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La nobile arte del silenzio zen

Seduto immobile di fronte a un muro, con gli arti dolenti per la postura che non posso cambiare, sto cercando qualcosa che forse non c’è. E se non c’è, è proprio perché la sto cercando, osserva Nicolas, la mia guida, riportando le parole di Kodo Sawaki: “Tu non cerchi la strada, è la strada che cerca te”. E allora è meglio lasciarsi andare, liberare la mente da ogni pensiero, anche dal dolore, e attendere che “qualcosa” accada, gratuitamente, senza che si sappia cha cosa sia quel “qualcosa” di cui apparentemente nulla si può dire. Si sta qui, ora, come fiammelle di pura esistenza.

Saper perdere

Siamo nel tempio Fudenji di tradizione buddhista giapponese Zen Sōtō, nell’Appennino parmense tra Fidenza e Salsomaggiore Terme, in un sabato dedicato alla meditazione seduta zazen, che qui i monaci praticano tutti i giorni (il termine deriva da za, seduto, e zen). In occasioni come questa, il monastero apre le porte agli ospiti, per iniziarli alla nobile arte del silenzio. Il padrone di casa, il Taiten Fausto Guareschi, è una persona di grande ospitalità e curiosità intellettuale, con cui si può affrontare ogni discorso; ma diffida di chi si avvicina alla meditazione spinto da mera curiosità o, peggio ancora, da un interesse pratico come la ricerca di benessere o la via di fuga da uno squilibrio interiore. Per lui, lo zazen perde ogni senso se privato della sua componente spirituale, della spinta religiosa. Lo zazen non è niente di speciale, ammoniva Sawaki, è una postura che non cerca assolutamente niente. Dunque è inutile aspettarsi benefici di qualsivoglia natura, perché non c’è niente da guadagnare. “Il guadagno è delusione, la perdita è illuminazione”, insegnava il maestro.

“Tu non cerchi la strada, è la strada che cerca te”

Anticamera

Sono qui comunque per provare. Appena arrivato, Nicolas mi porta con due neofiti come me nell’anticamera del tempio, dove i monaci e altri ospiti più abituali stanno già meditando. Qui ogni minimo movimento ha un significato, e Nicolas si preoccupa di istruirci a dovere prima di farci varcare la soglia dello spazio sacro. Per questo, il primo ciclo di meditazione sarà nell’anticamera. Nicolas è un ragazzo di origini argentine che parla italiano con un forte accento spagnolo, a volte gli mancano le parole. Però è estremamente preciso, e non si dilunga in inutili dettagli. È subito chiaro che cosa dobbiamo fare: aggiustare il cuscino, sederci, adagiare prima la gamba sinistra con il piede contro il cuscino, poi il piede destro contro l’incavo interno del ginocchio sinistro. Busto eretto, collo dritto, lingua contro il palato, palpebre semichiuse e sguardo obliquo verso il basso. A questo punto bisogna liberare la mente e non pensare a niente.

In attesa

Lo zazen si distingue dalle altre forme di meditazione proprio per questo, perché va dritto al dunque. Nella meditazione yoga, per cominciare a liberare la mente in genere ci si concentra suelle varie posizioni e sul respiro. A volte si fa ricorso a un mantra, come Om o So Ham. Nella meditazione trascendentale, praticata tra gli altri da David Lynch, il mantra viene assegnato (a pagamento) dal maestro al discepolo. Nella meditazione zazen non c’è nulla di tutto questo. Nella stragrande maggioranza dei casi, bisogna solo sedersi nel modo prescritto e stare. Quello che deve arrivare arriva: “Tu non cerchi la strada, è la strada che cerca te”.

Di fronte a un muro

Ora sono stato promosso, dall’anticamera sono entrato nel tempio. Sto seduto di fronte a un muro, e sto così da qualche minuto. All’inizio va bene. Sono comodo, e cerco la consapevolezza. Non sembra, ma le variabili da controllare sono molte. La postura, che deve essere rilassata ma non cadente. Le palpebre, che devono rimanere socchiuse. Lo sguardo, che deve vedere e non vedere, senza indugiare sui dettagli dei mattoncini rossi a poche manciate di centimetri di distanza. La mente, che deve essere libera da pensieri, e se qualcosa passa, deve passare e andare, tornare nel nulla da cui è venuta. Il silenzio che si cerca qui è quello interiore.

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Lo spazio sacro del tempio, nel monastero zen Fudenji nei pressi di Fidenza.

