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L’avventura di Perseverance su Marte: audio, video e foto a 360°

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Atterraggio Perseverance
L’atterraggio di Perseverance su Marte (NASA/JPL-Caltech). In apertura, il video del primo volo di Ingenuity (NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS).

Nei giorni scorsi il rover Perseverance della Nasa è arrivato su Marte, e ha iniziato la sua esplorazione alla ricerca di dati geologici e di tracce di vita.

“È la prima volta che una sonda è capace di riprendersi mentre atterra su un altro pianeta”

Un video ripreso dalla sonda mentre atterrava documenta le fasi più critiche del viaggio, cioè i sette minuti che precedono l’atterraggio (NASA/JPL-Caltech).

È il momento dell’impatto con l’atmosfera, che scalda lo scudo termico fino a 1.300 °C, e poi dell’apertura del paracadute, fino all’impatto con il suolo. “È la prima volta che siamo stati capaci di vedere noi stessi – cioè di vedere la nostra sonda – atterrare sulla superficie di un altro pianeta”, ha commentato Matt Wallace, vice project manager della missione al Jet Propulsion Laboratory (JPL) di Pasadena, in California.

Il luogo di atterraggio, e i primi suoni

Landing Perseverance
Il puntino verde al centro è il luogo di atterraggio di Perseverance, ripreso dalla sonda Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa (NASA/JPL-Caltech/University of Arizona).

Il luogo in cui si è posato il rover (foto a sinistra) è il cratere Jezero, che si pensa ospitasse anticamente il delta di un fiume e un lago. Lì Perseverance si muoverà sulle sue sei ruote (v. modello 3D più in basso), ed effettuerà le sue analisi con il suo braccio robotico.

Dopo l’arrivo, il rover si è messo in azione. Ha registrato un audio (NASA/JPL-Caltech), con il microfono di bordo, nel quale per alcuni secondi si può ascoltare il fruscio del vento marziano (in questa versione, si ascolta l’audio originario, che include i suoni emessi dallo stesso rover).

Questi sono i primi suoni registrati sul Pianeta Rosso.

Foto e modelli 3D

Perseverance ha anche scattato una serie di fotografie dell’ambiente circostante con la sua coppia di telecamere Mastcam-Z. Alcune di queste immagini sono state composte per realizzare una visuale a 360° (NASA/JPL-Caltech).

In questa panoramica, in particolare, ci sono 142 immagini individuali scattate dal rover (qui sotto, un modello 3D, NASA/JPL-Caltech) nel terzo giorno marziano e ricomposte.

Ingegnoso!

Insieme a Perseverance ha viaggiato Ingenuity, un drone-elicottero il cui scopo è semplicemente quello di dimostratore tecnologico. Nessun mezzo, infatti, ha finora voltato nella rarefatta atmosfera marziana, che ha una pressione inferiore all’1% di quella terrestre. Per gli ingegneri è stata una vera e propria sfida. Da qui il nome, Ingenuity, che in inglese vuol dire “ingegnosità” (video NASA/JPL-Caltech).

Proprio nel giorno di Pasqua, il 4 aprile, Ingenuity viene posato al suolo, pronto per la sua avventura.

Il 19 aprile, dopo qualche ritardo dovuti a problemi con il software di controllo, finalmente Ingenuity ha eseguito il suo volo di prova, sollevandosi di circa tre metri in verticale sul suolo marziano. Si è trattato del primo volo a propulsione, controllato, su un altro pianeta, ed è stato documentato da un foto in bianco e nero e da un video.

Ingenuity
La prima immagine di Ingenuity in volo sopra il suolo marziano: ha fotografato la sua ombra (NASA/JPL-Caltech).

«Non sappiamo esattamente dove Ingenuity ci porterà, ma i risultati di oggi indicano che il cielo, almeno su Marte, non sarà il limite», ha commentato Steve Jurczyk, amministratore della Nasa.

Nei giorni successivi, Ingenuty ha continuato a volare. Fino a quando, il 27 aprile, ha ricambiato il favore al “fratello” Perseverance, fotografandolo dall’alto.

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Perseverance fotografato da Ingenuity, da circa 85 metri di distanza. Nella foto, si vede anche il luogo dell’atterraggio (NASA/JPL-Caltech).

Ossigeno fatto in casa

Nel frattempo, il 21 aprile, Perseverance ha effettuato un altro esperimento a titolo dimostrativo. Ha creato ossigeno a partire dall’anidride carbonica, per mezzo di uno strumento detto MOXIE (Mars Oxygen In-Situ Resource Utilization Experiment, v. schema sotto).

La quantità prodotta al primo tentativo è stata modesta, appena 5 grammi, quanto basterebbe a un astronauta per 10 minuti. Ma è pur sempre un primo passo importante verso l’obiettivo di portare l’uomo sul Pianeta Rosso. MOXIE, comunque, è progettato per generare fino a 10 grammi di ossigeno all’ora.

