave
Un momento della performance di meditazione collettiva che si è svolta a Milano. L’attività cerebrale di Daniel Lumera è visualizzata nello schermo alla sua destra (Foto Meditation Rave_@FLA Museum_02.03.2024).

L’intervista

L’entusiasmo di Lumera è contagioso, la sua serenità anche. Ero arrivato come sempre un po’ di fretta, un po’ a disagio per la pioggia e un po’ imbranato sulle regole da seguire (lasciare le scarpe fuori dalla stanza, portare il tappetino per la pratica). Ma in un attimo sono seduto di fronte a lui, perfettamente a mio agio, connesso, travolto in un flusso che mi sta portando altrove. Mi lascio andare e gli rivolgo le domande che ho preparato per lui.

Quando ha incontrato la meditazione? E come è stata la sua prima esperienza?

Avevo 19 anni e studiavo scienze naturali e biologia all’università. Non ne sapevo niente, allora non c’erano tutte le informazioni che ci sono adesso. Ho semplicemente seguito il consiglio di un compagno di studi, ed è stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Prima ero una persona molto stressata e reattiva; da quel momento ho iniziato un percorso personale, esperienziale ed esistenziale molto profondo. Fino a quando ho deciso di dedicarmi a tempo pieno a quello che faccio.

Quindi quello è stato subito un momento di svolta.

Sì, perché fin dalla prima volta sono entrato in stati mentali estremamente rigenerativi, estremamente profondi, in esperienze di grande benessere, di grande integrità interiore, di grande unità. E quindi quella è stata la molla che mi ha fatto cambiare vita.

Può descrivere che cosa succede dentro di lei quando entra in uno stato di meditazione?

Se devo essere sincero, dipende. Ci sono molte fasi, da quelle più superficiali di quiete, di calma di pace e di rigenerazione a stati contemplativi molto più profondi dove si entra in contatto con alcune esperienze che definirei di gratitudine. Sono esperienze di grande lucidità, di grande chiarezza, di grande presenza, anche di felicità esistenziale, cioè non dovuta a niente ma semplicemente al fatto di esistere. Non ho mai trovato – quando la meditazione in me è diventata matura – una controparte nella sessualità, nell’alimentazione, nel successo che mi abbia dato un senso di soddisfazione, di integrità e di benessere così profondo. Che tra l’altro non dipende dal fare, dall’avere, dall’apparire, che sono i tre pilastri dell’educazione moderna; ma dalla consapevolezza di essere. Questo mi ha dato un enorme vantaggio nella vita, perché di solito gli esseri umani prendono decisioni in base a logiche di convenienza, ma soprattutto per essere felici, per avere successo ecc. Invece questi stati, questa esperienza interiore, ti permettono di scegliere e di decidere perché sei felice, perché sei centrato, perché sei lucido, perché hai chiarezza. E questo è un vantaggio enorme, in quanto ti permette di essere molto meno manipolabile, molto più integro in te stesso e molto meno assoggettato alle logiche di mercato, ai desideri creati a tavolino, alle aspettative familiari e sociali. Il processo meditativo in me crea un momento di ascolto così profondo che riesco a discernere in maniera molto chiara quelli che sono i miei bisogni, le mie esigenze, i miei ritmi soprattutto, rispetto a quelli imposti dall’esterno. E questo per me è un processo di grande valore.

Per arrivare al culmine della meditazione, c’è un percorso da seguire?

Sì, è un’arte che ha millenni di storia e con un gruppo di neuroscienziati abbiamo evidenziato alcune fasi, sempre più profonde, che sono estremamente precise.

La prima è quella dell’attenzione, che deve essere educata. Non deve essere dispersa, ma focalizzata. Questo è uno stato di presenza.

La seconda fase è quella della concentrazione, che si realizza quando l’attenzione diventa prolungata e fissa su un oggetto. Non importa che sia qualcosa di interno o di esterno, di astratto o di concreto; anche il silenzio può essere oggetto di attenzione e di concentrazione.

