Home Blog Page 33

I computer sostituiranno i matematici? 

I recenti sviluppi dell’informatica, e in particolare del machine learning, aprono le porte a molte riflessioni sulla natura dell’intelligenza, dell’apprendimento, della conoscenza. Il titolo di un articolo pubblicato recentemente su Quanta Magazine, “Quanto manca ai computer per automatizzare il ragionamento matematico?”, mi sembra però quasi una domanda fallace, per dirla con i logici medievali, se prima non ci si interroga su che cosa sia un ragionamento matematico.

A questo fine, care lettrici e cari lettori, procederò socraticamente ponendovi tre domande.

*  *  *

1° Domanda. Quanti modi ci sono di risolvere il Sudoku?

Certamente vi sarete cimentati con il Sudoku, gioco geniale di cui si può godere sia su un quotidiano giapponese che su uno norvegese, pur essendo ignoranti delle rispettive lingue. Consiste in una griglia 9×9 nelle cui caselle appaiono sparse alcune cifre, da 1 a 9. L’obiettivo è completare la griglia in modo che in ogni riga, in ogni colonna e in ognuno dei 9 quadratini 3×3, nei quali si può decomporre il quadrato più grande, ogni cifra da 1 a 9 compaia esattamente una volta. Ci sono due modi di risolvere il Sudoku: con la matita e la gomma, oppure con la penna. Nel primo caso, si procede per tentativi, cancellando le cifre che avevamo scritto in modo provvisorio quando ci portano a un vicolo cieco, e sostituendole con altre diverse. Nel secondo caso, si scrive un numero solamente quando si è assolutamente certi che sia corretto (in verità, anche in questo secondo caso si possono annotare nel quadratino più numeri che via via si andranno a escludere, ma comunque si scrivono solo informazioni certe e mai provvisorie).

Dove cominciare?

La domanda che vi pongo è dunque la seguente. “Poiché si giunge in ogni caso alla soluzione, che differenza c’è tra i due modi di affrontare il gioco?”. Non si accettano risposte psicologiche del tipo “Ma nell’altro modo non c’è gusto”, “È una questione di ragionamento”… Appunto voglio che si spieghi quali siano le implicazioni di un ragionamento matematico. Pensateci un attimo prima di continuare a leggere.

Ed ecco la risposta. La differenza è che nel secondo caso avete dimostrato qualcosa, e cioè che c’è un’unica soluzione! Per convincervi, pensate a cosa avreste fatto (sempre nel secondo caso) se vi avessero dato da completare una griglia assolutamente bianca. Niente. Non avreste saputo da dove cominciare. Un automa che dovesse risolvere il Sudoku con un algoritmo di backtracking per tentativi ed errori, l’equivalente di matita e gomma, ne avrebbe invece trovata almeno una.

*  *  *

2°Domanda. Quanti modi ci sono di impacchettare le sfere?

Quando andate al mercato, fateci caso; ci sono due modi ottimali di sistemare le mele – intese come sfere – in modo compatto ad ogni strato: l’impacchettamento esagonale e quello cubico a facce centrate. Keplero (quello delle leggi di Keplero) si chiese se quelli fossero gli unici modi ottimali possibili. Ebbene, per quasi 4 secoli nessuno riuscì a trovare un modo migliore per sistemare le mele, o a dimostrare che non ce ne fossero altri. Finalmente, nel 1998, Thomas Hales dimostrò che i fruttivendoli avevano trovato le soluzioni ottimali da alcune migliaia di anni senza saperlo. La prova di Hales era lunga alcuni gigabyte, e dopo quattro anni di analisi una dozzina di matematici se ne dichiarò convinta al 99%! Non era sufficiente, però. Da allora la dimostrazione è stata certificata usando un sistema interattivo e semi-automatico per la certificazione delle dimostrazioni, chiamato Isabelle.