Per saperne di più
• Il sito della Nasa dedicato all’esplorazione marziana.
• Il sito della Nasa dedicato a Perseverance.
Il primo volo di Ingenuity e la registrazione della diretta.
• Il blog di Andrea Bernagozzi su Josway.

La medusa immortale

Gli animali nascono, si riproducono, e muoiono. La medusa Turritopsis dohrnii sfugge a questo destino. In risposta a danni fisici, mancanza di cibo, cambi di salinità o temperatura, la medusa ritorna ad uno stadio giovanile (il polipo), evitando così la morte. Questa dote, unica nel regno animale, è preziosa nella ricerca, per la comprensione dei meccanismi genetici che possono portare anche alla cura di molte malattie.

Un ciclo infinito

Per capire l’unicità di T. dohrnii dobbiamo capire il complesso ciclo vitale degli Idrozoi, la classe a cui questa medusa appartiene. Alla base di questo ciclo ci sono i polipi, i quali sono bentonici (vivono a contatto con il fondale o con un supporto) e coloniali, cioè vivono in gruppo. Le meduse nascono come piccoli bulbi attaccati ai polipi per poi svilupparsi come esseri indipendenti che entrano a far parte del plancton. A loro volta, le meduse si nutrono di altre minuscole creature planctoniche e crescono. Una volta mature, le loro gonadi rilasciano il contenuto (uova o sperma) nell’acqua, in un processo detto spawning. E dopo questo processo, normalmente, la medusa mostra segni di decadimento: smette di nuotare, la sua campana si raggrinzisce, e muore.

Turritopsis è unica perché, invece di morire, è in grado di tornare allo stadio di polipo

I gameti che la medusa ha rilasciato, però, attivano un nuovo ciclo: quelli di sesso opposto si fondono nell’acqua e dall’uovo fecondato si sviluppa una larva, detta planula. La planula non ha una bocca ed è dunque incapace di nutrirsi, nuota per un tempo breve (ore o giorni) e poi si insedia su un substrato appropriato – che può essere costituito da rocce o alghe – e si trasforma in un polipo. Il polipo forma poi una colonia dividendosi asessualmente.

Rinascere dalle ceneri

La medusa Turritopsis è unica perché, invece di morire, in risposta a stress esterni o dopo lo spawning, è in grado di trasformarsi in polipo. Per ogni medusa che non muore, nasce una nuova colonia che darà vita a centinaia di nuove meduse.

Polipo
Turritopsis dohrnii in fase di polipo (D. Maggioni).

Turritopsis è interessante per due motivi. Uno è ovvio, la medusa riesce a sfuggire alla morte. Il secondo un po’ meno. Durante la metamorfosi da medusa a polipo, alcune cellule di Turritopsis vanno incontro a transdifferenziazione, o riprogrammazione cellulare. La transdifferenziazione è un processo attraverso il quale una cellula somatica matura si trasforma in un nuovo tipo di cellula somatica matura, ad è anche una componente importante della rigenerazione degli organi. Attraverso la riprogrammazione cellulare è possibile sostituire cellule danneggiate in risposta a lesioni e invecchiamento. Ma meccanismi molecolari con cui ciò accade sono poco conosciuti. Nei sistemi modello tradizionali, la transdifferenziazione avviene in tempi relativamente lunghi, nell’arco di settimane, e per questo modellare la rete di regolazione genica è problematico. È qui che Turritopsis diventa importante come potenziale sistema di ricerca. A causa del suo potenziale unico di ringiovanimento, e poiché la transdifferenziazione in questo animale avviene in circa 24-72 ore, T. dohrnii rappresenta un sistema idea per studiare i meccanismi molecolari di stabilità cellulare.

Nei segreti del dna

Occhi di tenebra
Una raccolta di racconti, uno dei quali dedicato a Turritopsis dohrnii.

Nel Miglietta lab, alla Texas A&M University a Galveston (Usa) stiamo studiando la genetica di questo straordinario animale. La nostra ricerca ha mostrato che T. dohrnii è una specie dall’origine incerta (potrebbe essere italiana, o comunque mediterranea) introdotta in molte località del mondo, probabilmente attraverso il traffico delle navi da carico. La nostra prima caratterizzazione del trascrittoma di T. dohrnii – cioè l’analisi quantitativa e qualitativa dei geni espressi in un certo momento del ciclo vitale – ha identificato vari meccanismi di riparazione del Dna tra i processi biologici che si verificano nella cisti (lo stadio vitale intermedio attraverso il quale una medusa si trasforma nel polipo). Ora stiamo studiando il ruolo di alcuni geni importanti negli esseri umani, per capire come si comportano in questo straordinario animale.

Per saperne di più
Il sito del Miglietta Lab dedicato alla ricerca su Turritopsis dohrnii.
Musica per chitarra ispirata alla medusa immortale. 