La terza fase è quella di contemplazione. La contemplazione accade quando osserviamo l’oggetto su cui stiamo meditando da una condizione di silenzio mentale e di non definizione. Questo è importante, perché la mente per sua natura è “vagabonda”, viene infatti definita wandering mind: noi passiamo il 47% della giornata a pensare a ciò che non sta accadendo, cioè viviamo in un mondo immaginario pazzesco. La contemplazione è uno stato di osservazione attraverso la quiete mentale, il silenzio e il non giudizio, la non definizione di quello che si sta guardando. È uno stato, non so, di purezza originale, bellissimo; lì, io sento che sto “entrando”.

La quarta fase è quella della meditazione vera e propria. La meditazione non è pensare, non è visualizzare. Al giorno d’oggi c’è una grande confusione su questo. La mindfulness non è meditazione: è uno stato di presenza, al massimo è una premessa. Pregare non è meditare, anche se ci sono importanti punti in comune. Meditare non è neanche respirare consapevolmente. La meditazione è uno stato di coscienza, di pura consapevolezza di essere, molto simile a quello dei bambini appena nati. Non ci sono processi mentali di giudizio, di definizione, di critica. Non ci sono processi logici e razionali. Non si conosce niente, si è uno stato di non sapere originale, dove qualsiasi cosa diventa entusiasmo, meraviglia, scoperta. Ma è anche uno stato di pura consapevolezza di essere. Questo stato ha alcune caratteristiche specifiche e provoca in chi lo sperimenta un’intensa felicità esistenziale, che non dipende da niente. È la felicità di esistere e di prenderne pienamente consapevolezza. Ed è gratitudine, perché ti rendi conto di avere il dono della vita. Quando sono in questo stato, provo una sensazione di grandissima integrità, che deriva da una riconnessione con l’unicità dell’essere, con l’unicità della mia natura.

Di solito si pensa alla meditazione come a una pratica individuale. Che cosa cambia quando si passa a un’esperienza di gruppo come quella di oggi?

Accade che si potenzia. La bellezza della performance che abbiamo effettuato al MAXXI con Giacomo Rizzolatti, il Cnr di Parma e Henesis è stato vedere come due cervelli, in un processo meditativo ben stabilito, si sincronizzano, cioè tendono a produrre onde cerebrali della stessa frequenza. La meditazione è un fenomeno sociale, non individuale. Non ci si isola: paradossalmente, si condivide il silenzio. E questo potenzia gli effetti di benessere e di rigenerazione. Per questo noi portiamo la meditazione negli ospedali, per esempio. Siamo stati all’ospedale pediatrico Meyer e al Careggi di Firenze. Questa settimana andremo all’ospedale di Locarno, in Svizzera. Siamo stati anche nelle carceri: a Palermo abbiamo inaugurato la prima stanza perpetua di meditazione ed è stata un’esperienza straordinaria. Perché abbiamo visto che dappertutto – che sia un carcere, un team o un’azienda – le esperienze di meditazione di gruppo abbassano il livello di conflittualità e di stress. Le relazioni migliorano. C’è una maggiore empatia, un maggiore ascolto e un potenziamento della fiducia reciproca degli individui.

To be continued

A questo punto, lo ringraziamo e salutiamo, perché la performance sta per cominciare. Non ci resta che provare, e condividere la nostra esperienza (continua).

Link e approfondimenti

Com’era il mondo prima del Big Bang

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L’universo, si sa, è nato 13,8 miliardi di anni fa, con una grande esplosione detta Big Bang. Giusto? Ni. Perché il Big Bang ci fu, questo è sicuro. Però – a parte chiarire che cosa si intende con “grande esplosione” (cosa semplice, ma che non faremo qui) – l’universo non è propriamente nato con il Big Bang: c’era qualcosa prima. A scommetterci è Gabriele Veneziano, fisico teorico al Collège de France e al Cern di Ginevra, noto per aver avuto nel 1968 un’intuizione – passata alla storia come Ampiezza di Venezianocelebrata anche dall’artista Anselm Kiefer – che ha portato alla nascita della moderna teoria delle stringhe. Veneziano lavora dagli anni ’90 a un modello cosmologico basato appunto sulla teoria delle stringhe, che consenta di dare ragione del Big Bang e del nostro universo. Lo abbiamo incontrato per chiedergli di aggiornarci sugli sviluppi recenti. «Ci stiamo lavorando proprio in questi giorni», ha esordito con la sua voce pacata, capace però di aprire squarci su scenari inimmaginabili.

