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Un paesaggio marziano, spiegato dalla Nasa

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La fotografia panoramica più grande e ad alta risoluzione presa dal rover Curiosity della Nasa sulla superficie di Marte. È questo che mostra il video che vi mostriamo (credit Nasa/Jpl-Caltech/Msss), con le parole di spiegazione (in inglese) di Ashwin Vasavada, Project scientist del Progetto Curiosity.

Siamo nella regione denominata “Glen Torridon”, alle pendici del Monte Sharp (ufficialmente Aeolis Mons), dove appunto è atterrato il rover il 6 agosto 2012. L’immagine descritta nel video, invece, è stata presa tra il 24 novembre e l’1 dicembre 2019, durante la festività americana del Ringraziamento (Thanksgiving). Approfittando, appunto, di una pausa degli scienziati, Curiosity ha scattato una serie di oltre mille foto dalla postazione in cui si trovava. Le immagini sono state poi assemblate nei mesi successivi, fino a comporre una panoramica di quasi 1,8 miliardi di pixel, che ci consente un’immersione unica nel paesaggio marziano.

Per saperne di più
Sul rover marziano Curiosity: il sito della Nasa.
Un viaggio tra i geyser marziani.

La magia delle luci del Nord

La buia e interminabile notte polare è a volte rischiarata come per incanto da nastri colorati che compaiono, danzano e svaniscono nel cielo come spiriti o divinità che aleggiano sui paesaggi imbiancati. Quelle luci ineffabili sono generate da invisibili flussi di particelle provenienti dal sole che, guidate dal campo magnetico terrestre, si riversano sull’atmosfera ed eccitano gli atomi che la compongono, rendendoli luminosi. Così, per esempio, l’ossigeno alle quote più alte produce le più rare luci rosse, mentre a quote inferiori lo stesso ossigeno emette luce verde, che poi è la più abbondante e caratteristica, e anche quella che i nostri occhi meglio rilevano. L’azoto, dal canto suo, a seconda delle circostanze può anch’esso emettere luce blu, viola o rossa. La aurore boreali, come anche si chiamano le luci del Nord, sono a tutti gli effetti una danza di particelle, atomi, campi magnetici e colori.

Dentro la foto

Questa straordinaria foto scattata dall’italiano Giulio Cobianchi alle isole Lofoten, in Norvegia, cattura un raffinato gioco di luci naturali e artificiali. L’aurora boreale è l’arco colorato che illumina la parte destra dell’immagine, al quale sembra appoggiarsi l’ultima stella del Gran Carro, Alkaid. A sinistra, a riempire l’altra metà della scena, la grande striscia della Via Lattea (la nostra galassia), ma non solo. Accanto alla capanna illuminata, poco sopra l’orizzonte, c’è un puntino rossastro: è Marte. E più in alto, proprio sopra la capanna, la galassia Andromeda. Non li riconoscete? Potete aiutarvi con il supporto grafico fornito dalla Nasa a questo link, dove sono pubblicate le “foto astronomiche del giorno” come questa. Che poi, in realtà, non è una foto semplice, ma la composizione di 18 scatti per formare un panorama a 360°.

“Mentre scattavo ho fatto davvero fatica a restare concentrato, non riuscivo staccare gli occhi dal cielo”

Giulio Cobianchi, l’autore della foto, è nato nei pressi delle Dolomiti e vive attualmente con la moglie nelle isole Lofoten, un arcipelago con paesaggi da cartolina situato oltre il Circolo Polare Artico. Qui ha effettuato molte foto di aurore, di cui vi presentiamo una selezione nella gallery qui sotto (insieme a una foto delle Tre Cime di Lavaredo, che testimonia le origini altoatesine dell’autore): cliccateci sopra per vederle meglio, ne vale la pena. Cobianchi organizza viaggi e workshop fotografici, insegna fotografia anche online e più di 84mila le persone lo seguono su Instagram (@giulio_cobianchi_photo). «La stagione invernale 2020/2021 sta andando molto bene», ci racconta. «Sopratutto il 2021 è iniziato con tanta attività solare e cieli piuttosto limpidi».

In tenda, tra le montagne

Scattare foto come queste richiede, oltre che abilità tecnica, pazienza e dedizione. «La mia passione per “vivere” la natura mi porta a passare molte notti da solo, in tenda in mezzo alle montagne. Non c’è modo migliore per sentirsi in perfetta simbiosi con essa», ha dichiarato recentemente Cobianchi a Media Inaf. E poi, riguardo alla foto ripresa dalla Nasa: «A essere sincero mentre scattavo ho fatto davvero fatica a restare concentrato, non riuscivo staccare gli occhi dal cielo. Avevo alla mia destra l’aurora e alla mia sinistra la nostra galassia, è stata un’emozione incredibile, una delle migliori notti sotto alle stelle che abbia mai vissuto».

 

Per saperne di più

Il sito dell’Astronomy Picture of the Day della Nasa
L’intervista di Cobianchi su Media Inaf.
Il sito di Cobianchi.

 

Viaggio in una stella di neutroni

Già dagli anni ’30 del Novecento, dopo la scoperta dell’esistenza dei neutroni, si riteneva possibile in via teorica l’esistenza di un oggetto stellare composto solo da queste particelle elettricamente neutre. L’idea fu proposta da Walter Baade e Fritz Zwicky, in una nota a pie’ di pagina di un articolo del 1934 che si è rivelato uno dei più lungimiranti in astrofisica e che prevedeva anche l’esistenza delle supernove.

Una sfera perfetta. Una stella di neutroni è infatti quel che resta di un’esplosione di supernova, un fenomeno catastrofico che segna la morte di una stella massiccia, con massa pari a decine di volte il sole. In estrema sintesi, una stella di neutroni è un oggetto con un diametro di circa venti chilometri, con una massa superiore a quella dell’intero Sistema solare, che può ruotare al ritmo di 700 rivoluzioni al secondo ed è così sferico che la sua imperfezione più “vistosa” è al di sotto del millimetro.

Una stella di neutroni a confronto con la città di Monaco di Baviera, in Germania (ESO/ESRI World Imagery, L. Calçada). La massa di questi corpi celesti è superiore a quella del Sole, ma è compressa in volumi molto più piccoli.