Dolore e pensieri

Per qualche minuto fila tutto liscio. Sto bene, ho la sensazione di avere tutto sotto controllo. Per la mente silenziosamente vigile, le variabili da controllare sono tante: la postura, le palpebre, lo sguardo. Ma dopo un po’ riesco a farlo senza difficoltà, ritrovandomi in un flusso di lucidità, attenzione, consapevolezza, come capita a volte quando guido e mi sento perfettamente padrone della strada e di ogni possibile imprevisto che possa capitare, senza per questo pensarci più di tanto. Dopo un po’, però, arriva il dolore. All’inizio è solo una piccola staffilata al piede, più esattamente sul dorso del piede destro. La osservo e me ne libero. Ma il tempo passa sempre più lentamente e a un certo punto divento impaziente. Il piede mi duole e la gamba è completamente addormentata, devo essermi seduto male all’inizio e ora non mi posso più spostare. Se fossi a casa, mi alzerei immediatamente per cercare una posizione migliore, nella quale fermarmi anche un’ora. Ma qui, in mezzo ai monaci in uno spazio sacro, ogni minimo movimento pesa come un sacrilegio. E quindi provo a resistere con lo sguardo fisso al muro – ora gli occhi si sono spalancati, non ne posso più – e i pensieri più terribili che mi passano per la testa: starò facendo pressione su un nervo? Oppure avrò bloccato la circolazione sanguigna ostruendo un’arteria? Probabilmente si tratta di una compressione del nervo, e non è una cosa da nulla. Un amico medico mi parlò una volta della paralisi dell’amante e di quella del sabato sera. La prima che colpisce gli uomini che lasciano dormire la compagna sul proprio braccio, la seconda gli ubriachi che si addormentano con l’ascella appoggiata allo schienale della sedia, come avveniva soprattutto in passato. In entrambi i casi, il problema è dovuto a una compressione del nervo con danni spesso irreversibili.

Gong

Comincio ad avvertire una reazione vagale, in passato questo tipo di situazioni mi ha causato svenimenti. A un certo punto non ce la faccio più. Furtivamente, afferro il piede dolente con la mano destra e lo sposto dalla sua posizione. Fa male, molto male, anche se al tempo stesso quasi non lo sento. Appoggio la caviglia al ripiano su cui sono seduto, poi alzo il ginocchio in modo da allentare la tensione sui glutei e riattivare il nervo o la circolazione. Sento il calore che torna a fluire. Aspetto ancora qualche minuto. Poi, quando la situazione torna normale, mi rimetto nella posizione del loto. Ora va meglio, rientro nel mio silenzio e mi ci immergo più di prima. Potrei rimanere così a lungo, provo perfino un senso di piacere; ma a un certo punto avverto un fruscio. È Nicolas che esce dalla sua posizione, si alza e va a suonare il gong che indica la fine della sessione. Ora ci possiamo alzare. Mi giro verso destra, secondo le prescrizioni; e vedo il mio vicino irrigidito anche lui dalla postura, che si stira come se avesse un dolore alla schiena. Ognuno ha la sua, penso. Poi sistemo il cuscino come mi è stato insegnato e mi rimetto le scarpe, attendendo le prossime indicazioni.

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Un cartello nel monastero di Fudenji.

In (lento) cammino

Un cenno di Nicolas indica che è il momento del kinhin, la meditazione camminata. Dopo il tempo trascorso seduti, questa pratica è perfetta per rimettersi in movimento continuando a mantenere un elevato stato di attenzione e consapevolezza, se non di vera e propria meditazione. Si comincia a prendere la postura: si alza la mano sinistra fino allo sterno, si punta il pollice verso il basso e lo si avvolge con le altra dita, stringendo il pugno. Poi si avvolge la mano sinistra con la destra, a partire dal pollice che si posa sull’altro. Le mani sono staccate dal petto e si allargano i gomiti, in modo da rimanere leggermente in tensione, o meglio in attenzione, ma rilassati. Come per lo zazen, le palpebre sono chiuse per metà e gli occhi guardano in modo obliquo verso il basso, in modo da vedere e non vedere. Poi si fa un’inspirazione e si alza un piede, portandolo appena oltre la punta dell’altro. E si espira, facendo affondare il peso sul piede che è avanzato, pronti a ricominciare con il passo successivo. Così, lentamente, in modo controllato e sincronizzato con gli altri, si gira tutti insieme in senso orario, cercando idealmente di liberare la mente come in tutte le altre forme di meditazione.

Delicato equilibrio

Il kinhin è una pratica affascinante e benefica, ma riuscire a entrare in meditazione mentre si cammina richiede esperienza. A ogni passettino, a ogni minuscolo passo, ci si rende infatti immediatamente conto di quanto la nostra postura eretta sia il frutto di un delicatissimo equilibrio che si trasmette da un piede all’altro, e già questa consapevolezza può portare il neofita fuori dall’equilibrio, perdendo quella naturalezza del movimento che è un prerequisito indispensabile alla meditazione. Comunque sia, facciamo del nostro meglio e lentamente avanziamo, assorbendo con una consapevolezza nuova ogni minima sensazione provenga dal contatto dei piedi con il terreno, dall’esercitare o allentare una pressione. Sto imparando nuovamente a camminare.

Il ciclo continua

A questo punto capisco che la meditazione seduta e quella camminata sono due modi perfettamente complementari per raggiungere lo stesso risultato, l’una in modo statico, l’altra in modo dinamico. Entrambi sono due aspetti di noi, che la pratica zen punta a domare per farci raggiungere la piena consapevolezza. Così dopo il kinhin riprendiamo lo zazen, allo stesso modo in cui alle terme si alternano i bagni in acqua calda con quelli in acqua fredda. Il nostro corpo, per trovare l’equilibrio, sembra sempre aver bisogno di oscillare tra due estremi.