Noiose (ma utili) certificazioni

I sistemi di certificazione – uno dei più famosi è Coq­ – si comportano come pedanti, tonti e noiosi matematici, come degli avvocati del diavolo, che obbligano a esplicitare tutte le ipotesi e assunzioni nascoste. Per esempio, in uno dei suoi passaggi, Hales aveva usato l’espressione favorita dai matematici: “Senza perdita di generalità, ci si può restringere al caso di …”. Isabelle si accorse che l’assunzione non era giustificata, perché nel farlo si potevano perdere dei casi. Una volta individuata, quella falla nel ragionamento fu poi risolta insieme a tanti altri errori minori.

Questo vuol dire che i matematici saranno sostituiti dalle macchine? No, perché in realtà Isabelle e Coq automatizzano molto poco del processo logico, al di là di utilizzare efficientissimi sistemi di analisi per casi.

Bachi costosi

Tornando al problema di Keplero, quello che Hales ha fatto è stato dimostrare che non ci sono soluzioni aggiuntive rispetto a quelle trovate dai fruttivendoli. Ma allora ci si può chiedere: “Che cosa ci si guadagna a dimostrare una cosa negativa, quando bastava andare al mercato per trovare la soluzione?” La risposta a questa domanda è semplice: dimostrare che qualcosa non c’è non solo è concettualmente importante, ma è anche utilissimo se quel qualcosa è un errore, o un bug (in italiano “baco”, ndj), come si dice in informatica. Ci sono molti settori dell’automazione, come l’avionica, in cui un errore può mettere a repentaglio la vita. E dove non è a rischio la vita, può esserlo la reputazione o il bilancio di un’azienda. Il caso più noto è il Pentium bug, che costò oltre mezzo miliardo di dollari alla Intel nel 1994. La legge di Murphy è sempre in agguato in informatica: “Se qualcosa può andare storto, ci andrà sicuramente”: dal Mariner 1 nel 1962 (e il suo trattino che impressionò lo scrittore Arthur C. Clarke) al razzo Ariane 5 nel 1996, ci sono stati via via negli anni tanti casi nei quali si sarebbe fatto meglio a essere un po’ più pedanti nel certificare il software.

Evanescenti certezze

Spero di avervi convinto del perché sia utile dimostrare che certe cose non esistono. In verità, non possiamo mai avere la certezza al 100% dell’esattezza di una certificazione. Il motivo è profondo. Non possiamo dimostrare che il modo nel quale abbiamo formalizzato il comportamento di un dispositivo sia veramente fedele alla realtà. Non si può infatti dimostrare formalmente la correttezza di una formalizzazione: questo è sempre un passaggio soggetto a una certa soggettività. La certificazione riduce però il rischio.

*  *  *

3° Domanda. Che cos’è una dimostrazione?

Una delle prime dimostrazioni della storia fu quella di Euclide sul fatto che i numeri primi sono infiniti. In poche parole: “Se i numeri primi fossero finiti, potremmo farne il prodotto e sommargli 1. Questo numero non sarebbe quindi divisibile per nessuno dei numeri primi noti, perché la divisione darebbe sempre come resto 1. Ma allora ci sarebbe un numero primo che non sta nella lista iniziale, ovvero il numero stesso o un suo divisore, contraddicendo l’ipotesi. Dunque, i numeri primi devono essere infiniti”.

Algoritmi nascosti

Che cosa ci insegna questo esempio? La risposta è il nodo matematico forse più importante e innovativo rispetto alla nostra intuizione di che cosa sia una dimostrazione. Qui ci vorrebbe un altro post o forse un network di post ancora più complesso dei precedenti. Si può dare l’idea rapidamente, però: ogni dimostrazione nasconde in grembo un algoritmo. Nell’esempio di Euclide, la procedura dissimulata nella dimostrazione è quella che permette di trovare un numero i cui fattori primi sono tutti diversi da quelli di qualsiasi lista data a priori.