Quello che dovete provare a visualizzare è un corpo celeste che abbia le dimensioni di una città come Francoforte o Milano, ma la cui massa è semplicemente enorme e la cui densità è assolutamente inimmaginabile per il nostro senso delle scale fisiche. Stiamo parlando di densità che sono un milione di miliardi di volte quella dell’acqua; un solo centimetro cubo di materiale proveniente da una stella di neutroni – vale a dire quanto una zolletta di zucchero – contiene una massa pari all’intera catena alpina, dalle Alpi Liguri a quelle Friulane.

Un cucchiaio di materia di una stella di neutroni ha la stessa massa di tutte le Alpi

Se già, dunque, facciamo fatica a immaginarle, come sono fatte al loro interno le stelle di neutroni? In realtà non lo sappiamo, ma ci sono alcuni aspetti della loro composizione sui quali tutti concordano. Per esempio, è abbastanza chiaro che una stella di neutroni non è fatta di soli neutroni, e contiene al suo interno anche altre particelle, sebbene in quantità ridotte. Ci sono di certo altri costituenti degli atomi come i protoni e gli elettroni, e proprio questi ultimi, con altre particelle cariche leggere, sono in grado di produrre le enormi correnti elettriche necessarie a generare gli imponenti campi magnetici che osserviamo. Inoltre, è abbastanza chiaro che la struttura di una stella di neutroni debba essere caratterizzata da alcune zone, i cui spessori ci sono noti con una certa precisione.

Luciano Rezzolla
Luciano Rezzolla è direttore dell’Istituto di fisica teorica alla Goethe Universität di Francoforte e membro del comitato scientifico dell’Event Horizon Telescope (EHT), che ha realizzato la prima foto di un buco nero.

Sottile atmosfera. Immaginiamo dunque di “entrare” in uno di questi corpi celesti, partendo dalla superficie e muovendoci verso il centro.­ Fare questo viaggio è in realtà impossibile perché le forze mareali a cui saremmo sottoposti ci distruggerebbero ben prima di avvicinarci alla superficie della stella. Possiamo tuttavia fare un viaggio con la mente, e in questo caso il primo strato che incontreremmo è una sorta di atmosfera: una buccia sottilissima, di spessore non superiore al centimetro, composta da atomi estremamente pesanti e con una densità miliardi di volte superiore a quella della nostra atmosfera. Per quanto estreme, le proprietà di questa atmosfera sono abbastanza chiare, e la sua fisica è relativamente ben testata, tanto che la riteniamo un elemento “noto”. Per quanto paradossale, l’unica parte di un oggetto con un raggio di una dozzina di chilometri che pensiamo di conoscere in dettaglio, a livello di proprietà, ha uno spessore di non più di un centimetro.

Come la Terra, anche una stella di neutroni ha una struttura a cipolla, con un’atmosfera, una crosta e un nucleo

Una “crosta” morbida. Muovendoci verso il centro, al di sotto dell’atmosfera troveremo quella che viene chiamata la crosta, vale a dire uno strato con uno spessore di circa uno o due chilometri, che contiene una serie di ioni pesanti – ossia con grande massa atomica – ma anche elettroni dall’energia estremamente elevata. È bene sottolineare che il termine “crosta” può esser fuorviante, in quanto si tratta in realtà di un materiale elastico e deformabile, simile piuttosto a una sostanza plastica estremamente densa. Parte della materia della crosta presenterà una struttura periodica e regolare in cui gli ioni sono a distanze precise e gli elettroni sono liberi di muoversi negli spazi lasciati vuoti. Questo tipo di struttura a reticolo è quello che incontriamo usualmente nei metalli e nei cristalli, ed è responsabile delle loro proprietà meccaniche.

Nebulosa del Granchio
La Nebulosa del Granchio, nella costellazione del Toro, a circa 6 mila anni luce da noi. È quel che resta di un’esplosione di supernova, e ospita al suo centro una stella di neutroni che ruota 30 volte al secondo attorno al suo asse (ESO).

Verso i misteri del nucleo. Al di sotto della crosta – in uno strato che potrebbe estendersi per sei o sette chilometri – incontreremo quello che viene e definito il nucleo esterno; lì la densità raggiunge le migliaia o decine di migliaia di miliardi (insomma, 1013 o 1014) di grammi per centimetro cubo. Una densità enorme, ma non quella massima, che si incontrerà spostandosi verso la zona centrale, il nucleo interno, che ha anch’esso uno spessore di sei o sette chilometri. Le proprietà della materia nel nucleo interno rimangono sconosciute e rappresentano una sfida teorica eccezionale, con la quale i fisici nucleari si confrontano ormai da quasi quarant’anni. Forse l’interrogativo più importante riguarda la presenza di particelle esotiche come gli iperoni, o addirittura quark liberi (sono le particelle elementari che compongono neutroni e protoni).

Forse nel loro nucleo esiste in forma stabile la materia che era presente nelle prime fasi di vita dell’universo

In un mare di quark. In altre parole, è possibile che al centro di una stella di neutroni – in conseguenza della densità elevatissima raggiunta nel suo nocciolo più interno, il cui raggio non supera il paio di chilometri – i quark siano così addossati gli uni agli altri da diventare “liberi”, ossia da non essere più confinati all’interno di un neutrone o protone, e formino una cosiddetta zuppa di quark. Quest’ipotesi è particolarmente affascinante, perché sappiamo che una zuppa di questo genere doveva esser presente nei primissimi istanti di vita dell’universo, fino a un centesimo di secondo, e si produce per tempi brevissimi quando facciamo collidere ioni pesanti negli acceleratori di particelle. L’idea che questa zuppa sia presente invece in maniera stabile all’interno delle stelle di neutroni e possa essere in qualche modo rivelata – magari tramite l’emissione di onde gravitazionali – apre dunque spazi di ricerca che coinvolgono scienziati di tutto il mondo, me compreso.