Che cos’è cambiato nel nostro modo di vedere il Big Bang?

In passato il Big Bang era visto come una singolarità, cioè una situazione di densità e temperatura infinite, che ci impediva di andare al di là nel tempo. Nella nuova visione, il Big Bang è un momento particolarmente interessante della vita dell’universo, ma non è l’inizio e non ha niente di catastrofico: la densità è altissima, ma non è infinita, e la temperatura è altissima, ma non è infinita. L’ordine giusto con cui si sono verificati gli eventi è dunque: prima l’inflazione, poi il Big Bang, e non viceversa come si vede in molte illustrazioni.

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Pioggia di meteore allo Yosemite National Park, Usa (Foto di Casey Horner su Unsplash).

Perché c’è bisogno di una fase inflazionaria iniziale per risolvere i problemi della vecchia cosmologia?

La ragione è che, altrimenti, bisognerebbe aggiustare in modo incredibilmente preciso le condizioni in corrispondenza del Big Bang per spiegare l’universo attuale. Ma l’inflazione da sola non basta: un punto su cui insisto da tempo è l’importanza della meccanica quantistica in questa nuova cosmologia. L’inflazione, se non ci fosse la meccanica quantistica, darebbe un universo completamente omogeneo, cioè privo delle strutture su grande scala che ci circondano: galassie, ammassi di galassie, vuoti, filamenti ecc.

Alla luce di queste nuove idee, dunque, il Big Bang non è l’inizio ma un semplice punto di svolta nella storia dell’universo. Come possiamo pensarlo?

È un momento in cui si passa da un’energia potenziale, quella che determina l’inflazione, alla creazione di un gas particelle ad alta temperatura. Per descrivere quello che accade, spesso ricorro all’immagine di una cascata: a monte della cascata c’è molta energia potenziale; ma quando l’acqua scende l’energia potenziale si trasforma in energia cinetica.

Come descriverebbe l’universo prima del Big Bang?

Caratterizzare l’inizio della fase inflazionaria non è facile. Ma nell’ambito delle teorie delle stringhe esiste una possibilità abbastanza motivata di descriverlo sulla base di certe simmetrie che la teoria stessa possiede. La teoria delle stringhe è un completamento della teoria quantistica dei campi (cioè la teoria alla base del Modello Standard delle particelle elementari, ndr) e la modifica quando si considerano scale di lunghezza molto molto piccole…

Piccole rispetto a che cosa?

La scala di riferimento è la cosiddetta lunghezza di stringa. Su scale molto maggiori della lunghezza di stringa vale la teoria quantistica dei campi convenzionale. Però questa scala può evolvere nel tempo.

In che senso, e in che modo, la lunghezza di stringa può cambiare nel tempo?

La lunghezza di stringa è, in realtà, l’unica scala di lunghezze della teoria e possiamo tenerla fissa, come unità di misura di tutte le lunghezze. Quello che cambia è la forza con la quale le stringhe interagiscono. Siccome in teoria delle stringhe le interazioni sono unificate, la forza di gravità, la forza elettromagnetica e le forze nucleari forte e debole sono determinate da un’unica costante. Questa costante però è dinamica, cioè è associata a una particella, o se vogliamo a un campo (nella teoria quantistica dei campi, a ogni particella corrisponde un campo e viceversa, ndr), una specie di bosone/campo di Higgs: si chiama dilatone.

Quanto più piccola è la forza, in particolare quella di gravità, tanto più grande è il rapporto tra la scala della stringa e la scala di Planck (che è legata alla costante di Newton e vale 10-35 m). Quindi, se si fissa una delle due scale di lunghezza, l’altra dipende dal valore del campo del dilatone e dunque può cambiare nel tempo.

Torniamo alla domanda iniziale: come era, allora, l’universo prima dell’inflazione?