*  *  *

Tornando alla domanda iniziale…

Tornando alla domanda dalla quale siamo partiti, se la poniamo in termini di algoritmi (“Quanto si sta riducendo la distanza tra gli algoritmi implementati e le dimostrazioni matematiche?”), una risposta provocatoria e paradossale sarebbe dunque: la distanza tra gli algoritmi implementati e le dimostrazioni matematiche non si sta riducendo affatto, in quanto sono due facce della stessa medaglia!

Nella tela del ragno

La seta prodotta dai ragni è un materiale versatile e straordinario: elastico e resistente, a parità di spessore risulta più resistente dell’acciaio. È comprensibile che l’artista Tomás Saraceno ne sia rimasto affascinato. La seta può essere usata per catturare le prede, costruire una casa, proteggere le proprie uova, accudire i piccoli e anche per sedurre, confezionare un regalo per le femmine (dei ragni, s’intende) e per fare sesso.

La guerra con gli insetti

Ma cominciamo dall’uso come trappola, che ha garantito ai ragni una storia evolutiva di grande successo. Apparsi sulla Terra circa 350 milioni di anni fa, con forme molto diverse da quelle attuali, i ragni sono diventati in breve i principali avversari degli insetti. E lo hanno fatto grazie a un’invenzione davvero rivoluzionaria, sviluppata negli ultimi 100 milioni di anni: la ragnatela.

Caerostris
Un ragno Caerostris del Madagascar a riposo, con escrescenze sull’addome che lo fanno assomigliare ad un pezzo di tronco spinoso (F. Tomasinelli).

Anche se non è utilizzata da tutte le specie per cacciare, la tela è diventata un’arma dinamica e adattabile nella guerra evolutiva senza sosta contro gli insetti. Quella circolare, detta orbicolare, che tutti conosciamo, è stata messa a punto per catturare gli insetti in volo e questi hanno replicato con altre “soluzioni tecnologiche”: la “polverina” sulle ali delle farfalle (si tratta di microscopiche scaglie), per esempio, non serve per volare meglio, ma consente loro di sfuggire più facilmente dalle trappole dei ragni. La ragnatela, quindi, non è infallibile. La maggior parte degli insetti non rimane nella trappola per più di 5 secondi e non deve sorprendere che oltre due terzi delle prede riesca a fuggire. Per questo, anche i ragni che cacciano sulla tela devono essere rapidi e precisi: raggiungere subito il bersaglio, facendosi guidare dalle vibrazioni, ricoprirlo di altra seta per immobilizzarlo e morderlo o viceversa (l’ordine delle due operazioni può variare a seconda della specie e la pericolosità della preda).

La ragnatela è quasi un prolungamento del corpo del ragno. E contribuisce alla sua percezione del mondo

La seta, il complesso materiale proteico che costituisce le tele, è prodotto da particolari strutture all’estremità posteriore dell’addome dei ragni, chiamate filiere. Queste assomigliano, se osservate al microscopio, a piccole docce con tanti ugelli, da cui fuoriesce il prezioso materiale, prodotto dalle ghiandole sericee. Non c’è una sola tipologia di seta, ma fino a 6 “modelli” diversi in una singola specie, che vengono combinati secondo necessità, come farebbe un abile sarto. 

Come costruire la tela

Anche la costruzione della trappola è un processo ingegnoso e raffinato: nella tela orbicolare un filamento adesivo, solido ma molto leggero, collegato all’addome del ragno viene trasportato dal vento fino a fissarsi a un ostacolo, dando vita alla prima linea di sostegno della ragnatela. Forte di questo supporto, il ragno, da buon maestro tessitore, prepara un secondo filamento più rilassato che fa scendere in basso, fino a definire un triangolo, del quale irrobustisce i vertici e rafforza la trama esterna. Il passaggio finale riguarda la spirale centrale, costruita con una seta più leggera, sulla quale viene applicato un altro livello, con gocce collose all’interno delle quali possono trovarsi agglomerati di tela più rilassata, utile per ammortizzare i movimenti degli insetti catturati. A lavoro concluso, il ragno si mette in agguato al centro o ai lati. È quasi cieco, per cui resta sempre con una zampa a contatto con uno dei cavi portanti: la ragnatela è per lui un prolungamento sensorio del suo stesso corpo, il modo in cui “vede” la realtà che lo circonda.