Luciano Rezzolla

Luciano Rezzolla è direttore dell’Istituto di fisica teorica alla Goethe Universität di Francoforte e membro del comitato scientifico dell’Event Horizon Telescope (EHT), che ha realizzato la prima foto di un buco nero (Qui un suo Ted sulla scoperta).

Recentemente, ha pubblicato il libro L’irresistibile attrazione della gravità (Rizzoli), di cui questo brano è un estratto, adattato alla linea editoriale del sito.

Nelle stanze di David Lynch

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Come Dale Cooper e Laura Palmer in Twin Peaks, o come Fred Madison in Strade Perdute, si entra nel mondo di David Lynch attraverso una tenda rossa di velluto. Qui siamo però in carne ed ossa, al Salone del mobile di Milano, per visitare l’installazione Interiors by David Lynch. A Thinking Room, firmata da David Lynch e realizzata in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano. Siamo pronti a immergerci in una (doppia) esperienza di cui ancora non sappiamo niente, e che – nell’attesa – ci piace immaginare. Così il pensiero si trova a fantasticare di trovarsi in uno spazio buio, introspettivo, illuminato con luci tenui e calde, decorato con una statua di Venere, un grammofono, un divano in pelle rossa, vinile, ottoni. Intanto sono in coda con una trentina di persone. L’attesa sembra lunga. Vedo entrare chi è di turno, un po’ alla volta, ci vorrà una mezzoretta prima di arrivare.

Twin room
Le indicazioni alle due installazioni gemelle ideate da David Lynch, al Salone del Mobile di Milano (foto A. Parlangeli).

In attesa

La prima parte dell’attesa è più noiosa, non vedo l’ora che arrivi il mio turno e vorrei saltare in testa alla coda. Ma devo aver pazienza, e aspetto dando uno sguardo all’ambiente che mi circonda, alle persone in attesa, ai quadri appesi alle pareti di velluto.

Pensiero, non meditazione

L’attesa si fa più leggera quando, a metà strada, raggiungo uno schermo in cui parla David Lynch intervistato da Antonio Monda, il curatore dell’installazione. «Questa è una stanza unica», dice il cineasta americano. «Non ci sarà nessun’altra stanza come questa». La curiosità aumenta, Lynch sa come tenere alte le aspettative. L’intervista continua. Lynch spiega che quest’opera non ha niente a che fare con i suoi film o con il cinema in generale. E non è nemmeno una stanza per meditare, bensì per pensare. Ma in modo quasi ipnotico ci trascina proprio lì, nella meditazione trascendentale, di cui è un fedele adepto fin da giovane. «Questa sarebbe un’ottima stanza in cui meditare», ammette, «perché è molto tranquilla. Pratico la meditazione trascendentale ed è una tecnica nella quale ti immergi. E immergendosi molte persone hanno idee diverse su dove sia il “dentro” e che cosa sia il “dentro”. Il “dentro” è un campo della coscienza, dentro ogni essere umano al livello più profondo c’è un oceano di pura coscienza (…). C’è chi l’ha chiamato l’Essere, chi l’ha chiamato il “campo unificato”, chi il regno del Paradiso (…). Questo campo è la coscienza ed è un campo di intelligenza, di creatività, di gioia, di energia, di amore e di pace senza confini». Lo trovo un discorso molto bello e poetico, con una precisazione però. Anzi due. Anzi, forse anche tre o quattro, se non di più…

Thinking rooms
Una delle “thinking rooms” vista dall’esterno (foto A. Parlangeli).

Considerazione 1

Lynch implicitamente assume che tramite la meditazione si possa raggiungere, attraverso un’azione soggettiva, uno stato oggettivo, una coscienza condivisa universale. Questo mi sembra un salto logico eccessivo, diciamo che è un atto di fede. Per di più, identificare questo stato mentale con la coscienza è un ulteriore volo pindarico. Però è vero che gli stati mentali che si raggiungono con la meditazione sono probabilmente i più oggettivi tra gli stati mentali. In altre parole, tutti quelli che riescono a raggiungerli provano la stessa esperienza.

Considerazione 2

David Lynch fa poi un passo ulteriore, anzi due, entrambi molto azzardati: identifica lo stato più profondo che si raggiunge con la meditazione con il “campo unificato” della fisica. Qui ci sono altre due trappole logiche. Innanzitutto identificare uno stato mentale con uno stato non solo oggettivo, ma anche fisico, implica un ulteriore salto logico. Come dire che se guardiamo nel vuoto dentro di noi accediamo al vuoto quantistico dello spazio esterno: è un atto di fede. In secondo luogo, nel vuoto quantistico che conosciamo ci sono molti campi, non uno. Il campo unificato a cui allude Lynch è una tra le tante possibilità indagate dalla fisica teorica, ma è un’ipotesi di cui ancora non esiste nemmeno una teoria completa, figuriamoci una prova sperimentale.

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La sedia all’interno della Thinking Room (foto A. Parlangeli).

Nonostante queste osservazioni, l’intervista mi piace. Lynch è un grande affabulatore, lo si segue con piacere. E poi su molte cose ha ragione. Si può non condividere al 100%, ma è interessante. E poi Lynch e Lynch. Così, mentre resto incollato allo schermo a seguire l’intervista, la coda è avanzata e chi è dietro mi guarda con ostilità. Dunque mi sposto; se non altro restano ormai poche persone, all’improvviso l’attesa è più leggera.

Sulla poltrona

Presto arriva il mio turno. L’assistente mi rassicura che posso fare foto e video, posso perfino sedermi sulla sedia e disegnare quello che mi viene in mente. Così apro le tende rosse e mi ritrovo in un tunnel buio, dal quale si riemerge in uno spazio fin troppo illuminato e affollato, rispetto a quello che mi aspettavo. Al centro, la sedia per pensare, che è vuota. Colgo l’occasione per fotografarla e per sedermi, posso stare al massimo uno o due minuti. Mi guardo intorno. Di fronte a me l’immagine di un impianto industriale, un ambiente tipicamente lynchiano fin dai tempi di Eraserhead. Tutto intorno, alcune nicchie incastonate nelle pareti blu, un colore che secondo Lynch induce calma e riflessione. Rimango lì, a guardarmi intorno in uno stato di consapevolezza e di attenzione. Non trovo però nulla che mi inviti alla meditazione. Osservo le persone che entrano e che escono, osservo i miei pensieri. Prendo un foglio e scrivo “Josway”, lo lascio lì. Poi mi alzo e continuo a esplorare lo spazio in cui mi trovo. È vero, l’ambiente non ha nulla a che fare con le logge bianche e nere, con gli stati mentali di Fred, con Eraserhead e Mulholland Drive; e un po’ mi dispiace.