Nella tela del ragno (parte 2)

Nonostante la loro efficacia, solo una minoranza dei ragni ricorre alle eleganti e razionali tele orbicolari (v. articolo precedente). Diverse specie, molte delle quali cacciano nella vegetazione fitta, impiegano schemi differenti per catturare le prede. Continuamo quindi il nostro viaggio nel mondo delle ragnatele passando in rassegna le altre tecnologie che i ragni hanno sviluppato per catturare le loro prede e, più in generale, per interagire tra loro e con il mondo esterno.

Una presenza tipica delle nostre cantine: una grande Tegenaria in agguato nella sua tela a lenzuolo. Nonostante le dimensioni (fino a 2 cm di corpo) non è un ragno pericoloso per l’uomo (F. Tomasinelli).

Caos apparente

A prima vista, per esempio, le trappole di Cyrthophora o di molti ragni della famiglia Lyniphiidae sembrano solo un intreccio casuale di fili senza criterio (foto sotto). Ma a un esame più attento si osserva una sapiente disposizione: in alto si trova una fitta trama di filamenti vincolati alle foglie vicine, mentre in basso, in posizione orizzontale, c’è una vera e propria tela “a lenzuolo”. L’insetto volante si trova ostacolato dai fili in alto, che non permettono di battere le ali agevolmente, e cade al piano inferiore, dove il ragno tende il suo agguato. Le Tegenaria (foto sopra), i grandi ragni tipici di cantine e abitazioni abbandonate, usano varianti di questo schema. La tela, disposta in orizzontale in un angolo, serve a rallentare la preda e a segnalarne la presenza al ragno. Che subito si catapulta fuori dal suo rifugio a imbuto, collocato al vertice della trappola, per raggiungerla.

L’apparente caos della tela di una specie di Agelena del Madagascar nasconde uno schema razionale, con una fitta trama superiore e una tela orizzontale a lenzuolo dove avviene la cattura. Il ragno sta in agguato in un tunnel di seta in un angolo della ragnatela (F. Tomasinelli).

Trappole terrestri

Le vedove nere e molti altri rappresentanti della famiglia Theridiidae costruiscono invece una trama disordinata e tridimensionale di seta a contatto con il terreno, in modo che insetti “camminatori”, come coleotteri o formiche, siano rallentati dai cavi che poi guidano l’attacco. Prima del morso letale, la vittima viene impacchettata per bene con più strati di seta, disposti con maestria con l’aiuto delle ultime due paia di zampe.

Lancio infallibile

Alcuni insetti hanno sviluppato contromisure per sfuggire alle trappole. Tra questi, oltre alle già citate farfalle, ci sono anche le zanzare, che volano per prudenza con le zampe anteriori in avanti a bassa velocità. I piccoli ragni tropicali della famiglia Theridiosomatidae hanno però messo a punto una soluzione contro la quale anche queste precauzioni non bastano: costruiscono una ragnatela circolare che poi tendono a dismisura al centro, fino a formare un imbuto in verticale, impiegando un ulteriore filo per “caricare” la trappola. Non appena la zanzara si avvicina, le vibrazioni nell’aria segnalano al ragno di lasciare la presa sul cavo di sostegno, “sparandolo” in avanti con tutta la ragnatela. Possibilità di fuga: scarsissime.

Strumentazione portatile

Anche i ragni tropicali del genere Deinopis (foto sotto) impiegano attivamente la loro ragnatela, simile a un retino, che viene gettata dalle zampe del predatore sulla vittima ignara nel punto scelto per l’imboscata notturna. Per cogliere il momento giusto nell’oscurità questi aracnidi si affidano ai due grandi occhi frontali, sensibili alla debole luce fornita dalla luna o le stelle. Senza la loro tela portatile, sorprendentemente, questi ragni non sono in grado di catturare le prede.

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Tesa fra le 4 zampe anteriori, la tela di Deinopis dell’Amazzonia viene spinta in avanti quando la preda passa nelle vicinanze. Per non intralciare i movimenti questa rete non è collegata al terreno e quindi il ragno si affida alla vista per colpire. La vittima intrappolata viene sollevata in alto dal ragno e poi consumata. Ogni cattura richiede la costruzione di una nuova trappola (F. Tomasinelli).

Anche gli uccelli

Nelle specie più grandi le ragnatele sono così grandi e robuste da catturare anche uccelli e pipistrelli. Anche se in certi casi gli animali trovati nelle tele possono essere morti per sfinimento, fame, disidratazione, nella maggior parte dei casi i ragni sono stati visti attivamente attaccare, uccidere e mangiare la preda. Un report del 2012 individua, soltanto in Nord America, ben 54 specie di uccelli intrappolati nelle ragnatele di grandi tessitori. La maggior parte delle volte i colpevoli sono i ragni del genere Nephila, le cui grandi femmine costruiscono tele che arrivano anche ad un metro di diametro. Le vittime sono in massima parte colibrì dal peso inferiore ai venti grammi, ma la tela è così robusta da reggere all’impatto di un uccello più grande che vola a bassa velocità. Sembra davvero che la predazione dei ragni sui vertebrati volanti sia molto più diffusa di quanto precedentemente ipotizzato.