Il vecchio modello di cosmologia su cui ho lavorato con Maurizio Gasperini (Università di Bari) e con altri collaboratori parte dall’ipotesi che l’universo inizi con interazioni debolissime. In questo regime è facile risolvere le equazioni della teoria delle stringhe, perché si parte da costante di accoppiamento molto piccola e da una curvatura molto piccola dello spazio-tempo. Poi la costante di accoppiamento e la curvatura evolvono e prendono valori sempre più grandi, finché si arriva alla scala di curvatura della stringa stessa, cioè quando il raggio di curvatura dell’universo è dell’ordine della lunghezza di stringa. A quel punto, la costante di accoppiamento arriva ai valori attuali e avviene questa transizione che noi associavamo al Big Bang. Si chiamava modello di pre-Big Bang, perché descriveva questa fase precedente, che tecnicamente parlando era anch’essa inflazionaria, cioè aveva caratteristiche simili a quelle dell’inflazione più convenzionale.

Alla fine, si può dire che è il dilatone che spinge l’espansione dello spazio durante l’inflazione?

Esattamente. Le equazioni di Friedman, che descrivono l’espansione dell’universo, ci dicono che la velocità dell’espansione è data dal prodotto della costante di Newton per la densità. Nel nostro scenario, durante la fase che precede il Big Bang, cresce sia la costante di Newton sia la densità; quindi l’espansione è di tipo accelerato, sinonimo di inflazione.

E se ne esce con una transizione di fase, il Big Bang.

Sì, e qui veniamo alle novità. Negli ultimi anni alcuni studi, in particolare di Olaf Hohm e Barton Zwiebach, sono riusciti a tener conto in modo completo delle simmetrie che caratterizzano questa fase di pre-Big Bang. Noi l’avevamo fatto solo nel regime in cui le curvature sono piccole e l’accoppiamento è piccolo. Usando questi nuovi risultati, con Maurizio Gasperini siamo riusciti a vedere che si può effettivamente avere una transizione che connette le due fasi, pre e post Big Bang, attraverso un rimbalzo. Invece di Big Bang preferiamo quindi chiamarlo Big Bounce (“Grande Rimbalzo”). Fino a poco tempo fa non c’erano tecniche matematiche per descriverlo in dettaglio, ma grazie a questo sviluppo teorico siamo riusciti a costruire delle soluzioni perfettamente regolari. Uno degli ostacoli che avevamo sembrerebbe risolto.

Che cosa succede al dilatone durante il Big Bounce?

Finché siamo nel regime di interazioni molto deboli, il dilatone si comporta come una particella senza massa. Quando invece si entra in un regime simile a quello attuale, il dilatone si può stabilizzare, un po’ come fa il campo di Higgs nella transizione elettrodebole.

Però, quando dà la massa alle particelle, il bosone di Higgs condensa. Anche il dilatone condensa?

Esattamente, dato che si stabilizza prendendo un valore non nullo. Quando condensa al minimo del suo potenziale, il dilatone fornisce il valore di tutte le forze. Come il campo di Higgs dà massa alle particelle del Modello Standard, così il dilatone dovrebbe dare la forza delle loro mutue interazioni. Per esempio, dovrebbe dirci quanto vale la costante di Newton e quanto è grande la costante di struttura fine (che vale circa 1/137, ndr). La teoria delle stringhe, se un giorno sarà risolta, dovrebbe fornire quel numerino come conseguenza del valore attuale del campo del dilatone.

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Raffigurazione grafica dell’evoluzione dell’universo (Foto Nasa).

E, condensando, il dilatone genera il Big Bang, giusto?

Genera la transizione tra la fase inflazionaria e il Big Bang inteso come reheating. È il “rimbalzo”, il rebound.

Dopo il Big Bang, però, che cosa succede al dilatone? Rimane fisso, invariato nel tempo?