Campioni di riciclo

Una tipica tela circolare di 30-40 centimetri di diametro richiede 30 metri di filamenti di seta spessa pochi centesimi di millimetro, che per un animale di due centimetri di corpo sono comunque un’enorme quantità di materiale. Per questo i ragni sono campioni del riciclo, e quando devono costruire una nuova trappola divorano la vecchia, per poter riutilizzare il tessuto prodotto.

Da una parte all’altra del fiume

Caerostris_darwini
Caerostris darwinii costruisce la tela più grande del mondo dei ragni: i cavi di sostegno possono raggiungere i 20 metri di lunghezza, per sospendere la trappola sopra stagni e corsi d’acqua del Madagascar (F. Tomasinelli).

Tra le tele orbicolari si contano opere ingegneristiche da record. La più estesa al mondo appartiene a un ragno del Madagascar Orientale che è stato descritto solo nel 2010. Caerostris darwinii costruisce la sua trappola al di sopra dei corsi d’acqua, in modo da intercettare gli insetti volanti che vivono nelle zone umide; ma la tela, di almeno un metro di diametro, è tenuta in posizione da cavi che si estendono per 15 o 20 metri, da una sponda all’altra. Anche se la seta di questa specie è due volte più robusta di quella dei suoi simili, Caerostris è previdente e fa più viaggi tra un lato e l’altro del fiume per consolidare il tirante principale, prima di costruire la vera trappola. All’interno di questa, i fili radiali superiori sono più resistenti di quelli inferiori, per poter sostenere meglio la struttura in caso di forte vento.

Le grandi Nephila, un genere di tessitori di grandi dimensioni, costruiscono tele simili, dalla caratteristica trama dorata, ma senza i lunghi tiranti di collegamento. Sono così grandi e resistenti agli urti che tra le prede si contano a volte piccoli uccelli e pipistrelli del peso di 10 grammi.

Una “firma” enigmatica

Una particolare struttura di alcune tele orbicolari ha costituito un enigma per gli aracnologi per decenni: lo stabilimentum, o “firma”. Si tratta di un disegno eseguito con la seta, di solito a zig-zag, costruito al centro della trappola, diverso per ogni specie.

Argiope_amazon
A circa un paio di metri d’altezza tra gli alberi della foresta amazzonica una giovane Argiope ha costruito la tela ornata da un vistoso e complesso “stabilimentum” (F. Tomasinelli).

In un primo momento si riteneva fosse solo un rinforzo strutturale, ma oggi sappiamo che svolge sicuramente altre funzioni. Potrebbe, per esempio, avvertire gli uccelli in volo della presenza della trappola e prevenirne la distruzione in caso di impatto. Questa teoria sarebbe in parte confermata dal fatto che i ragni Argiope appensa dell’isola di Guam, nel Pacifico, costruiscono stabilimentummeno complessi rispetto ai loro simili di isole vicine da quando un serpente introdotto (Boiga irregularis) ha sterminato gran parte degli uccelli endemici, riducendo la probabilità di incidenti. Studi recenti hanno confermato che lo stabilimentum riflette la luce ultravioletta in un modo attrattivo per gli insetti impollinatori, tra le prede più frequenti dei ragni. Quindi non solo la tela li aiuta nella cattura, ma diventa anche un’esca. Un altro trucco escogitato dai maestri tessitori. (Continua)

predatori_microcosmo
 

Ha collaborato Emanuele Biggi

Per saperne di più
• Il libro Predatori del microcosmo (Ed. Daniele Marson, 2017) di Emanuele Biggi e Francesco Tomasinelli. Con le variegate e sorprendenti strategie di sopravvivenza di insetti, ragni, piccoli rettili e anfibi.
Il video, frutto di uno studio del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge su iniziativa di Tomás Saraceno, che traduce in suoni le vibrazioni di una ragnatela.