Oltre il dolore

E così, passando da zazen a kinhin e da kinhin a zazen, si entra in un altro ritmo che contribuisce anch’esso al raggiungimento di quella che è ritenuta la liberazione finale, il nirvana. Noi ci accontentiamo di meno. Tornato a sedere per la terza volta di fronte a un muro, cerco con cura di prendere una posizione che mi consenta di rilassarmi fino alla fine. Lì per lì sembra andar meglio, ma a un certo punto il dolore arriva e diventa ancora una volta insopportabile. Faccio uno sforzo estremo, opposto a quello che il corpo mi sta chiedendo, anzi urlando. Dovrei alzare la gamba e cambiare posizione; invece alla prima espirazione la rilasso, la abbandono e la dimentico. Non c’è più il dolore, non c’è più il pensiero, raffiche di calore mi attraversano riversandosi in un oceano senza confini. Quando la brezza scompare, resta la quiete. Il campo visivo è un orizzonte fuori dal tempo che separa il bianco dal nero, la luce dall’ombra, il giorno dalla notte, il caldo dal freddo, lo yin dallo yang, il nobile silenzio dal suono del gong.

Link e approfondimenti

• Il sito di Fudenji.
La serie di Josway dedicata alla meditazione di David Lumera.
• Il libro Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen (Ubaldini editore) di Shunryu Suzuki-Roshi.

Come si progetta uno spazio acustico?

L’esperienza inizia nella camera riverberante, una stanza bianca dalle pareti lucide e diseguali, in cui basta esclamare “Uh!” per rimanere assordati dal rumore. Poi si passa nell’adiacente camera anecoica, ed è come sprofondare in un buco nero che assorbe ogni suono, anche il più violento, confinandolo nel breve arco temporale in cui si sviluppa come una spugna che assorba ogni riverbero. Due ambienti acustici opposti, ed entrambi lontani dalla nostra esperienza: il primo super riflettente, il secondo ultra assorbente. L’uno accanto all’altro, separati da una parete studiata in ogni dettaglio per disaccoppiare ogni possibile interferenza.

Camera riverberante Caimi
L’autore nella camera riverberante, con un generatore di rumore. I microfoni servono a registrare i suoni che si diffondono nell’ambiente, per misurare l’assorbimento degli oggetti presenti. Le pareti sono asimmetriche, per evitare direzioni privilegiate.

Dalla caffettiera al design d’autore

Siamo nei laboratori di Caimi Brevetti, azienda di Novate Milanese che ha una linea dedicata a elementi di design – come tende e pannelli – per realizzare spazi sonori, una nicchia di eccellenza in un settore che attira sempre più attenzione per l’aumentato interesse nei confronti del benessere e per l’aumentata consapevolezza dei problemi relativi all’inquinamento acustico. A guidarci è Giorgio Caimi, responsabile dell’attività di ricerca e sviluppo e padre delle due camere che abbiamo appena visitato. Giorgio è uno dei quattro figli di Renato Caimi, che nell’immediato dopoguerra fondò l’azienda mettendo a frutto l’esperienza in ambito industriale che aveva maturato lavorando prima nel settore del ciclo (con la Bianchi) e poi dell’automobile (con Autobianchi). «All’inizio non aveva grandi disponibilità, quindi ha cominciato con oggetti di piccole dimensioni, come una caffettiera, la prima schiscetta industriale, un posacenere, la prima pentola con lo scolapasta integrato», racconta Giorgio. «Poi cominciò a interessarsi al settore dell’ufficio e, dal 1992, ad avviare collaborazioni con designer esterni come Carlo Bellini e Mark Sadler».

Nel video, alcune delle attività no-profit che si sono svolte nella camera anecoica. Nell’ordine, il “Progetto Italia” dello scultore Alberto Gianfreda, un’incisione di un brano di Bach del Maestro Fabio Montomoli, una performance con sculture sonore di Pinuccio Sciola da parte del musicista Andrea Granitzio e una performance con diapason e tamburo sciamanico dell’artista Alberto Nigro.

La svolta acustica

L’acustica arrivò dopo, nel 2009, in seguito alla crisi economica innescata dal crollo di Lehman Brothers. «Bisognava inventare qualcosa di nuovo», continua Giorgio Caimi. «E mio fratello Franco tirò fuori l’idea. All’epoca, in Italia c’erano tante aziende – ne avevo contate più di 200 – che vendevano materiali da tagliare su misura. Ma noi non siamo sarti, siamo un’industria. Produciamo in serie. E allora abbiamo puntato a sconvolgere le regole del mercato: abbiamo lanciato un pannello fonoassorbente in poliestere, disegnato da Michele de Lucchi, proposto in 4 colori. A quel punto, per chi pensa lo spazio, la progettazione è molto più semplice: non occorre più valutare i metri quadri di materiale necessario, non occorre una progettazione sartoriale, basta indicare il numero di pannelli. E quella è stata la chiave del successo».

Progettazione e ricerca

Il successo ha portato anche allo sviluppo di competenze sempre più specialistiche di ingegneria del suono, in modo da poter fornire alle aziende non solo il prodotto, ma anche il servizio di progettazione. E per sviluppare le competenze è stata avviata anche un’attività di ricerca e sviluppo (l’azienda, per esempio, collabora con l’Università di Ferrara). Le camere anecoica e riverberante che abbiamo visitato, infatti, servono a testare i materiali e i prodotti. Ma vengono anche messe a disposizione di università, enti e artisti per attività di ricerca, per esempio in ambito medico, neurologico o semplicemente esperienziale.