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Nella Thinking Room (foto A. Parlangeli).

Doppia esperienza

Quindi esco un po’ deluso rispetto alle aspettative, ma comunque divertito. E non ho nessuna intezione di perdermi la seconda esperienza, quella nella stanza gemella situata nel padiglione adiacente, anche se so già che cosa aspettarmi: è esattamente identica a quella che ho visto. E infatti basta percorrere pochi metri per trovarsi in un altro ingresso, identico al primo, ed entrare in uno spazio identico a rifare la fila. Per fortuna qui c’è meno gente. E ci sono altre persone che, come me, hanno già visto l’altra installazione, probabilmente perché il flusso di gente del Salone del mobile passava prima da lì. Insomma, in questa stanza si respira un’aria diversa. Non ci sono la curiosità e la magia provate prima. Anche il clima d’attesa cambia la percezione, rifletto. E anche per questo, forse, questa seconda esperienza risulta molto più fredda dell’altra. Nella stanza ci sono più persone e sono meno curiose. Passano e se ne vanno, come me.

Link e approfondimenti

• Il sito del Salone del Mobile, con un’intervista al curatore della mostra Antonio Monda.

• Gli articoli dedicati alla meditazione con Daniel Lumera.

• Il libro Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch (Mimesis) di Andrea Parlangeli.

Cover twin peaks

 

Il poeta e il Sacerdote

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“Il Sacerdote” da un altro punto di vista. In autunno, le sue foglie cambiano colore prima di cadere (Foto F. Tomasinelli).

Fermata Palestro. Arrivati ai giardini pubblici Indro Montanelli, comunemente chiamati “giardini di Porta Venezia”, basterà incamminarsi verso il laghetto popolato da tartarughe palustri, dove starnazzano gallinelle e germani reali. Lì vedremo stagliarsi fra le fronde un profilo particolare: un maestoso cipresso calvo (Taxodium distichum), albero antico, di altezza e dimensioni monumentali. Il suo tronco, di oltre tre metri e mezzo di conferenza, non si può contenere in un abbraccio, lo si può al più circumnavigare, fare attorno un giro completo, di 360 gradi, per ammirarne la corteccia rugosa, quasi un volto segnato dall’età. Il tronco si eleva per raggiungere e “bucare i 30 metri di altezza”, come dice il nostro interlocutore Tiziano Fratus, poeta e “dendrosofo” (come ama farsi definire), che ha fatto degli alberi la sua passione e parte integrante della sua stessa vita. In uno dei suoi libri, I giganti silenziosi (Bombiani), racconta la storia e le particolarità di questi “grandi vecchi” che si incontrano nelle città italiane, e tra i quali il cipresso calvo di Milano – che lui stesso definisce “il Sacerdote” ­– ha un posto di primo piano. Gli abbiamo chiesto di parlarcene.

Nato tra le paludi

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Dettaglio di un ramo del cipresso calvo con i caratteristici aghi, che in questa specie cadono in autunno (F. Tomasinelli).

Il cipresso calvo, o cipresso di palude, è un albero di origine nordamericana. Si chiama così perché appartiene alla famiglia dei cipressi (Cupressacee), ma nella stagione fredda – a differenza dei suoi simili – perde tutte le sue foglie aghiformi. «È stato importato dalle contee meridionali degli Stati Uniti d’America proprio per adornare le zone umide dei giardini, ovvero quei laghetti che spesso si usava inserire all’interno di contesti ispirati a un’idea armoniosa, romantica dell’architettura del paesaggio: viali ondulati, boschetti, finte rovine, grotte, statue neoclassiche, e (appunto) laghetti, spesso ricavati in buche di terra che costituivano montagnole», racconta Fratus. «I nostri alberi in genere preferiscono restare all’asciutto, tranne poche essenze, mentre i tassodi non soffrono; anzi, producono radici effimere, i pneumatofori, che possono rialzarsi anche di 30-40 cm dal suolo per consentire all’albero di respirare anche se il terreno è sott’acqua (v. foto sotto). Inoltre, sono alberi dalla crescita veemente, un portamento regale, dritti, robusti, una bella corteccia a scaglie ramata, con folte chiome verdognole che in autunno si colorano di rosso scuro, rosso cardinale, e poi si spogliano. Una conifera, come i nostri larici di montagna, che si sveste con l’arrivo dell’inverno».

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Il tronco di un cipresso calvo dei Giardini Indro Montanelli, con le radici a contrafforti e i pneumatofori, visibili sulla sinistra (F. Tomasinelli).

Vecchio confine

Questi alberi adornano molti parchi italiani, da Villa Rossi a Santorso (Vicenza) a villa Doria Pamphilj a Roma. A Piane di Montegiorgio, in provincia di Fermo, ce n’è un intero filare. Il Sacerdote dei giardini di Porta Venezia ha tra i 150 e i 200 anni, ed è il più alto e monumentale di un’intera colonia che cresce attorno alle acque stagnanti di un laghetto artificiale. «È un albero imponente, inatteso in un giardino del centro di Milano. Inatteso sia perché gli alberi di questa specie spesso sono meno robusti, sia perché ci si può aspettare la vista di grosse querce o meglio ancora, cedri o platani secolari ed eventualmente monumentali. Meno probabile incontrare un cipresso calvo del genere. Certo, chi conosce la storia dei giardini milanesi sa che questo è uno dei più antichi della città: un tempo segnava il confine orientale dell’abitato, poi è diventato l’oasi che è oggi, circondata da nuovi quartieri, strade, e costeggiata dal tracciato sotterraneo della Metro. Il placido vigore di quest’albero ci dice della grande forza che lo anima, con due concrescite laterali che dalla base si sollevano quasi a intimorire lo spettatore, proprio come un sacerdote ­– cattolico o luterano – che ci ammonisce. Chi passa spesso non lo nota, perché l’albero se ne sta in ombra, circondato da altre piante. Ma appena l’occhio gli cade addosso, si resta quasi increduli. Ci si avvicina e lo si ammira. Dal basso, verso le proiezioni aeree, le chiome fitte, ombrose e ricadenti… Lo senti il profumo delle sue resine?»