Questa è una domanda molto interessante, perché in effetti sembrerebbe quasi un miracolo che se ne stesse lì tranquillo e non si muovesse più. Però, se avesse un’evoluzione anche piccola nel tempo, vorrebbe dire che certe costanti della natura dipenderebbero dal tempo. E ci sono molti esperimenti che fanno vedere che invece, nel nostro passato, anche remoto, varie costanti fisiche sono rimaste invariate. Quindi ci sono alcuni limiti su quale possa essere stata l’evoluzione del dilatone dopo il Big Bang. Se invece si osservassero piccole variazioni della costante di struttura fine nel tempo, o anche piccole deviazioni dall’universalità della caduta libera – fenomeni sotto attento scrutinio sperimentale da vari decenni – questa sarebbe una scoperta molto importante che punterebbe il dito verso la teoria delle stringhe.

Il dilatone potrebbe spiegare anche il mistero dell’energia oscura?

Ha colpito nel segno. In un lavoro con Thibault Damour, un fisico teorico francese che ha contribuito con i suoi calcoli alla rivelazione delle onde gravitazionali, avevamo sviluppato un modellino in cui effettivamente l’energia oscura è legata al dilatone. È un modello un po’ diverso da quello appena descritto: il dilatone, invece di andare a finire a un valore finito e fermarsi lì, continua a evolvere e da valori iniziali molto negativi va a finire a valori molto positivi. Questo limite del dilatone che cresce all’infinito è potenzialmente interessante ed è legato a un’idea di Andrej Sacharov, la cosiddetta induced gravity. L’idea è che si parte da una teoria classica in cui manca il termine usuale che fornisce le equazioni di Einstein. Però gli effetti quantistici inducono la costante di Newton e le equazioni di Einstein. Insomma, è come dire che la gravità è un fenomeno di origine quantistica. Questo limite in cui il dilatone va all’infinito (positivo) è essenzialmente lo stesso concetto. Una volta Sacharov venne al Cern e chiese di vedermi per informarsi sulla teoria delle stringhe. Mi chiese se nella teoria ci fosse una induced gravity. Io, però, a quei tempi non avevo pensato a questa possibilità; quindi gli risposi di no, che mi sembrava che la gravità ci fosse ab initio. E solo vari anni dopo, quando Sacharov era ormai morto, mi accorsi che questo limite concretizza proprio la sua idea.

Nella teoria delle stringhe, tra le particelle ancora da scoprire, c’è solo il dilatone?

No, c’è anche un assione. E ci sono altri campi scalari che tra l’altro, se non condensano, cioè se non si bloccano al minimo di un loro potenziale, possono generare anch’essi variazioni delle costanti naturali.

String theory
Una raffigurazione delle stringhe su scala microscopica (Immagine Photo by photoGraph: https://www.pexels.com/photo/a-disarray-of-multicolored-illuminated-curved-lines-6373118/).

Torniamo al pre-Big Bang. La teoria delle stringhe dice qualcosa su come potrebbe nascere il tempo?

Su questo ho idee abbastanza convenzionali. So che si parla di un tempo che scaturisce in modo emergente, io la vedo un po’ diversamente. La teoria in genere parte dalle coordinate delle stringhe, temporali e spaziali. C’è la coordinata della stringa che si muove nel tempo e descrive una superficie. Quello che ho potuto vedere, in alcuni studi, è che – proprio perché la stringa ha dimensioni finite – non è possibile misurare distanze spaziali e forse anche intervalli temporali che siano più piccoli di questa scala. Con alcuni collaboratori, abbiamo introdotto un Principio di Indeterminazione Generalizzato (GUP), che aggiunge al Principio di Indeterminazione di Heisenberg anche l’impossibilità di misurare distanze troppo piccole. Quindi il mio punto di vista è che, finché non siamo in un regime in cui domina la lunghezza di stringa rispetto ad altre scale, possiamo vivere tranquillamente con i nostri concetti usuali di spazio e di tempo. Però, quando siamo a scale di curvatura e/o di temperatura al di sopra di un certo valore critico, la stringa interviene con il suo nuovo principio di indeterminazione e fa sì che non sia più possibile misurare intervalli di spazio e di tempo più piccoli di quella scala. È come se lo spazio-tempo diventasse discreto: solo incrementi discreti sono possibili. È una specie di quantizzazione dello spazio e del tempo. In altre parole, in quelle condizioni lo spazio-tempo continuo non è una buona descrizione della natura.