“Lupi” e saltatori

Non tutti i ragni, però, usano la tela. I ragni lupo (Lycosidae) e molti altri gruppi simili si affidano alle vibrazioni, alla vista rudimentale e a stimoli chimici per attaccare le prede. Nei ragni saltatori (Salticidae) gli occhi, capaci di percepire i colori, hanno un ruolo di primo piano e gli altri canali di comunicazione contano poco o nulla. Ci sono davvero tanti modi diversi di essere ragno e di cacciare, impiegando o meno la versatile seta. 

Tutto è nei geni

Sembra incredibile che i ragni riescano a fare tutto questo da soli, senza insegnamenti e senza un processo di formazione. La verità è che anche i design delle tele più sorprendenti sono codificati nel bagaglio genetico delle singole specie, così come il comportamento di questi straordinari animali.

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Una Cyclosa dell’Amazzonia, mimetizzata tra le sue prede imbozzolate e altri resti. Anche comportamenti complessi come questi sono scritti nel patrimonio genetico dei ragni, e non appresi (F. Tomasinelli).

Concerto con arpa

I ragni, infatti, come ha documentato lo stesso Tomás Saraceno, emettono una grande quantità di vibrazioni, di cui si servono anche nel loro lavoro ingegneristico. Pizzicando la tela (plucking), per esempio, riescono a ottenere informazioni sul suo stato, e sulla posizione delle prede. Con un’attività detta tuning, invece, tendono i vari cavi nello stesso modo con il quale un tecnico accorderebbe uno strumento musicale, possiamo pensare a un’arpa. E poi ci sono i suoni che producono quando mangiano, o quando c’è un pericolo. Tutto questo è scritto nei loro geni. Un ragnetto da poco uscito dall’uovo sa costruire da subito una ragnatela che è la versione miniaturizzata di quella degli adulti, circolare e perfettamente regolare, con la sua trama complessa fatta di cerchi concentrici e cavi di rinforzo. Non c’è bisogno di un grande cervello o un apparato sensoriale troppo elaborato; basta avere le istruzioni base per la vita, caricate nel proprio codice genetico. (Continua)

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Ha collaborato Emanuele Biggi

Per saperne di più
• Il libro Predatori del microcosmo (Ed. Daniele Marson, 2017) di Emanuele Biggi e Francesco Tomasinelli. Con le variegate e sorprendenti strategie di sopravvivenza di insetti, ragni, piccoli rettili e anfibi.
Una pagina del sito Arachnopilia.net di Tomás Saraceno, con alcuni suoni di varia natura prodotti dai ragni, e registrati con tecniche avanzate di sonificazione.
Il video, frutto di uno studio del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge su iniziativa di Tomás Saraceno, che traduce in suoni le vibrazioni di una ragnatela.

Le radici comuni di arte e scienza

Sarà forse per le sue origini greche, che lo legano alle radici comuni del mito, della letteratura e della scienza; Stavros Katsanevas ama citare Dante, il poeta che meglio di chiunque altro ha saputo fondere insieme questi tre elementi nella sua Commedia. E così la voce emozionata che giunge via Zoom ne recita con accento straniero le ultime terzine: “Qual è ’l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: / veder voleva come si convenne  / l’imago al cerchio e come vi s’indova (…)”.

Stavros Katsanevas, docente classe exceptionnelle alla Université Paris VII Denis Diderot e direttore dell’European Gravitational Observatory, è uno scienziato che ha dedicato la vita allo studio delle particelle elementari e dei raggi cosmici in centri di ricerca come il Cern di Ginevra e il Fermilab di Chicago. Appassionato di filosofia e arte, coordina il gruppo Arte e Scienza Univers 2.0 della Fondazione Daniel&Nina Carasso. Memorabili le sue collaborazioni con l’artista argentino Tomás Saraceno, per esempio, in occasione dell’installazione On Air (v. foto sotto) e del concerto-spettacolo How to hear the universe in a spider/web: A live concert for/by invertebrate rights (Roma, capodanno 2021). 

Lo abbiamo incontrato per chiedergli di parlarci della sua esperienza, dei rapporti tra arte e scienza e delle prossime iniziative che ha in programma.

On Air
Installazione Algo-r(h)i(y)thms di Tomás Saraceno, nell’ambito dell’esposizione On Air al Palais de Tokyo di Parigi, nel 2018, curatrice Rebecca Lamarche-Vadel (Cortesia dell’artista, fotografia di Andrea Rossetti).

Che importanza hanno avuto le tue origini greche nella tua formazione e nella tua visione del mondo?

Certamente hanno avuto molta importanza, a cominciare dalla nozione di cosmo. Quando eravamo piccoli, a scuola, il nostro comportamento poteva essere classificato come cosmico o acosmico, cioè in armonia o in contrasto con il cosmo. E questa è una nozione tipicamente greca. Ma la parola “cosmo” ha una straordinaria pluralità di significati. Il filosofo Kostas Papaioannou ha detto: “Cosmo vuol dire al tempo stesso adornamento e splendore generale, universo o la totalità degli esseri viventi e costituzione politica basata sulla legge; un principio di ordine e armonia che regola le relazioni tra entità così come tra gli elementi di ciascuna entità; virtù o immanenza entro ciascun essere, che gli permettono di diventare ciò che è e di mantenersi tale”.  