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Tiziano Fratus: è lui che ha battezzato il cipresso calvo di Milano “il Sacerdote” (T. Fratus).

Approfondimenti

• I libri di Fratus L’Italia è un giardino (Laterza) e I giganti Silenziosi (Bompiani), Manuale del perfetto cercatore d’alberi (Feltrinelli) e Sogni di un disegnatore di fiori di ciliegio (Aboca). E il suo sito internet: www.homoradix.com.
• Una visita ai Giardini Indro Montanelli di Porta Venezia.
• Il libro Oro Verde. Quanto vale la natura in città, (Il Verde Editoriale). Tra i suoi autori, Francesco Tomasinelli, che ha anche effettuato gli scatti pubblicati in queste pagine. 
• Il progetto Forestami, per rendere più verde Milano.

 

La via della luce 3 (neuroscienze)

Siamo al FlavioLucchiniArt Museum, a Milano, e abbiamo appena partecipato a una sessione di meditazione collettiva con Daniel Lumera, come abbiamo raccontato in un precedente articolo. Ora siamo con Luca Ascari, Chief Technology Officer e co-fondatore di Henesis, l’azienda – spin off della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – che ha sviluppato la tecnologia necessaria a visualizzare l’attività cerebrale di Lumera, quella che è stata proiettata su uno schermo durante la meditazione. Ascari è un ingegnere elettronico che ha già completato un dottorato in bioingegneria alla Scuola Superiore Sant’Anna ed è ora studente di secondo dottorato in neuroscienze all’Università di Parma, dove fa parte del gruppo di Giacomo Rizzolatti che ha scoperto i neuroni specchio.

Di che cosa si occupa la vostra startup?

Ci occupiamo di tecnologie al servizio dell’uomo. Soprattutto nella prospettiva di un innalzamento dell’età media, ci occupiamo di mantenere, di migliorare e di recuperare la qualità della vita che, a causa per esempio di un’operazione o di una malattia, rischia di essere persa. Abbiamo un approccio olistico dal punto di vista motorio, cognitivo ed emozionale. Quindi meditazione, mindfulness… queste tecniche sono una parte importante del benessere. E poiché noi ci occupiamo di tecnologia, abbiamo sviluppato tecnologie per misurarne gli effetti.

Come funziona la fascia che ha indossato Lumera durante la meditazione?

La fascia raccoglie e registra l’attività del cervello, quindi fa un’elettroencefalografia con un numero ridotto di contatti elettrici, però con qualità alta: è una qualità clinica, sostanzialmente. Da questi segnali vengono estratte alcune caratteristiche tipiche delle varie fasi della meditazione, che vengono evidenziate sullo schermo. Per quest’occasione abbiamo voluto creare un’opera d’arte visiva; ma dietro c’è uno studio e un’analisi dei segnali generati dal cervello umano durante la meditazione.

Quali sono i principali segnali che vengono registrati?

Quello che si registra sono oscillazioni elettriche corrispondenti ai ritmi corticali, che hanno una certa energia nelle varie bande di frequenza. Per esempio, basta chiudere gli occhi perché un’oscillazione a una frequenza di circa 10 Hz (chiamata “banda alfa”) emerga dal rumore di fondo nella zona occipitale, sede della corteccia visiva. L’aumento dell’energia è legato al fatto che la corteccia, in quel momento, non sta elaborando segnali visivi, lasciando così la popolazione neuronale nel suo stato di riposo, che è oscillatorio “all’unisono” (in fase), a quella frequenza.
A seconda della capacità di andare più a fondo nella meditazione, si potrebbe avere un allargamento di queste onde alfa verso il lobo frontale. Inoltre, c’è normalmente un aumento delle onde theta, quelle lente (circa 5 Hz), partendo dai lobi parietali per poi interessare tutto il cervello. E le onde beta (attorno ai 20 Hz), firma tipica di attivazione del sistema motorio, cioè di quando prepariamo o coordiniamo i movimenti, normalmente scendono durante tutta la fase meditativa, fin quasi a scomparire nelle fasi più profonde. La nostra interfaccia grafica permette di visualizzare queste cose in tempo reale.

TEDx di Luca Ascari sulla percezione artificiale a servizio dell’uomo.

E qual è l’elemento più caratterizzante della meditazione che abbiamo appena svolto?

L’aumento delle onde theta, insieme con l’attenuazione delle onde beta e delle onde alfa. Queste ultime si concentrano nella parte frontale.

Si concentrano lì perché Lumera dice di portare l’attenzione nella parte alta del cranio?

Difficile a dirsi: dipende anche da come una persona riesce o meno a immaginare questa fase. Le persone “visive”, per esempio, utilizzano molto la vista, e la modulazione delle onde alfa potrebbe esserne un marcatore. La corteccia funziona anche se non stiamo vedendo effettivamente con gli occhi, si attiva anche con l’immaginazione.

La fase di respirazione invece che effetto ha?

La fase di respirazione genera normalmente oscillazioni ampie sincronizzate con il respiro in tutte le frequenze, considerate in parte come artefatti di natura muscolare, in parte come attività corticale volta alla coordinazione cognitiva di movimenti non normalmente effettuati. In Daniel, però, che è un meditatore con grande esperienza, il cervello riesce a rimanere quieto anche durante questa fase, come se  la coordinazione motoria restasse a livello sottocorticale, non coinvolgendo la corteccia, che quindi permane nello stato di quiete, meditante.

E la fase del mantra?