Nella stanza del silenzio

Quando la porta si chiude, si resta come in una bolla. Sospesi nel tempo. Sospesi in uno spazio racchiuso da materiali spugnosi, che con precisione geometrica scompongono ogni frequenza udibile del suono e la inghiottono fino a farla scomparire. Se si spegne la luce, si è come in un buco nero. La leggenda vuole che nessuno riesca a resistere troppo a lungo in queste condizioni, in un silenzio irreale che assorbe ogni suono rendendolo asciutto fino all’inverosimile.

Quiete da record

Siamo nella camera anecoica del Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Ferrara, la più grande d’Italia e una delle più silenziose del mondo. Qui di notte, nel corso di alcuni test, i tecnici sono arrivati a misurare – senza certificarlo – un livello di rumore pari a -22 dB(A), ancor meno del record ufficiale di -20,35 dB(A) riportato nel Guinness dei primati e registrato in una camera anecoica della Microsoft a Redmond, negli Stati Uniti. Sono valori da capogiro, se si considera che la soglia di udibilità è di 0 dB(A), e che l’energia sonora di cui stiamo parlando è oltre cento volte inferiore.

Non a caso questo spazio è ambitissimo dagli artisti alla ricerca della purezza del suono e di un ambiente particolarmente scenografico, ultimi in ordine di tempo gli Extraliscio feat Davide Toffolo, che qui hanno girato il video della loro canzone Bianca luce nera, presentata quest’anno a Sanremo.

Video ufficiale della canzone Bianca luce nera di Extraliscio feat Davide Toffolo (Musica di Mirco Mariani; Testo di Pacifico, Mirco Mariani, Elisabetta Sgarbi), presentata a Sanremo 2021. La canzone fa parte dell’album “È bello perdersi” di Extraliscio, prodotto da Betty Wrong Edizioni Musicali e distribuita da Sony Music. Il video è prodotto dalla Fondazione Elisabetta Sgarbi.

Senza echi

In realtà, quello che interessa (e che spiazza) di una camera anecoica non è tanto il livello di silenzio, quanto la capacità di assorbire i suoni senza rifletterli, cioè senza produrre alcun riverbero o eco, per cui è come trovarsi sospesi nell’aria, senza niente intorno. Una sensazione del genere non si prova neanche in montagna, ci si avvicina un po’ dopo un’abbondante nevicata.

A essere rigorosi, qualche piccolo riflesso c’è sempre, se non altro a causa di alcuni elementi metallici necessari alla struttura. Ma sono impercettibili a un orecchio non allenato. Chi riesce a coglierli sono i non vedenti, molto più attenti a farsi un’immagine acustica del mondo che li circonda. 

Uno spazio di questo tipo viene utilizzato per la ricerca, innanzitutto, ma anche per la certificazione sull’acustica dei prodotti. La Maserati ha portato qui una sua auto per migliorare il suono del tubo di scappamento, l’Alfa Romeo ha effettuato una ricerca sul rumore di tasti del cruscotto della sua Giulia Quadrifoglio e la Technogym sul fruscio dei suoi tapis roulant.

In cerca di esperienze

Oltre che per i test tecnici, in alcune occasioni la camera anecoica di Ferrara è aperta anche al pubblico. Ed è, a differenza di quel che vuole la leggenda, un ambiente piuttosto ambito: «Forse dipende dal fatto che la nostra camera anecoica è ampia e luminosa (a meno di spegnere la luce)», commenta Patrizio Fausti, ricercatore del gruppo di Acustica e referente della struttura. «Altre camere anecoiche sono più piccole, e possono indurre un senso di claustrofobia». 