“Quando eravamo piccoli, a scuola, il nostro comportamento poteva essere classificato come in armonia o in contrasto con il cosmo”

È interessante notare che la parola cosmos appare per la prima volta nell’Iliade, quando Era si dispone a sedurre Zeus per salvare i greci dai troiani. C’è una descrizione molto bella, di venti righe, su come la dea si adorna. Dunque, in origine, il significato della parola cosmos era legato alla cosmetica. Ricordo una cena a Stanford, quando il cosmologo Andrei Linde si lamentava che a volte la gente lo chiamava “cosmetologo”; quando gli ho detto che avevano parzialmente ragione, citando l’Iliade, ha ribattuto “ho sempre pensato che la cosmologia fosse sexy, ora capisco perché”.

Secondo me, poi, non è un caso che la scienza sia nata nella Grecia antica. Gli dei greci sono diversi dai personaggi della Bibbia: non vogliono dare lezioni etiche e sociali, sono più simili a forze della natura, e c’è un’idea di relazione tra la bellezza del mondo e la capacità di capirlo. Per certi aspetti, possiamo dire che Zeus è “multimessaggero”, un termine che si usa per definire la recente astronomia che si basa sull’osservazione di particelle di natura diversa. Allo stesso modo, nella mitologia greca, spesso Zeus comunica per mezzo di messaggeri come gli uccelli, il dio Hermes, la dea Iris (l’arcobaleno), il fulmine. Tutto questo è molto vicino alla fisica.

Che cos’è l’arte, per te?

Nella storia dell’uomo, all’origine c’era il mito. Poi è stata creata la scienza. E quel che fa l’arte, da sempre, è unire questi due elementi. Unire la nostra parte razionale con quella emotiva. È questo che mi affascina dell’arte: è la componente emotiva della comprensione del cosmo.

Ma c’è di più. Il mito è metafora, e la metafora è anche nella scienza (v. più avanti, ndj). È quel che rimane nella scienza del mito. Così ci muoviamo nel mondo: abbiamo le metafore, abbiamo le emozioni, abbiamo la ragione, abbiamo la parola (il lógos). E tutte queste componenti comunicano tra loro.

Quando hai cominciato a interessarti all’arte contemporanea?

Quando sono andato a studiare a Parigi, subito dopo la dittatura dei colonnelli, nel 1974. Lì ho incontrato il critico d’arte Jean Clair (1940-), che organizzò una mostra chiamata Les Machines Célibataires (1975). Fu lui a farmi notare che molte idee scientifiche legate alla rivoluzione industriale, come quelle di energia e di entropia, permeavano anche l’arte, e come le due componenti comunicassero.

Sempre a Parigi ho incontrato l’opera di Michel Serres (1930-2019), un filosofo che mi ha influenzato molto e che ho seguito per tutta la vita, anche se purtroppo sono entrato in relazione con lui poco prima della sua morte. Era un uomo che ha cercato di collocarsi esattamente tra le due sfere, quella dell’arte e quella della scienza.

Hai mai partecipato alla realizzazione di un’opera d’arte in prima persona?

Nel 2009 ero vicedirettore del National Institute of Nuclear and Particle Physics del CNRS, e pensai di organizzare qualcosa perché era l’anno dell’astronomia. Pensai allora di far illuminare la Tour Eiffel ogni volta che veniva colpita dai raggi cosmici, in onore di un celebre esperimento effettuato nel 1909 da Theodor Wulf (1868 – 1946). Tuttavia, non fu possibile realizzare il progetto sulla Torre Eiffel, dunque lo facemmo sulla Tour Montparnasse. Lì per lì ne fui molto soddisfatto, ma poi chiesi ad alcuni amici che cosa ne pensassero, e le reazioni non furono entusiastiche. Il motivo me lo svelò un amico gallerista, Jérôme Poggi, alcuni anni dopo: «Il problema è che hai cercato di illustrare un fenomeno fisico», mi disse. «Ma l’arte non è l’illustrazione della scienza, è qualcosa di diverso». Quella frase mi colpì, e ne ho trovato conferma in un’osservazione analoga di Leonardo da Vinci, secondo cui l’arte, ai suoi tempi, doveva smettere di sforzarsi di illustrare la Bibbia, per dedicarsi invece alla creatività delle forme.

Squaring
Stavros Katsanevas di fronte all’opera “Squaring the circle” di Attila Csörgő, Parigi 7 gennaio 2015 (S. Katsanevas).