La fase del mantra è complessa. L’abbiamo vista bene al MAXXI di Roma: si vedeva che le fasi del so-ham mostravano un aumento e una diminuzione dell’attività. Questo è il segnale che visualizziamo, dargli una spiegazione neuroscientifica è però oltre il nostro scopo, e non è detto che sia possibile. Sappiamo alcune cose sul cervello, molte altre restano sconosciute.

Tutto questo, allora, alla fine che ci dice?

Ci dice che il cervello meditante subisce alcune modificazioni autoindotte, quindi il cervello ha la possibilità di modificare sé stesso e di abbassare il livello di attività disorganizzata per favorire un livello di attività più organizzata.

 

Link e approfondimenti

  • La prima parte dell’articolo (prologo e intervista) e la seconda (l’esperienza).
  • Il sito dell’evento Meditation Rave.
  • Il libro 28 respiri per cambiare vita (Mondadori), di Daniel Lumera.
  • Il nuovo libro di Daniel Lumera, Come se tutto fosse un miracolo (Mondadori), in libreria dal 2 aprile 2024.
  • Il libro Il cervello di Siddhartha (Rizzoli), di James Kingsland.
  • Il sito del FlavioLucchiniArt Museum, che ha ospitato l’evento.
  • Il sito di Henesis, la startup che ha realizzato le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale usate nell’evento.

La via della luce 2 (l’esperienza)

Siamo in un’ampia stanza bianca, seduti ciascuno sul suo tappetino, in attesa che la performance cominci. Alle pareti, immagini di donne con il burqa del FlavioLucchiniArt Museum, dove si svolge l’evento. Daniel Lumera, in abito blu, con in testa la fascia che registra la sua attività cerebrale, siede nella posizione del loto su un divano bianco, di fronte a una platea di qualche decina di persone. Si prova il microfono, si aggiustano gli altoparlanti, la gente si mette in ascolto. Il Meditation Rave sta per cominciare.

Premessa 1. Fa bene

Daniel comincia a parlare. Ci accompagna per mano nella pratica, ma non prima di aver speso due parole sui benefici della meditazione. «Fa molto molto bene», spiega: «Ci rigenera, incide sul tono d’umore, sulla salute mentale, sugli stati depressivi, sugli attacchi d’ansia, sugli attacchi di panico. E in più potenzia le capacità cognitive, quindi la memoria, l’attenzione, la capacità creativa. Tanto che l’Organizzazione Mondale della Sanità (Oms) l’ha inserita tra i tre pilastri del benessere, dopo la corretta alimentazione e il corretto movimento fisico».

Premessa 2. Non cercare la convenienza

La meditazione non deve essere pensata in modo opportunistico. «Non dovremmo essere spinti a meditare per convenienza, perché poi stiamo meglio», chiarisce Lumera. «La meditazione è un’arte nobile, che ha millenni di storia e che ci spinge a realizzare un aspetto molto profondo di noi, che è collegato con il proposito della nostra vita, con il senso di noi stessi, con il senso dell’esistenza. E per farlo abbiamo bisogno di silenzio, abbiamo bisogno di contemplazione, abbiamo bisogno di ascolto».

Premessa 3. Che cosa accadrà

Quello che ci accingiamo a fare sarà seguire una sequenza che Lumera definisce “perfetta”. «Incide su quattro neuromodulatori: il primo è la dopamina, che è l’ormone legato ai desideri e alle dipendenze, anche quelle psicologiche e relazionali. Poi stimoleremo l’epinefrina attraverso una particolare forma di respirazione. Quindi entreremo nella fase più contemplativa e verrà stimolato il rilascio di serotonina, l’ormone della felicità. E infine, nella fase di gratitudine finale, l’ossitocina, che è l’ormone dell’amore».

Premessa 4. Mantra d’autore

Nella seconda delle quattro fasi useremo un mantra molto diffuso – So Ham, il mantra del respiro – che merita due precisazioni. La prima riguarda il significato. Il mantra deriva infatti da un verso in sanscrito delle Upaniṣad: “La luce che è la forma più bella, io l’ho vista. Io sono ciò che Lei è. Io sono Quello!”. So Ham vuol dire letteralmente “Io sono quello”, cioè “Io sono la luce”.

La seconda precisazione riguarda il fatto che ci aiuteremo con un suono a 432 Hz creato da Alessandro De Rosa, allievo di Ennio Morricone.

Meditazione So Ham a 432 Hz di Daniel Lumera; la musica è di Alessandro De Rosa (durata 7 ore).

Premessa 5. Attività cerebrale e visualizzazione

Una peculiarità della performance è il fatto che l’attività cerebrale di Lumera apparirà su uno schermo pensato come un’opera d’arte. A spiegare come funziona è Luca Ascari, co-founder della startup Henesis. «Questa è una rappresentazione artistica di ciò che succede nel nostro cervello», esordisce Ascari. «I colori rappresentano la potenza dei segnali elettrici che la fascia sta registrando. Quando una zona diventa blu vuol dire che lì c’è un abbassamento dell’attività elettrica. Quando è rossa, vuol dire che c’è un innalzamento».

Ascari punta ora l’attenzione su un cerchio, anch’esso marcato da colori, che circonda la raffigurazione del cervello. «Qui intorno abbiamo rappresentato in modo un po’ astratto 3 caratteristiche dei segnali elettrici delle varie fasi della meditazione», dice. «Sono caratteristiche estratte dalle basse frequenze, dalle medie frequenze e dalle alte frequenze. Il cervello durante la meditazione entra in varie fasi, che possono essere riconosciute nei segnali che registriamo».

Sarebbe tutto bellissimo. Ma, come nota lo stesso Ascari, chi segue Daniel Lumera nella meditazione, trovandosi a occhi chiusi non potrà vedere che cosa succede nello schermo.

Meditazione in 4 fasi

Daniel ringrazia Felicia Cigorescu, curatrice dell’evento. E avvisa che, durante il ciclo di respirazione, è normale che si avverta un eccesso di ossigenazione ed eventualmente un po’ di vertigine. In tal caso, è importante seguire il proprio ritmo. Tutto è chiarito, il Meditation Rave ha inizio.

locandina
La locandina dell’evento (Meditation Rave_@FLA Museum_02.03.2024).