Laboratori Caimi
Le due porte, nei laboratori di Caimi Brevetti, che portano alla camera anecoica (porta a sinistra) e riverberante (porta a destra). Le due stanze, adiacenti, sono disaccoppiate da una struttra in metallo che serve a ridurre il rumore al minimo nella camera anecoica (Foto A.Parlangeli).

L’intervista

Giorgio mi guarda, siamo arrivati al dunque. Dopo aver fatto il giro dei laboratori e dopo aver avuto un’infarinatura sull’azienda di famiglia, sono finalmente pronto per entrare nel tema di questo articolo. È il momento dell’intervista.

Abbiamo visitato i laboratori, abbiamo visto i materiali. Ma andando nel concreto, dalle abitazioni agli spazi pubblici, come si progetta un ambiente acustico?

Innanzitutto bisogna capire in quale ambiente ci troviamo e qual è il tipo di esigenza. Perché gli uffici hanno alcune caratteristiche, le biblioteche ne hanno altre, le mense e i ristoranti altre ancora. Sulla base di questo, abbiamo sviluppato un software che è in grado di calcolare quanto materiale bisogna mettere all’interno di una stanza per ottenere il risultato desiderato. 

Microscopio Caimi
Ingrandimento al microscopio di una tenda fonoassorbente. La fibra usata è il poliestere (Foto A.Parlangeli).

Che cosa si cerca di fare, in genere? Eliminare il riverbero?

Sì, bisogna intervenire sul riverbero, ma senza eliminarlo del tutto. Perché con un riverbero pari a zero è come essere in una camera anecoica, e non per tutti è una buona esperienza. Anzi. L’assenza di riverbero elimina la spazialità della stanza. Nella progettazione, il riverbero deve essere tenuto sotto controllo e bisogna dare il giusto riverbero a ogni stanza.

In una camera anecoica è come essere in cima al Monte Bianco, attorniati da neve, in totale assenza di vento, perfettamente fermi e senza aerei nel raggio di 40 km. 

Ricordiamo che cos’è il riverbero?

Il riverbero è quanto tempo persiste il rumore, dopo che è stato generato, all’interno di un ambiente. Prendiamo lo scoppio di un palloncino: il rumore in sé è immediato, quello che sentiamo dopo è tutto riverbero (la differenza si sente molto bene in una camera anecoica, ndr). Il tempo di riverbero ottimale dipende dall’ambiente in cui ci troviamo. In un ufficio, per esempio, è di 0,8 secondi. In altre situazioni possono esserci tempi di riverbero più alti, per esempio in alcuni locali pubblici, o molto più stretti, se si parla di ambienti di ascolto di qualità, dove si arriva a 0,3 secondi. In nessun caso si arriva a zero. 

E in un appartamento qual è il livello ideale di riverbero?

Dipende dalle stanze. Dove si dorme, più basso è e meglio è. In cucina, invece, non c’è motivo di tenere sotto controllo il riverbero. Chi ha un home theatre, invece, dovrebbe farlo. E per gli audiofili è molto importante.

Come mai c’è un riverbero ideale per ogni ambiente? È per come ci siamo evoluti?

Penso di sì; ma poi entrano in gioco tanti fattori. Per esempio, in una classe scolastica, va bene tenere sotto controllo il riverbero… ma senza esagerare, perché altrimenti si rende la vita difficile all’insegnante, che deve gridare per farsi sentire. 

Lab Caimi
L’autore ripreso da una telecamera che mette in evidenza le sorgenti dei rumori, in questo caso la voce (Foto A.Parlangeli).

E in un teatro?

In un teatro sono basilari le prime riflessioni; infatti la parte superiore del teatro, normalmente definita a specchio, serve proprio a portare il suono il più possibile verso le ultime file. E poi, in fondo, c’è il materiale fonoassorbente. In passato si usava il velluto, oggi la scelta dei materiali è molto più ampia. Un altro accorgimento era quello di avere le prime file di spettatori molto staccate dal palco, perché così il suono poteva rimbalzare sul pavimento sempre per raggiungere le ultime file. La stessa cosa si può fare in ambito scolastico, per facilitare la vita agli insegnanti. Non è un fattore da sottovalutare, se si considera che il 35% dei docenti italiani a fine carriera ha problemi alla gola. 

Oltre ai pannelli, voi producete anche tende che assorbono il rumore. Quali sono le caratteristiche che le contraddistinguono?

I tessuti hanno caratteristiche diverse da quelle dei pannelli. In generale, abbattono il riverbero e possono essere modulati. Una tenda ondulata, per esempio, assorbe tutte le frequenze acustiche; mentre se è dritta, tesa, tende a eliminare soprattutto alcune frequenze. In base alla distanza dalla parete su cui vengono poste, le tende possono assorbire basse frequenze, medie frequenze o alte frequenze. 