Quindi non c’è stato un inizio del tempo?

Non ci sarebbe stato un inizio. Il fatto di partire da uno spazio-tempo piatto, con costante di accoppiamento piccola, risolve anche un problema noto come problema trans-Planckiano, cioè il fatto che quando si va indietro nel tempo, se si riporta per esempio la scala di una galassia all’inizio dell’inflazione, questa diventa una scala sub-Planckiana (cioè inferiore alla lunghezza di Planck, che è la lunghezza minima concepibile in natura, ndr). Ma questo è un problema: come si fa a descrivere questo inizio? Ecco, questo tipo di problemi non esiste nel nostro modello, proprio per il fatto che la fase iniziale nel nostro scenario non è affatto sub-Planckiana.

Però questo vuol dire che prima potrebbe esserci stata qualsiasi cosa, andando indietro all’infinito nel tempo.

Sì, certo.

Continua a essere spostato all’indietro nel tempo il problema dell’origine di tutto.

Sì, questo è vero.

E allora non sono vere e proprie condizioni iniziali.

Sì, diciamo che è modello basato sull’assunzione che l’universo sia iniziato nel modo più semplice possibile, cioè molto piatto e con interazioni debolissime. È un postulato che con Alessandra Buonanno e Thibault Damour abbiamo chiamato “ipotesi di un passato asintotico banale” (Asymptotic Past Triviality).

E in quelle circostanze l’entropia era bassa?

Sì, l’entropia era molto bassa. Si può vedere facilmente come l’entropia venga generata di nuovo tramite la creazione di particelle. L’universo diventa sempre più curvo, crea particelle e al Big Bounce è caldo.

Però, se nasce con entropia bassa, non è un universo improbabile?

Effettivamente, se vogliamo sì. Quello che mi piace è che nel momento del bounce si vede che si satura un certo limite teorico sull’entropia. Ci sono varie proposte in fisica sui limiti massimi dell’entropia (limite di Bekenstein, limite olografico ecc.) e la cosa interessante è che all’inizio l’entropia era molto bassa. In un certo senso è una tautologia: siccome l’entropia aumenta, all’inizio deve esser bassa. Ma, al momento del bounce, o del Big Bang, l’entropia sembra massimizzare questi limiti. Allora si potrebbe pensare: ma se l’entropia è già massimizzata, come faccio ad andare avanti? La novità è che questi limiti sull’entropia non sono fissati una volta per tutto, ma sono legati alla geometria dello spazio-tempo: corrispondono ad avere un certo numero di gradi di libertà, cioè di entropia, per ciascun volume di Hubble, che corrisponde essenzialmente alla porzione osservabile dell’universo a un dato istante. Allora, quando l’universo si espande e diventa sempre meno curvo, il volume di Hubble aumenta e aumenta anche il limite superiore accettabile per l’entropia. Quindi si parte al Big Bounce da uno stato massimamente entropico, però l’evoluzione dell’universo fa sì che sia possibile aumentare ulteriormente l’entropia, perché aumenta il limite. Tanto è vero che oggigiorno siamo molto lontani dal saturare questo limite. Però, ripeto, al bounce il limite sarebbe già stato raggiunto, e in un certo senso il bounce avviene perché, se non avvenisse, si andrebbe al di là del limite massimo consentito.

Gabriele Veneziano 2
Gabriele Veneziano (© 2018-2024 CERN).

Tornando al nostro universo, resta una questione: che cosa c’è oltre l’orizzonte visibile?

Normalmente ci si aspetterebbe che l’universo fosse molto più grande di quello che osserviamo. Nel nostro scenario dipende molto da che cosa è successo durante la fase iniziale. Con Damour avevamo avanzato l’idea che questa fase iniziale assomigliasse al collasso gravitazionale di un buco nero, e che l’universo che emerge da questa fase possa essere molto più grande dell’universo osservabile. In questo schema, ci potrebbero essere molti universi paralleli, tutti sconnessi tra loro da un punto di vista spazio-temporale, nel senso che sarebbe impossibile entrare in comunicazione con loro.