Primo ciclo di respiro

«Siediti in una posizione comoda, con la colonna vertebrale eretta». È il più classico degli inizi. «Fai un profondo respiro, chiudi gli occhi. Porta tutta la tua attenzione al respiro, alla sensazione che in questo preciso istante l’aria crea entrando e uscendo dalle tue narici». Comincia così un ciclo di 28 respiri. Il ritmo è serrato, non c’è pausa tra un’inspirazione e un’espirazione. L’aria entra ed esce come in un soffietto. Provo un senso di ebrezza e di vertigine, ma riesco a tenere il ritmo.

Secondo ciclo di respiro

Dopo un’inspirazione e un’espirazione più lente e profonde, seguite da un momento di apnea, arriva un piccolo premio. «Libera il respiro totalmente. Porta l’attenzione oltre il capo, nello spazio vuoto sopra di te. Senti espansione nel silenzio. Senti come una pioggia di luce, di vita, che discende dall’alto, che porta pace, presenza, armonia, giustizia, verità, amore».

Piccola pausa. E comincia un secondo ciclo di 28 respiri, per il quale è richiesta maggior consapevolezza e maggior profondità. Penso a quanta esperienza abbia Lumera, che riesce a contare, a condurre e a rilassarsi.

Ciclo del So Ham

È arrivato il momento del mantra. Sono un po’ stordito, ma presente. Mi sembra che stia andando bene. «Ascolta i suoni delle mie parole. Porta tutta la tua attenzione a 3 centimetri sopra il capo. Pronunceremo adesso il suono So Ham. Insieme. Soooo haaaam». E via così, per 28 volte. Il mantra è un potente mezzo di concentrazione. Aiuta a focalizzare l’attenzione, a regolare il respiro, a svuotarsi dei pensieri. E al tempo stesso induce vibrazioni che ci portano in risonanza con il nostro stesso corpo, con gli altri corpi, con tutte le anime presenti nella sala.

A un certo punto la vibrazione finisce, e si rimane nel silenzio, nella luce.

In meditazione

Se tutto va bene, questo dovrebbe essere il culmine della meditazione. «Porta tutta la tua attenzione nella fontanella alla sommità del tuo capo», dice Lumera. «Tutto il tuo essere è lì. E rimani nel silenzio, nella presenza, nella pura consapevolezza di essere. Esattamente nella sommità del tuo capo. Entra adesso in uno stato di presenza, senza fare più nulla». Tra una frase e l’altra scorrono i minuti, o forse i secoli. Il tempo è alterato, lo spazio si è dissolto. Tutto è luce. «Lentamente, appoggiamo le nostre mani nel cuore, mantenendo gli occhi chiusi. E prendiamo contatto con il cuore. Fai un sorriso al tuo cuore e senti il tuo cuore che ti sorride».

Grazie

Si esce da questo momento solare come da un grembo materno. Ed ecco che avviene qualcosa di inatteso. Daniel ci dice di pensare a una persona amata. «Non importa che sia accanto a te in questo pianeta. Può essere tua madre, tuo padre, un figlio, una sorella, un compagno, una compagna, un amico». Ci chiede di chiamarla e di pensarla mentre sorride e si avvicina. «E avvolgendo le tue parole con dolcezza, con delicatezza, dille “grazie”. Grazie. Grazie per ogni istante che ci è stato concesso, grazie per ogni abbraccio, grazie per il dolore, grazie per l’amore, grazie per ogni respiro, grazie per tutto ciò che è stato. Grazie per essere stato presente nella mente, grazie per il dono della tua vita. E adesso digli “io ti libero”. Inspira, espira, apri le mani e lasciala andare. Guardala mentre vola via, mentre va nel luogo più bello, più luminoso»… Grazie. Grazie.

(Continua)

 

Link e approfondimenti

  • La prima parte dell’articolo (prologo e intervista).
  • Il sito dell’evento Meditation Rave.
  • Il libro 28 respiri per cambiare vita (Mondadori), di Daniel Lumera.
  • Il nuovo libro di Daniel Lumera, Come se tutto fosse un miracolo (Mondadori), in libreria dal 2 aprile 2024.
  • Il libro Il cervello di Siddhartha (Rizzoli), di James Kingsland.
  • Il sito del FlavioLucchiniArt Museum, che ha ospitato l’evento.
  • Il sito di Henesis, la startup che ha realizzato le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale usate nell’evento.

La casa sulla collina

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Mentre scrivo ho davanti agli occhi, oltre l’ampia finestra che mi separa dall’esterno, la vigna da cui tutto è cominciato. Ho in testa le parole con cui mi ha accolto Gianluca, il “padrone di casa”: «Dopo essere rimasto quasi immutato per secoli, negli ultimi cinquant’anni questo paesaggio è cambiato. A fine ’800, i visitatori venivano qui per ritrovare i paesaggi dei quadri di Piero della Francesca, di Raffaello. Fino alla Seconda guerra mondiale, c’erano ovunque campi coltivati. Ora i campi sono stati abbandonati, è cresciuto il bosco e sono arrivati alberi che prima non c’erano, come le acacie e i pini». Dell’antico vigneto che fino a pochi decenni fa ricopriva un ampio terreno non resta che un fazzoletto di terra dispiegato di fronte ai miei occhi.

Connubio totale

Sono a Ca’ Romanino, una residenza realizzata negli anni ’60 da Giancarlo De Carlo in cima a una collina a due passi da Urbino. E Gianluca Annibali è il giovane presidente della fondazione che mantiene abitata la casa, consentendo un pernottamento di 24 ore agli interessati.

L’architettura dialoga sempre con il paesaggio che la circonda, ma in questo caso il connubio è totale. I vecchi alberi sono integrati nella costruzione. Gli spazi in cui mi muovo sono in parte costruiti, in parte scavati nel terreno. La casa fa parte della collina stessa in cui si trova e viceversa: dove c’è il prato, sono sepolte le macerie di un vecchio casolare che è stato demolito. Qui il confine tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale non c’è; quello che conta sono i volumi che si susseguono senza soluzione di continuità, le forme, la luce.