Noi siamo in grado di dare un supporto alla progettazione acustica degli ambienti, per esempio in modo da eliminare – se serve – alcune frequenze, che possono essere legate a un impianto di ventilazione o al traffico stradale, per esempio. I pannelli, invece, in generale devono essere orientati in tutte le direzioni e ne bastano pochi: la loro caratteristica è che riducono il riverbero senza alterare il colore del suono.  

Link e approfondimenti

• Il sito di Caimi Brevetti e le attività no-profit nella camera anecoica.
Un’installazione presso ADI Design Museum.
• L’articolo di Josway sulla camera anecoica dell’Università di Ferrara.
• L’articolo di Josway sulla sonosfera di David Monacchi.

 

Il coro perfetto? È nella foresta

Si entra ed è come varcare la soglia di una macchina del tempo che ci riporta a emozioni antiche di milioni di anni, quanto eravamo una specie come le altre nel coro dei viventi. Ma siamo nel cuore di Milano, nella Sonosfera allestita da David Monacchi nel Cortile d’Onore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione del Salone del Mobile. Tra le tante opere effimere della design week milanese, la sua si distingue come un’esperienza che lascia il segno, perché nasce dalla tenacia e dalla passione che solo i pionieri conoscono. E già in quanto tale è unica al mondo. 

Testimonianze

Così, quando nel ventre della sfera si spengono le luci, ci ritroviamo nel crepuscolo della foresta del Borneo, la più antica del pianeta. Si comincia con il basso continuo delle rane, dei grilli e delle cicale; poi subentrano gli uccelli. Quindi si passa all’Amazzonia, e sembra di sentirla più giovane, come in effetti è, con le vocalizzazioni di rospi, rane, scimmie, caimani. Infine siamo in Africa, nel bacino del Congo, dove la scena appare subito più dinamica per il passaggio di grandi mammiferi come elefanti e forse mandrilli, oppure scimpanzé. Ne percepiamo la presenza e il movimento, come se fossero lì. Ma al momento della magia segue quello della denuncia, con una sfilza di dati che documentano in modo inequivocabile la devastazione portata dall’uomo con il suo impatto sul clima e sugli ecosistemi. Perché queste registrazioni hanno anche valore di documento, testimoni di una meraviglia che tra non molto rischia di non esserci più.

Trailer del documentario “Dusk Corus” (2018), che racconta il progetto “Fragments of Extinction” di David Monacchi.

L’intervista

Quando usciamo, ancora frastornati da ciò che abbiamo vissuto, un’altra emozione ci attende. Di fronte a noi c’è un uomo gentile e riservato, con una folta barba brizzolata. È David Monacchi, l’autore dell’installazione e delle registrazioni acustiche. Quasi sorprende a vederlo qui, nella civilissima Milano, con abiti eleganti e l’aspetto curato. Ma a lui sta a cuore seguire lo spettacolo dalla cabina di regia e parlare con il suo pubblico, carpirne le reazioni. La sua è una storia davvero fuori dal comune.

Lei viene dal mondo della musica, come è nata l’idea di andare nelle foreste a registrare suoni?

È una passione che è nata subito, quando ho cominciato a studiare composizione in conservatorio. In quel periodo ho avviato le prime campagne d’ascolto e di registrazione nei boschi dell’Italia Centrale. Eravamo intorno al 1990-91, e ho cominciato con i primi registratori digitali. Fin da subito non ero interessato ai singoli versi degli animali, ma all’intero paesaggio sonoro. 

Quanto ha influito questa esperienza sui suoi studi sulla composizione?

Gradualmente, questa attività ha sostituito la composizione stessa, perché trovavo alcuni sistemi d’ordine che non era il caso di manipolare. E quindi in questo senso, durante l’arco di almeno un quindicennio, mi sono tolto del tutto come mano creativa da ciò che registravo. 

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David Monacchi durante le registrazioni nella foresta del Borneo (Foto Alex D’Emilia).

Come è passato dalle foreste dell’Italia Centrale a quelle equatoriali?

Nel 1998 ho letto un articolo di Edward Osborne Wilson che mi ha molto colpito. Parlava di una possibile sesta estinzione di massa, causata dall’uomo. All’epoca ero un attivista di Greenpeace e avevo appena concluso un master alla Simon Fraser University, in Canada, nel gruppo di Murray Schafer dedicato al World Soundscape Project. In quelle notti di dicembre misi insieme le mie competenze di ingegneria del suono e di composizione elettroacustica con il mio interesse per gli habitat forestali. Ed è così che è nato questo progetto, con il suo titolo, Fragments of Extinction. Mi è stato immediatamente chiaro che se in habitat antropizzati da tanto tempo come quelli dell’Italia Centrale si potevano rintracciare sistemi d’ordine, allora chissà che cosa poteva succedere ad accendere un microfono in una foresta primaria mai toccata dall’uomo, dove la biodiversità è molto più ampia e molto più antica. Quell’intuizione è stata confermata viaggio dopo viaggio. La prima volta che ho aperto un sistema di registrazione tridimensionale in Amazzonia nel 2002 ho capito che la mia vita sarebbe cambiata. 

Qual è lo scopo principale delle sue campagne di registrazione?