Sempre Poggi, in un’altra occasione, mi presentò Attila Csörgő (1965-), e dall’interazione con questo artista è nata un’opera che trovo straordinaria, Squaring the circle (“La quadratura del cerchio”). Si tratta di una sorgente che illumina un disco, proiettando su un piano sottostante un’ombra a forma di quadrato. Sembra impossibile, ma Csörgő ci è riuscito grazie a un gioco di specchi che ha dell’incredibile. Mi ha detto che ha avuto l’intuizione mentre faceva il bagno, come Archimede.

Che cosa ti affascina di più dell’arte, e degli artisti?

Frank Oppenheimer, il fratello del “padre” della bomba atomica, disse: “Gli artisti e gli scienziati sono gli osservatori del mondo”. Sono quelli che notano cose che agli altri sfuggono. Infatti, ciò che mi affascina di più dell’arte è proprio la capacità di far notare qualcosa. Questo la accomuna a quanto facciamo anche noi in campo scientifico nei momenti più creativi.

Qual è il ruolo della tecnologia?

La tecnologia è molto utile, ma spesso la vedo più come uno strumento di progettazione che come un modo per andare più a fondo nella comprensione. Così come l’arte non deve essere un’illustrazione della scienza, la scienza e la tecnologia non devono essere un mero strumento per l’arte.

Pensi che l’arte possa influenzare la scienza?

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La Terra (Earthrise) ripresa dall’astronauta William Anders della missione Apollo 8 il 24 dicembre 1968. È ritenuta una delle foto di maggiore impatto della storia.

Penso di sì. Consideriamo la corsa allo spazio durante la Guerra Fredda. Da una parte c’era Sergei Korolev, il padre dei razzi sovietici, che faceva parte del movimento artistico dei cosmisti. Dall’altra Frank Malina, il primo direttore del Jefferson Lab negli Stati Uniti, che era un’artista acusmatico. Entrambi cercavano un modo per lasciare questo mondo pieno di problemi e andare nello spazio. Ed entrambi, in vita, sono rimasti nell’ombra per ragioni di riservatezza militare (Malina fu perfino perseguitato durante il maccartismo). Ma i loro sforzi ci hanno offerto immagini di cui nemmeno sospettavamo l’esistenza, come la Terra che sorge nello spazio (earthrise): un’immagine che ha cambiato tutto. Anche l’ecologia è nata da lì, dalla nostra prima vera presa di conoscenza nei confronti del nostro pianeta. 

Dunque, l’arte influenza la scienza attraverso gli uomini, gli scienziati.

Sì, o almeno alcuni di loro. Ma lo fa anche, in modo più profondo, attraverso le metafore. Una freccia, per esempio, è spesso metafora di una relazione causale, o di scambio di informazioni. L’albero, invece, può essere preso come metafora dell’evoluzione di Darwin, con un tronco comune da cui si separano i rami. E l’artista Tomás Saraceno attira la nostra attenzione sulle ragnatele, modello di una molteplicità senza centro. Dietro al nostro pensiero più astratto ci sono metafore simili; anche in quelli che chiamiamo “esperimenti di pensiero”.  Nel corso della storia si sono susseguite tre concezioni di spazio. La prima è quella di Galileo e Newton, che vede lo spazio come un grande contenitore in cui si svolgono gli eventi. La seconda è quella di Einstein, in cui lo spazio è qualcosa che circonda un oggetto e può essere influenzato dalla sua presenza. Ora stiamo elaborando una terza versione, in cui lo spazio emerge da una relazione, dall’interazione tra le particelle. E questa è un’idea antica legata all’arte. Nell’antica Grecia c’erano parole diverse per indicarli: tópos (legato al tatto), chorós (lo spazio che separa gli oggetti), il vuoto, l’apeiron (l’informe). C’erano tutte queste nozioni che sia l’arte che la scienza devono ora ripensare, per trovare un nuovo cammino.

Al contrario, può la scienza influenzare l’arte?

Su questo tema è stato scritto molto. Per esempio, Erwin Panofsky ha pubblicato il saggio Galileo critico delle arti (in Italia edito da Abscondita), che documenta proprio l’influenza del grande scienziato sull’arte del suo periodo. Lo stesso è avvenuto con la Relatività. La critica d’arte statunitense Linda Dalrymple Henderson ha spiegato come Picasso, Duchamp e altri artisti dell’epoca si siano ispirati alla teoria di Einstein e abbiano cercato di raffigurare la quarta dimensione introdotta dalla Relatività. Credo che ora le onde gravitazionali daranno il via a una nuova rivoluzione, che è quella dell’astronomia multimessaggera. Perché finora abbiamo pensato l’universo solo in termini visivi, o meglio elettromagnetici; ma dobbiamo tenere in considerazione anche le altre modalità: le onde gravitazionali e i neutrini.

Dal multi-messaggero possiamo passare anche al multisensoriale. Cioè l’idea che ci sia uno spazio legato alla visione, uno che nasce dall’udito, uno dal tatto. Per esempio, siamo orgogliosi di avere a EGO, tra i nostri scienziati, un’astronoma non vedente, Wanda Díaz-Merced, leader mondiale nella sonificazione dei dati astronomici (per un progetto di Tomás Saraceno sulla sonificazione delle vibrazioni delle ragnatele, v. video sopra, ndj).