In assenza di rumori esterni, il rumore siamo noi

A esserne attratti sono soprattutto artisti, scrittori, giornalisti. «C’è stata una poetessa che è entrata per fare meditazione», racconta Fausti. «Uno scrittore, invece, ha cercato ispirazione per un suo libro. Sono venuti anche alcuni artisti dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna, con lo scopo di rappresentare l’esperienza che hanno vissuto».

La voce del corpo

Qui, il regista Giorgio Ferrero ha presentato la colonna sonora del suo film Beautiful Things, prodotto dalla Biennale di Venezia. E persino lo chef Massimo Bottura si è esibito in una performance di alta cucina per il The New York Times, dedicata a una reinvenzione in chiave acustica della lasagna.

La performance di Giorgio Ferrero, sceneggiatore e regista di Beautiful Things, nella camera anecoica di Ferrara. 

D’altra parte, a dare testimonianza del fascino ascetico della camera anecoica era stato già il compositore statunitense John Cage (1912-1992). Entrando in una struttura di questo tipo alla Harvard University, si aspettava di non sentire alcun suono, invece ne sentì due. Ne fu così sorpreso che disse all’ingegnere responsabile: “C’è qualcosa che non va, c’erano due suoni in quella stanza”. L’ingegnere chiese di descriverli. “Uno era alto, l’altro era basso”, spiegò Cage. La risposta? “Quello alto era il tuo sistema nervoso, quello basso la tua circolazione sanguigna”.

Per saperne di più
• Iniziativa “Porte aperte” per la visita della camera anecoica di Ferrara.
• Il video ufficiale degli Extraliscio su Youtube.
• La performance di Giorgio Ferrero su Vimeo.
• L’articolo multimediale del The New York Times con Massimo Bottura.
• L’articolo sul nero più nero che c’è.

 

Il popolo dei megaliti

Le recenti scoperte sul sito di Stonehenge aprono nuove e interessanti domande su tutti gli altri megaliti presenti in Europa, e anche in Italia (le foto presenti in questo aricolo, con l’esclusione dell’aperatura, sono state tutte scattate in Puglia, ndj). Che cosa li caratterizza? Che cosa li distingue? E come ebbero origine?

Dolmen e menhir

Bisogna innanzitutto distinguere tra dolmen e menhir. I dolmen erano qualcosa di paragonabile a “cappelle funerarie”, in cui una o più lastre facevano da architrave o tetto su altri massi. I menhir erano invece pietre alzate come obelischi. Circoli di menhir formavano i cromlech, usati per delimitare sepolture collettive o aree di grandi raduni religiosi (Stonehenge appartiene a questa categoria, nda).

Origini francesi

Menhir Giurdignano
Il menhir di San Paolo a Giurdignano, in provincia di Lecce (A. Parlangeli).

Negli ultimi tempi, grazie a nuove datazioni, si è capito molto di più sull’origine dei megalitismo. «Il fenomeno iniziò circa 6.500 anni fa nell’attuale Francia Nord-Occidentale e da lì poi si diffuse», spiega Bettina Schulz Paulsson, archeologa dell’Università di Göteborg, in Svezia. «In particolare, si presentò come forma di evoluzione delle prime sepolture monumentali di terra rialzata che si trovano nel Bacino Parigino e in Bretagna. Lastre di pietra, solide e durature, prima vennero impiegate in queste sepolture e poi nei primi dolmen in sostituzione della terra. Il megaliti, in soli due-tre secoli, si diffusero dal nord al sud est della Francia, fino a Spagna e Portogallo. Rapidamente anche in Svizzera, Corsica, Sardegna e penisola italiana». Seguì una seconda espansione più capillare nella prima metà del IV millennio a.C. che comprese anche Inghilterra, Scozia e Irlanda. E una terza, nella seconda metà, che raggiunse a nord la Svezia e a sud l’isola di Malta.