Voglio creare un archivio sempre più ampio di paesaggi sonori dei diversi ecosistemi, basato su un protocollo di registrazione tridimensionale per 24 ore continue. Più che allo studio scientifico del suono, sono interessato alla patrimonializzazione dei cicli circadiani di questi luoghi antichissimi ed estremamente biodiversi, a beneficio delle generazioni future. Allo stesso tempo, fin dall’inizio ho sentito il bisogno di condividere le esperienze e le emozioni che provavo con il pubblico più ampio possibile, e per questo ci voleva uno spazio apposito. Per questo ho creato la sonosfera. 

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Un altro momento nella foresta del Borneo (Foto Alex D’Emilia).

Come è stato il suo primo impatto con la foresta amazzonica?

È stato molto forte. La prima notte, alle cinque e un quarto di mattina, mentre dormivo nella mia amaca in una posta sul Rio Negro, arrivarono – come lì accade tutte le mattine – le scimmie urlatrici. Vocalizzavano in tre gruppi da tre settori diversi della foresta, era un concerto di rumore bianco modulato, una cosa stupenda. E per me fu tanta l’eccitazione che tirai fuori il microfono in modo impulsivo, nel buio misi le pile al contrario e bruciai il preamplificatore. Per fortuna bastò cambiare alcuni fusibili e non ci fu bisogno di tornare a Manaus; ma quella registrazione saltò e ci rimasi un po’ male. 

E qual è stata l’emozione più forte?

La sera dopo, quando aprii i microfoni sul coro del crepuscolo nella foresta allagata. Fu incredibile. Mi trovai di fronte a centinaia di specie che vocalizzavano contemporaneamente in una specie di orgia acustica. Non era organizzata, in quel caso era una festa. Era proprio una festa. L’Amazzonia è una foresta relativamente giovane rispetto ai paleotropici del Sudest asiatico. Pertanto, quello che scoprii dopo nel Borneo mi fece rendere conto di quanto in realtà ogni foresta abbia la sua firma, che è data appunto da vari elementi: la biodiversità, l’evoluzione, l’età, l’habitat, la stagione, sebbene all’Equatore tutti i cicli circadiani siano uguali. Hanno sempre 12 ore di notte e 12 ore di giorno, quindi i ritmi acustici delle specie sono estremamente regolari. Ed è per questo che con Fragments of Extinctions abbiamo lavorato sempre all’Equatore, per documentare la regolarità di questi sistemi.    

Link e approfondimenti

Nelle stanze di David Lynch

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Come Dale Cooper e Laura Palmer in Twin Peaks, o come Fred Madison in Strade Perdute, si entra nel mondo di David Lynch attraverso una tenda rossa di velluto. Qui siamo però in carne ed ossa, al Salone del mobile di Milano, per visitare l’installazione Interiors by David Lynch. A Thinking Room, firmata da David Lynch e realizzata in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano. Siamo pronti a immergerci in una (doppia) esperienza di cui ancora non sappiamo niente, e che – nell’attesa – ci piace immaginare. Così il pensiero si trova a fantasticare di trovarsi in uno spazio buio, introspettivo, illuminato con luci tenui e calde, decorato con una statua di Venere, un grammofono, un divano in pelle rossa, vinile, ottoni. Intanto sono in coda con una trentina di persone. L’attesa sembra lunga. Vedo entrare chi è di turno, un po’ alla volta, ci vorrà una mezzoretta prima di arrivare.

Twin room
Le indicazioni alle due installazioni gemelle ideate da David Lynch, al Salone del Mobile di Milano (foto A. Parlangeli).

In attesa

La prima parte dell’attesa è più noiosa, non vedo l’ora che arrivi il mio turno e vorrei saltare in testa alla coda. Ma devo aver pazienza, e aspetto dando uno sguardo all’ambiente che mi circonda, alle persone in attesa, ai quadri appesi alle pareti di velluto.

Pensiero, non meditazione

L’attesa si fa più leggera quando, a metà strada, raggiungo uno schermo in cui parla David Lynch intervistato da Antonio Monda, il curatore dell’installazione. «Questa è una stanza unica», dice il cineasta americano. «Non ci sarà nessun’altra stanza come questa». La curiosità aumenta, Lynch sa come tenere alte le aspettative. L’intervista continua. Lynch spiega che quest’opera non ha niente a che fare con i suoi film o con il cinema in generale. E non è nemmeno una stanza per meditare, bensì per pensare. Ma in modo quasi ipnotico ci trascina proprio lì, nella meditazione trascendentale, di cui è un fedele adepto fin da giovane. «Questa sarebbe un’ottima stanza in cui meditare», ammette, «perché è molto tranquilla. Pratico la meditazione trascendentale ed è una tecnica nella quale ti immergi. E immergendosi molte persone hanno idee diverse su dove sia il “dentro” e che cosa sia il “dentro”. Il “dentro” è un campo della coscienza, dentro ogni essere umano al livello più profondo c’è un oceano di pura coscienza (…). C’è chi l’ha chiamato l’Essere, chi l’ha chiamato il “campo unificato”, chi il regno del Paradiso (…). Questo campo è la coscienza ed è un campo di intelligenza, di creatività, di gioia, di energia, di amore e di pace senza confini». Lo trovo un discorso molto bello e poetico, con una precisazione però. Anzi due. Anzi, forse anche tre o quattro, se non di più…

Thinking rooms
Una delle “thinking rooms” vista dall’esterno (foto A. Parlangeli).