I vari universi sarebbero tutti come il nostro, o potrebbero avere caratteristiche diverse?

Potrebbero anche avere leggi della fisica diverse. Nello scenario che abbiamo sviluppato alla fine degli anni ’90, c’è uno stato iniziale che descriviamo come un mare caotico di onde dilatoniche e gravitazionali. Questo stato iniziale tende a evolversi verso la formazione di buchi neri; ma questo può avvenire in punti e in momenti diversi. All’interno dell’orizzonte di ciascun buco nero può avvenire un Big Bounce e nascere un universo. Qui giocherebbe un principio antropico: noi esistiamo in uno di questi possibili universi che ha certe caratteristiche adatte a generare al suo interno la vita e gli esseri umani. Poi magari al di là, ma molto molto lontano da noi, in luoghi disconnessi, potrebbero esistere altri universi, altre dimensioni… nella teoria delle stringhe ci sono anche tutte le dimensioni nascoste. Anche quelle possono cambiare, perché ci sono varie configurazioni in cui possono trovarsi.

Che relazione c’è tra quei buchi neri primordiali e quelli che conosciamo?

All’interno di ogni universo si possono formare buchi neri astrofisici, di tipo più convenzionale. Ma anche all’interno di un buco nero astrofisico ci sarebbe, secondo la teoria di Einstein, una singolarità simile a un Big Crunch (un “Grande Collasso”). Cosa ne è di questa singolarità se si sostituisce la teoria di Einstein con quella delle stringhe? Questa è una domanda affascinante ancora senza risposta.

Come si può trovare una controprova sperimentale di queste idee?

Per esempio, attraverso la radiazione cosmica di fondo. Il nostro vecchio modello pre-Big Bang ha uno spettro di perturbazioni gravitazionali blu, cioè spostato verso le alte frequenze, e ci aspettiamo poca polarizzazione della radiazione di fondo. La polarizzazione di tipo B, che si sta cercando come prova dell’inflazione, in questo scenario sarebbe inosservabile. Negli studi più recenti, però, sembra esserci la possibilità di usare la teoria delle stringhe per innescare un’inflazione più convenzionale, in cui la polarizzazione sarebbe abbastanza grande da essere misurabile.

Questo scenario che abbiamo esaminato è l’unico possibile nella teoria delle stringhe?

Ci possono essere anche altri scenari. Quello di cui abbiamo parlato, e che ho studiato per molti anni, non è l’unico modello, ma direi che è il più semplice. Estrae solo le informazioni dovute a queste nuove simmetrie per dire: se c’è questa soluzione dopo il Big Bang (cioè l’universo che conosciamo), ce ne dovrebbe essere una duale nella fase antecedente. La simmetria trasforma una soluzione nell’altra, e in entrambe il dilatone svolge un ruolo centrale. Se il dilatone è costante oggi, non poteva essere costante prima. Questo è intrinseco in questa simmetria. Sono due fisiche diverse ma connesse dal fatto che c’è una simmetria nelle equazioni.

Ci sono però anche modelli ciclici, come quello sostenuto dal premio Nobel Roger Penrose o come quelli detti dell’universo ecpirotico. Ci sono tante idee in giro e probabilmente risulteranno tutte sbagliate via via che si progredisce sia sul lato teorico sia su quello sperimentale. Però ci sono anche questi concetti più generali per i quali sono pronto a mettere la mano sul fuoco: bisogna scordarsi l’idea del vecchio Big Bang, perché confonde solo le idee. Quello che noi osserviamo oggigiorno, per esempio nella radiazione fossile di fondo, non ha nulla a che vedere con l’inizio dell’universo. Ha a che vedere, invece, con la fine dell’inflazione.

Link e approfondimenti

• Un articolo sulle origini della teoria delle stringhe sul Cern Courier (in inglese).
Un video che spiega la teoria delle stringhe (in inglese).
• La storia dell’universo in un multimedia di Focus, a cura di Andrea Parlangeli. E il dossier di copertina di Focus n° 377.

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