“La diffusione di questa civiltà deve essere avvenuta via mare”

Dolmen Melendugno
Dolmen Placa a Melendugno, in provincia di Lecce (A. Parlangeli).

«Dato che i complessi megalitici furono realizzati sulle coste, e in un breve arco di tempo, la diffusione della civiltà che li produsse  deve essere avvenuta principalmente via mare», sottolinea l’archeologa svedese. Uno scenario di navigatori confermato anche dal ritrovamento nell’Isola di White, Inghilterra, di un cantiere marittimo di 8 mila anni fa, il più antico che si conosca. Si può quindi pensare che per mare viaggiassero “missionari-architetti” a diffondere nuove idee. Tra queste, la nuova prospettiva di un’altra vita dopo la morte che portava concettualmente a costruire dimore solide per i defunti.

Antichi pacifisti

I dolmen più grandi divennero spazi anche destinati ai vivi, per svolgervi cerimonie secondo i cicli stagionali. Posti su colline, erano il “campanile” di un clan, legittimandone il territorio. Come nelle chiese dell’Europa pre-napoleonica, dove era ancora possibile inumarvi i morti, e andare regolarmente a messa, i dolmen avevano più funzioni, comprese quella di calendari. Erano spesso allineati con i solstizi d’invero e d’estate, in modo che i raggi del sole entrassero nelle camere sepolcrali. «Non è stata finora ritrovata nelle tombe megalitiche traccia di una casta di guerrieri, cosa che depone a favore di comunità non inclini alla guerra», fa notare Paulsson. «Forse gli europei di allora vivevano in gruppi sostanzialmente egualitari, ma il reperimento delle grandi pietre, il trasporto e la loro deposizione, richiedevano la partecipazione di molte persone e centri di comando».

Nel ventre buio della montagna

Ancora in zona rossa, ancora difficile uscire ed esplorare sentieri. Ma, come si dice, se la vita ti dà limoni, tu fai una limonata. Così, approfittando della bella giornata, scendo in cortile a leggere per godere del calore e della luce. Trovo su Josway un’intervista che attira la mia attenzione, diciamo per contrasto: ho gli occhi strizzati per il sole ma a incuriosirmi è un articolo sul buio, o meglio sul “fascino del nero più estremo”. Si parla di un diamante giallo che letteralmente svanisce quando viene immerso dietro una patina ultra nera di nanotubi di carbonio che riesce ad assorbire la quasi totalità della luce. Incredibile, ancora di più se mentre leggo sono letteralmente immerso nella luce di marzo. Questa condizione mi fa scattare in testa un ricordo molto nitido anche se per niente luminoso: la volta in cui sono stato a contatto con il buio più denso che abbia mai percepito.

“Non avevo mai avuto una sensazione così tattile della mancanza di luce”

L'imbocco della galleria
L’imbocco della galleria (C. Vanadia).

Anni fa sulle Dolomiti di Sesto, con il casco in testa e la frontale pronta, mi appresto a salire il sentiero attrezzato De Luca-Innerkofler che porta in cima al Monte Paterno. Si parte dal Rifugio Locatelli, proprio di fronte alle famosissime Tre Cime di Lavaredo. La via ferrata è dedicata a Sepp Innerkofler, alpinista e militare, eroe austriaco, morto durante un assalto quasi al termine dell’avventurosa scalata per la conquista della vetta (probabilmente perché colpito da un masso scagliato dall’alpino De Luca, che lo fece cadere giù). Ricordo l’atteggiamento riflessivo con cui percorrevo quei sentieri che, con trincee e gallerie scavate durante la prima guerra mondiale, solcano questa zona di confine. Qui, le terrificanti esperienze vissute dai singoli confluiscono nella storia più terrificante del Novecento. La ferita drammatica lasciata della guerra si mescola in profondità con l’impronta della trasformazione geomorfologica delle montagne. L’erosione carsica subita da questi calcari si lega indissolubilmente alla polverizzazione dei sogni di un’intera generazione.