Tornando alla domanda, c’è anche un altro modo in cui la scienza può influenzare l’arte. Noi scienziati siamo più portati degli artisti al ragionamento collettivo, perché la scienza è una grande conquista comune e molti progetti avanzati richiedono la collaborazione di migliaia di persone. Ora vedo che anche molti artisti si stanno spostando sempre di più verso un ragionamento collettivo, e lo trovo molto positivo.

Qual è il miglior esempio che ti viene in mente di matrimonio tra arte e scienza?

Qui ammetto di essere di parte, perché mi viene subito da pensare al mio amico Tomás Saraceno. Le sue opere riflettono soprattutto le idee del biologo tedesco Jakob Johann Freiherr von Uexküll (1864-1944), e in particolare il concetto di Umwelt. Cioè il fatto che ogni specie animale, attraverso i suoi sensi, si crea una propria percezione di spazio. I ragni, per esempio, lo fanno attraverso le loro ragnatele, che sono l’analogo dello spazio-tempo nella nostra concezione attuale dell’universo.

Tra tutte le opere di Saraceno, mi ha colpito particolarmente quella che ha esposto al Palais de Tokyo di Parigi, la già citata On air. Al suo interno, da visitatore, ti muovevi tra stringhe che, se toccate, emettevano suoni. E così, spostandoti, creavi una composizione musicale, nella quale ti trovavi immerso come un ragno nella sua ragnatela. Ogni tanto arrivavano i suoni delle onde gravitazionali, di cui anche tu potevi diventare una sorgente; mentre nella stanza accanto c’era una sala operativa piena di schermi, in cui giungevano in tempo reale i dati dei satelliti. Per me era una fonte d’ispirazione continua, che mi ha fornito molte idee. E anche Saraceno prendeva idee da noi. È stata un’esperienza entusiasmante, molto proficua per tutti.

Hai in mente qualche nuova iniziativa per l’European Gravitational Observatory?

L’anno prossimo si celebrerà il centenario dell’assegnazione del Premio Nobel ad Albert Einstein. Il premio, in realtà, gli era stato attribuito per il 1921, ma gli fu assegnato l’anno dopo insieme al fisico Niels Bohr, uno dei padri della meccanica quantistica. Le discussioni tra Einstein e Bohr sulla natura indeterministica della realtà microscopica sono rimaste nella storia, quindi trovo questa coincidenza del Nobel ancora una volta una bella metafora.

RitmoSpazio
Il catalogo della mostra “Il ritmo dello spazio” (pubblicato da ETS), che si è svolta a Pisa dal 12 ottobre all’8 dicembre 2019.

Il cuore del problema è ancora aperto, ed è questo. La Relatività di Einstein, in sé, è una teoria deterministica. Nello spazio-tempo in 4 dimensioni, tutto è perfettamente descritto dall’inizio alla fine. Nulla può cambiare, nel grande disegno. Nella meccanica quantistica, invece, il futuro è aperto e non può essere calcolato se non in maniera probabilistica. Quindi per me il nodo cruciale di tutto – dell’arte, della filosofia, della scienza, dell’esistenza – è proprio questo: come si fa a conciliare il determinismo del passato con l’apertura verso il futuro? Come si fa a conciliare quello che i greci chiamavano stasis, qualcosa che è, con il flux, che invece diviene? Proprio questo, per inciso, secondo Aristotele è il nodo della tragedia, una situazione in cui il passato dell’uomo non può essere da guida per il futuro, forgiando così il suo ethos, il suo carattere.

In occasione del centenario del Nobel ad Einstein, dunque, abbiamo in programma di organizzare una mostra su questi temi.

Nel frattempo, questo periodo di pandemia ci può insegnare qualcosa?

Sappiamo che dopo ogni pandemia ci sono molti cambiamenti. In questo periodo siamo rimasti a lungo in casa. L’esperienza che abbiamo vissuto nei periodi di confinamento è stata per tanti aspetti simile a un viaggio nello spazio, perché eravamo come astronauti rinchiusi in una navicella. Abbiamo sperimentato nuovi modi di vivere gli ambienti chiusi, di parlare, di comunicare.

Newton scrisse la sua teoria della Gravitazione universale mentre era isolamento fuori Londra per evitare la peste. Anche Shakespeare ha scritto molto dopo un’epidemia di peste. In generale, le epidemie sono momenti di transizione: oggi per noi la sfida è cogliere l’occasione per porre le basi di un futuro migliore. Da questo punto di vista, credo molto nella scuola e nell’educazione, perché la cultura è il miglior antidoto contro le tentazioni d’identità nazionalistiche e autoritarie che ogni crisi, inevitabilmente, porta con sé.

Un ultimo pensiero?

Per chiudere questa conversazione non trovo niente di meglio delle parole che usa Dante nell’ultimo canto della Divina Commedia: “A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle”.  

 

 

Per saperne di più    

Viaggio all’interno di un buco nero (Parte 3 – Si parte!)