Considerazione 1

Lynch implicitamente assume che tramite la meditazione si possa raggiungere, attraverso un’azione soggettiva, uno stato oggettivo, una coscienza condivisa universale. Questo mi sembra un salto logico eccessivo, diciamo che è un atto di fede. Per di più, identificare questo stato mentale con la coscienza è un ulteriore volo pindarico. Però è vero che gli stati mentali che si raggiungono con la meditazione sono probabilmente i più oggettivi tra gli stati mentali. In altre parole, tutti quelli che riescono a raggiungerli provano la stessa esperienza.

Considerazione 2

David Lynch fa poi un passo ulteriore, anzi due, entrambi molto azzardati: identifica lo stato più profondo che si raggiunge con la meditazione con il “campo unificato” della fisica. Qui ci sono altre due trappole logiche. Innanzitutto identificare uno stato mentale con uno stato non solo oggettivo, ma anche fisico, implica un ulteriore salto logico. Come dire che se guardiamo nel vuoto dentro di noi accediamo al vuoto quantistico dello spazio esterno: è un atto di fede. In secondo luogo, nel vuoto quantistico che conosciamo ci sono molti campi, non uno. Il campo unificato a cui allude Lynch è una tra le tante possibilità indagate dalla fisica teorica, ma è un’ipotesi di cui ancora non esiste nemmeno una teoria completa, figuriamoci una prova sperimentale.

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La sedia all’interno della Thinking Room (foto A. Parlangeli).

Nonostante queste osservazioni, l’intervista mi piace. Lynch è un grande affabulatore, lo si segue con piacere. E poi su molte cose ha ragione. Si può non condividere al 100%, ma è interessante. E poi Lynch e Lynch. Così, mentre resto incollato allo schermo a seguire l’intervista, la coda è avanzata e chi è dietro mi guarda con ostilità. Dunque mi sposto; se non altro restano ormai poche persone, all’improvviso l’attesa è più leggera.

Sulla poltrona

Presto arriva il mio turno. L’assistente mi rassicura che posso fare foto e video, posso perfino sedermi sulla sedia e disegnare quello che mi viene in mente. Così apro le tende rosse e mi ritrovo in un tunnel buio, dal quale si riemerge in uno spazio fin troppo illuminato e affollato, rispetto a quello che mi aspettavo. Al centro, la sedia per pensare, che è vuota. Colgo l’occasione per fotografarla e per sedermi, posso stare al massimo uno o due minuti. Mi guardo intorno. Di fronte a me l’immagine di un impianto industriale, un ambiente tipicamente lynchiano fin dai tempi di Eraserhead. Tutto intorno, alcune nicchie incastonate nelle pareti blu, un colore che secondo Lynch induce calma e riflessione. Rimango lì, a guardarmi intorno in uno stato di consapevolezza e di attenzione. Non trovo però nulla che mi inviti alla meditazione. Osservo le persone che entrano e che escono, osservo i miei pensieri. Prendo un foglio e scrivo “Josway”, lo lascio lì. Poi mi alzo e continuo a esplorare lo spazio in cui mi trovo. È vero, l’ambiente non ha nulla a che fare con le logge bianche e nere, con gli stati mentali di Fred, con Eraserhead e Mulholland Drive; e un po’ mi dispiace.

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Nella Thinking Room (foto A. Parlangeli).

Doppia esperienza

Quindi esco un po’ deluso rispetto alle aspettative, ma comunque divertito. E non ho nessuna intezione di perdermi la seconda esperienza, quella nella stanza gemella situata nel padiglione adiacente, anche se so già che cosa aspettarmi: è esattamente identica a quella che ho visto. E infatti basta percorrere pochi metri per trovarsi in un altro ingresso, identico al primo, ed entrare in uno spazio identico a rifare la fila. Per fortuna qui c’è meno gente. E ci sono altre persone che, come me, hanno già visto l’altra installazione, probabilmente perché il flusso di gente del Salone del mobile passava prima da lì. Insomma, in questa stanza si respira un’aria diversa. Non ci sono la curiosità e la magia provate prima. Anche il clima d’attesa cambia la percezione, rifletto. E anche per questo, forse, questa seconda esperienza risulta molto più fredda dell’altra. Nella stanza ci sono più persone e sono meno curiose. Passano e se ne vanno, come me.

Link e approfondimenti

• Il sito del Salone del Mobile, con un’intervista al curatore della mostra Antonio Monda.

• Gli articoli dedicati alla meditazione con Daniel Lumera.

• Il libro Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch (Mimesis) di Andrea Parlangeli.

Cover twin peaks

 

Il poeta e il Sacerdote

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“Il Sacerdote” da un altro punto di vista. In autunno, le sue foglie cambiano colore prima di cadere (Foto F. Tomasinelli).