Le gallerie cominciano poco dopo aver superato un campanile di roccia chiamato Frankfurter Wurstel. La prima, se si riesce a ignorare la sua funzione originale, è piuttosto piacevole perché intervallata da aperture che lasciano entrare luce e soprattutto regalano degli scorci memorabili sulle Tre Cime. Alla seconda galleria che s’incontra cambiano le cose. Questa, oltre a essere più lunga e senza aperture laterali, è in salita e, quindi, a un certo punto forma un gomito che impedisce alla luce di passare. Ci si trova al buio, ci si sbatte contro.

“Sono immerso in un nero fitto e denso. Apro la bocca per capire se posso assaggiarlo”

Qui mi fermo, senza pensarci, chiudo gli occhi e spengo la frontale. Appena li riapro, mi sembra di percepire più buio di quando avevo le palpebre abbassate. Non avevo mai avuto una sensazione così tattile della mancanza di luce. Sono immerso in un nero fitto e denso. Apro la bocca per capire se posso assaggiarlo, ma mi sento subito stupido. Immagino, quasi fino a sentirle, le pupille dilatate al massimo senza che questo basti a tirar fuori qualche forma. Non riesco a resistere molto, una manciata di secondi che sembrano impantanati nella melassa più nera. Sono stato inghiottito. Riaccendo la frontale di botto, poco dopo aver sentito emergere la memoria dei soldati impigliata in questo filo nero che buca la montagna. Il fascio di luce si scava lo spazio davanti ai miei occhi e ha lo stesso effetto che avrebbe l’aria se stessi annegando. Vedo i gradini di roccia irregolare e il cavo che aiuta a salirli. Il tetto della galleria a pochi centimetri dal mio casco.

“Immagino, quasi fino a sentirle, le pupille dilatate al massimo senza che questo basti a tirar fuori qualche forma. Non riesco a resistere molto”

La croce sulla vetta
La croce sulla vetta (C. Vanadia).

Uscito dall’altro lato, incontro due alpinisti che stanno per ripartire, anche loro diretti alla vetta. Provo un grande senso di sollievo, come se avessi la conferma del fatto che il buio, svanendo, non si sia portato via tutto. Per questo sono contento di salire insieme a loro, quando me lo chiedono. In poco tempo superiamo gli ultimi salti e arriviamo alla croce di vetta. Scrivo i miei pensieri sul libro custodito ai suoi piedi, scatto qualche foto e mi immergo in un paesaggio unico. Si sa, però, la cima è una visita breve. La prima volta che incontrai questo pensiero l’avevo interpretato come un modo per dire che finita un’avventura ne comincia subito un’altra, meno con il suo senso più letterale. In pochi minuti si alza il vento, le nuvole intorno si stringono e la mia barba inizia a dialogare, gonfiandosi, con l’elettricità di cui si è caricata l’aria. La liscio con la mano ma lei torna a drizzarsi. Il ferro della croce sfregola. Mi bastano pochi secondi per togliermi da lì e far fretta ai due alpinisti (che però non avendo la barba erano meno allarmati di me). Un fulmine cade proprio sulla croce quando noi siamo già al sicuro, ma solo pochi metri più in basso. Il lampo di luce è abbagliante, un colpo di frusta sferrato nell’aria. Di nuovo, per qualche secondo non sono in grado di vedere. Questa volta immerso nel bianco, soffocante.

Quante volte può capitare di fare esperienza del buio nero e del buio bianco nella stessa giornata? Ci penso per alcune ore, dopo, al rifugio. Lo interpreto come una chiave, una specie di consiglio che la montagna mi ha dato: “Non vivere questo posto come se fosse un’immagine”.

Promesso, non lo farò.