Il paesaggio cambia

Ecco, il pulsante è stato premuto. Siamo partiti. Come vivremmo questa avventura?

A parte gli spazi angusti del nostro mezzo di trasporto, ci troveremmo esattamente come sulla Terra, almeno per quello che riguarda la gravità. Soltanto che durante la fase di accelerazione (cioè la prima metà del viaggio) il pavimento sarà per noi la parte bassa dell’astronave, più vicina ai motori, mentre nella fase di decelerazione (seconda metà del viaggio) sarà la parte alta. In altre parole pavimento e soffitto si scambiano a metà strada, quando l’accelerazione si inverte pur restando uguale in valore assoluto.

A bordo, il tempo scorrerebbe in modo del tutto regolare. Guardando fuori, però, si noterebbero le stranezze

The Milky Way glitters brightly over ALMA
La Via Lattea sopra le antenne del radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), in Cile. Questo osservatorio fa parte della collaborazione Event Horizon Telescope, che ha effettuato la prima foto di un buco nero (ESO/B. Tafreshi, twanight.org).

A bordo, il tempo scorrerebbe in modo del tutto regolare: non noteremmo nulla di strano. Guardando fuori dal finestrino, però, le stranezze sarebbero evidenti. La prima cosa che noteremmo è che il paesaggio cosmico cambia forma. La porzione della Via Lattea di fronte a noi inizialmente sembra allontanarsi, mentre le stelle che ci circondano si spostano – tanto più quanto più aumenta la velocità – verso la direzione in cui ci stiamo muovendo. Anche il loro colore cambia: si sposta verso il blu, l’ultravioletto e in genere verso le frequenze più alte. È l’effetto Doppler, lo stesso che ci fa percepire il suono dell’ambulanza più acuto quando si avvicina a noi, più basso quando si allontana.

Come pioggia contro il parabrezza

Alla fine, quando la velocità dell’astronave è abbastanza elevata, il paesaggio cosmico appare completamente deformato, e molto più monotono. Invece di vedere le stelle tutte attorno a noi, con la striscia della Via Lattea che taglia in due la grande cupola del cielo, vedremmo tutta la luce concentrata in un punto luminoso che brilla intensamente davanti a noi. A causare questa distorsione è un fenomeno noto come “aberrazione relativistica”, che è analogo a un’esperienza che in molti hanno vissuto, e forse qualcuno avrà notato, in automobile. Quando piove e stiamo guidando, o comunque guardiamo avanti, infatti, la pioggia sembra provenire da una direzione di fronte a noi… ma in realtà siamo noi ad andarle incontro, ed è proprio per questo che abbiamo una tale percezione. Allo stesso modo, in un viaggio relativistico, la luce sembra provenire da un punto di fronte a noi: quello che definisce la direzione che abbiamo preso, il buco nero gigante al centro della Via Lattea.

Vedremmo il tempo scorrere sulla Terra a ritmo accelerato

Il futuro alle nostre spalle

Guardandoci alle spalle, invece, ci confronteremmo con il già citato principio della deformazione temporale. Noteremmo infatti che sulla Terra tutti gli eventi si susseguono a un ritmo serrato e fenomenale. Vedremmo i nostri amici invecchiare e morire; e poi i loro figli, nipoti, generazione dopo generazione. Guarderemmo con orrore le guerre scoppiare qua e là nel pianeta, i mutamenti climatici prendere forma, l’inquinamento che macchia l’atmosfera, nuove flotte di astronavi che lasciano la Terra per conquistare le zone vicine e poi il resto del cosmo. Il ritmo con cui tutto questo si sussegue è legato alla nostra velocità rispetto alla Terra: quanto più è elevato, tanto più l’accelerazione temporale risulterà marcata.

CoverI Buco Nero
La cover dell’ebook “Viaggio all’interno di un buco nero”, da cui è tratto questo articolo.

L’effetto dovrebbe diminuire fino ad annullarsi una volta arrivati a destinazione, perché come abbiamo detto vi giungeremmo a velocità ridotta se non nulla. Ma non è così. O, almeno, questa è solo una parte della storia. Nei pressi del buco nero, infatti, il campo gravitazionale è così intenso da produrre anch’esso una distorsione del fluire del tempo. Il risultato è che, anche stando fermi o quasi nei pressi della nostra meta, vedremmo il tempo sulla Terra scorrere velocemente, con i secondi dell’orologio che abbiamo al polso cui corrisponderebbero secoli e millenni nel nostro pianeta. In questo senso, un viaggio verso un buco nero corrisponderebbe a un lungo viaggio nel tempo, verso il futuro. Se cambiassimo idea e decidessimo di tornare a casa prima di varcare la soglia di non ritorno (l’orizzonte degli eventi), troveremmo una Terra tutta diversa, in un’altra era geologica in cui è perfino difficile pronosticare che cosa sarebbe potuto succedere alla discendenza umana.

(Tratto dall’ebook Viaggio all’interno di un buco nero – continua)