Fermata Palestro. Arrivati ai giardini pubblici Indro Montanelli, comunemente chiamati “giardini di Porta Venezia”, basterà incamminarsi verso il laghetto popolato da tartarughe palustri, dove starnazzano gallinelle e germani reali. Lì vedremo stagliarsi fra le fronde un profilo particolare: un maestoso cipresso calvo (Taxodium distichum), albero antico, di altezza e dimensioni monumentali. Il suo tronco, di oltre tre metri e mezzo di conferenza, non si può contenere in un abbraccio, lo si può al più circumnavigare, fare attorno un giro completo, di 360 gradi, per ammirarne la corteccia rugosa, quasi un volto segnato dall’età. Il tronco si eleva per raggiungere e “bucare i 30 metri di altezza”, come dice il nostro interlocutore Tiziano Fratus, poeta e “dendrosofo” (come ama farsi definire), che ha fatto degli alberi la sua passione e parte integrante della sua stessa vita. In uno dei suoi libri, I giganti silenziosi (Bombiani), racconta la storia e le particolarità di questi “grandi vecchi” che si incontrano nelle città italiane, e tra i quali il cipresso calvo di Milano – che lui stesso definisce “il Sacerdote” ­– ha un posto di primo piano. Gli abbiamo chiesto di parlarcene.

Nato tra le paludi

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Dettaglio di un ramo del cipresso calvo con i caratteristici aghi, che in questa specie cadono in autunno (F. Tomasinelli).

Il cipresso calvo, o cipresso di palude, è un albero di origine nordamericana. Si chiama così perché appartiene alla famiglia dei cipressi (Cupressacee), ma nella stagione fredda – a differenza dei suoi simili – perde tutte le sue foglie aghiformi. «È stato importato dalle contee meridionali degli Stati Uniti d’America proprio per adornare le zone umide dei giardini, ovvero quei laghetti che spesso si usava inserire all’interno di contesti ispirati a un’idea armoniosa, romantica dell’architettura del paesaggio: viali ondulati, boschetti, finte rovine, grotte, statue neoclassiche, e (appunto) laghetti, spesso ricavati in buche di terra che costituivano montagnole», racconta Fratus. «I nostri alberi in genere preferiscono restare all’asciutto, tranne poche essenze, mentre i tassodi non soffrono; anzi, producono radici effimere, i pneumatofori, che possono rialzarsi anche di 30-40 cm dal suolo per consentire all’albero di respirare anche se il terreno è sott’acqua (v. foto sotto). Inoltre, sono alberi dalla crescita veemente, un portamento regale, dritti, robusti, una bella corteccia a scaglie ramata, con folte chiome verdognole che in autunno si colorano di rosso scuro, rosso cardinale, e poi si spogliano. Una conifera, come i nostri larici di montagna, che si sveste con l’arrivo dell’inverno».

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Il tronco di un cipresso calvo dei Giardini Indro Montanelli, con le radici a contrafforti e i pneumatofori, visibili sulla sinistra (F. Tomasinelli).

Vecchio confine

Questi alberi adornano molti parchi italiani, da Villa Rossi a Santorso (Vicenza) a villa Doria Pamphilj a Roma. A Piane di Montegiorgio, in provincia di Fermo, ce n’è un intero filare. Il Sacerdote dei giardini di Porta Venezia ha tra i 150 e i 200 anni, ed è il più alto e monumentale di un’intera colonia che cresce attorno alle acque stagnanti di un laghetto artificiale. «È un albero imponente, inatteso in un giardino del centro di Milano. Inatteso sia perché gli alberi di questa specie spesso sono meno robusti, sia perché ci si può aspettare la vista di grosse querce o meglio ancora, cedri o platani secolari ed eventualmente monumentali. Meno probabile incontrare un cipresso calvo del genere. Certo, chi conosce la storia dei giardini milanesi sa che questo è uno dei più antichi della città: un tempo segnava il confine orientale dell’abitato, poi è diventato l’oasi che è oggi, circondata da nuovi quartieri, strade, e costeggiata dal tracciato sotterraneo della Metro. Il placido vigore di quest’albero ci dice della grande forza che lo anima, con due concrescite laterali che dalla base si sollevano quasi a intimorire lo spettatore, proprio come un sacerdote ­– cattolico o luterano – che ci ammonisce. Chi passa spesso non lo nota, perché l’albero se ne sta in ombra, circondato da altre piante. Ma appena l’occhio gli cade addosso, si resta quasi increduli. Ci si avvicina e lo si ammira. Dal basso, verso le proiezioni aeree, le chiome fitte, ombrose e ricadenti… Lo senti il profumo delle sue resine?»

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Tiziano Fratus: è lui che ha battezzato il cipresso calvo di Milano “il Sacerdote” (T. Fratus).

Approfondimenti

• I libri di Fratus L’Italia è un giardino (Laterza) e I giganti Silenziosi (Bompiani), Manuale del perfetto cercatore d’alberi (Feltrinelli) e Sogni di un disegnatore di fiori di ciliegio (Aboca). E il suo sito internet: www.homoradix.com.
• Una visita ai Giardini Indro Montanelli di Porta Venezia.
• Il libro Oro Verde. Quanto vale la natura in città, (Il Verde Editoriale). Tra i suoi autori, Francesco Tomasinelli, che ha anche effettuato gli scatti pubblicati in queste pagine. 
• Il progetto Forestami, per rendere più verde Milano.