Ca' Romanino 2
Il piano superiore dell’edificio. In basso, si vede l’ingresso nascosto e incastonato nella collina (Foto A. Parlangeli).

Ingresso nascosto

La prima cosa che colpisce quando si arriva è che manca la porta d’ingresso. Non c’è. O, meglio, non si vede. Si entra infatti nell’edificio attraverso un passaggio tagliato nella collina e delimitato con il cemento armato. Per arrivare alla porta, bisogna percorrere quel passaggio e girare l’angolo. Appena lo si fa, si nota che in realtà gli ingressi sono due. Su uno, che potremmo definire il principale, c’è il nome della proprietaria, Sonia Morra. L’altro era pensato per gli ospiti, a cominciare dallo stesso De Carlo. Entro da qui, e sono subito invaso da un forte senso di familiarità. Ho vissuto per un periodo della mia vita, ospite di amici a Milano, in una casa brutalista che ho molto amato, e ritrovo subito anche qui alcuni elementi comuni: l’uso del cemento armato, le pareti in mattoncini rossi, il soffitto ruvido, le porte tagliate a tutta altezza, i termosifoni situati sotto le finestre, le pareti mobili. Non si può dire però che De Carlo fosse un architetto brutalista, e infatti a ben guardare si trovano elementi tutti suoi, come quelli ispirati al mondo navale assimilati nella sua infanzia. De Carlo, infatti, era nato a Genova e il padre era un ingegnere navale. Ecco allora che a Ca’ Romanino si ritrovano finestre che ricordano oblò, boccaporti. C’è una stanza cilindrica con una porta scorrevole e due passaggi, uno verso l’esterno e uno verso il soggiorno, che ricorda una camera di decompressione. E ci sono quattro camere singole che comunicano a due a due per mezzo di pareti mobili, come cabine di una nave. Anche i due punti cottura erano pensati originariamente in modo minimale, quasi campale. Ma la proprietaria convinse l’architetto a progettare almeno una cucina vera e propria. «Ho detto subito a Giancarlo che non potevo accontentarmi di un posto di cottura, che non potevo nemmeno immaginare una casa senza cucina», ha ricordato la donna.

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Il soggiorno, lo spazio (condiviso) più importante dell’abitazione. È ispirato al patio di villa Sarabhai di Le Corbusier ad Ahmedabad, in India (Foto A. Parlangeli).

Molteplici influssi

Gli spazi della casa sono divisi in due blocchi comunicati. C’è una zona notte in basso, con le già citate quattro stanze singole, e una zona notte in alto. I due blocchi comunicano attraverso un soggiorno, anch’esso tagliato in due, dominato da un grande camino in ferro al centro e illuminato da un’ampia finestrata divisa in sei. Questa vetrata, evidenza Annibali, è ispirata al patio di villa Sarabhai di Le Corbusier ad Ahmedabad, in India, con l’unica differenza dell’aggiunta del vetro per ragioni climatiche. D’altra parte lo stesso De Carlo ha ammesso di ispirarsi ad architetti come Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright e Le Corbusier.

Condivisione e riservatezza

Giancarlo De Carlo dava molta importanza all’impatto sociale dell’architettura ed è noto per la progettazione di spazi che agevolassero l’incontro e la condivisione, come quelli dei collegi universitari. A Ca’ Romanino, però, avviene il contrario: la residenza era infatti pensata come un ritrovo tra amici, che garantisse a ciascuno la sua liberà e la sua indipendenza.

Uno spazio tra amici

«La casa fu costruita tra il ’67 e il ’68, ma il terreno era stato acquistato una decina di anni prima», racconta Gianluca. «Sonia e Livio Schirollo erano una coppia milanese che si era trasferita a Urbino. Vennero a sapere dal sindaco che quel terreno era in vendita e lo comprarono perché erano interessati al vigneto, che all’epoca era molto più ampio di adesso». Poi Livio ricevette una piccola eredità e decise di costruire una casa, affidando l’incarico a De Carlo, con cui lui e la moglie erano molto amici. Sia De Carlo sia Schirollo, infatti, erano stati chiamati a Urbino da Carlo Bo. Schirollo era stato in precedenza docente di Storia della filosofia a Torino, De Carlo era stato segnalato a Bo da Elio Vittorini e Vittorio Sereni.

Alcune foto scattate durante il soggiorno (A. Parlangeli).

Fritto misto e melanzane

La casa fu realizzata in economia; ma fu completata e arredata, e ancora oggi si può ammirare così com’era. Spesso i coniugi Schirollo avevano ospiti a cena, a cominciare da Giancarlo De Carlo e Carlo Bo. Quest’ultimo, ha detto Sonia, “è sempre stato attratto da piatti semplici come la pasta con il pomodoro o con i fagioli e dal fritto misto”. Mentre a De Carlo piacevano le melanzane grigliate.

“Uno spazio non diventa mai un luogo finché non ci sono degli esseri umani che lo esperiscono, che lo cambiano, che lo modificano” (Giancarlo De Carlo)

Antichi vitigni

Poi la vita ha fatto la sua parte. I coniugi Schirollo si separarono, e da allora lo stesso De Carlo cominciò a frequentare sempre meno la casa. Fino a che Sonia decise di creare un’associazione, poi divenuta fondazione, per mantenere l’abitazione in uso insieme al vigneto, che – pur nelle sue dimensioni ridotte – include nove vitigni (come el scruculin, el sgranarèll, el famo’s, el tintorièll) di cui alcuni autoctoni e rari. «Il progetto che ha caratterizzato la fondazione fino ad adesso è che questa casa, nata per accogliere un gruppo di amici, diventasse patrimonio di tutti», conclude Annibali. «Oggi, infatti, con il progetto 24 ore, la casa non è solo visitata, è vissuta». Come disse lo stesso De Carlo: “Uno spazio non diventa mai un luogo finché non ci sono degli esseri umani che lo esperiscono, che lo cambiano, che lo modificano”.

Link e approfondimenti

• Il sito della Fondazione Ca’ Romanino.
• Il sito di Josway dedicato ai due rinascimenti di Urbino, con le foto dei collegi universitari di Giancarlo De Carlo descritti anche da Italo Calvino.