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La caccia infinita alle cifre di π

π è il simbolo della matematica per antonomasia. È il rapporto tra la lunghezza di una circonferenza e il suo diametro, ovvero la misura dell’area di un cerchio di raggio 1, ovvero la misura della superficie di una sfera di diametro 1. Emerge in situazioni imprevedibili, destando meraviglia, per esempio come limite della somma dei reciproci dei quadrati (π²/6 = 1/1² + 1/2² + 1/3² + …), oppure nell’identità di Eulero (e+ 1 = 0), che è stata giudicata la formula matematica più poetica, da un sondaggio condotto sui lettori del The Mathematical Intelligencer nel 1990.

Forse la più sorprendente apparizione di questo numero è quella scoperta da Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, il quale nel XVIII secolo calcolò che il reciproco di π è la frequenza con la quale uno stuzzicadenti, lungo la metà della larghezza delle assi del parquet del suo studio, cadendo a caso, incrociava la fuga tra due assi. Cosa vi è di più semplice o più prosaico? Basta un po’ di maleducazione nel gettare lo stuzzicadenti per definire π.

Lo scorso 5 agosto i ricercatori dell’Università delle Scienze Applicate dei Grigioni in Svizzera hanno annunciato di aver calcolato il valore di π con l’approssimazione di 62,8 bilioni di cifre esadecimali, mediante un programma per computer che ha girato per circa 1 mese.  Ovvero hanno calcolato 62,8×1012 cifre con una notazione per i numeri nella quale si usano 16 cifre da zero a diciassette, cioè 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, A, B, C, D, E, F. Questo risultato ha permesso loro di entrare nel Guinness dei primati, in quanto il numero di cifre di π precedentemente conosciute erano “solamente” di 50×1012 (senza togliere nulla ai ricercatori svizzeri, incidentalmente, vi ricordo la discussione  su Josway circa la problematicità nel convincersi della correttezza di un programma).

Il numero π pervade tutta la matematica e le sue applicazioni, anche dove non lo si immaginerebbe. Serve conoscere un valore abbastanza preciso di π per effettuare le giuste correzioni ai sistemi Gps (Global Positioning System) dovute agli effetti della Relatività generale di Einstein. Serve conoscere un valore abbastanza preciso di π per rendere efficienti gli algoritmi per la compressione dei dati basati sull’analisi armonica e le trasformate di Fourier, impiegati ad esempio dai sistemi di trasmissione della musica e delle immagini in streaming.

È legittimo, però, chiedersi: a cosa serve conoscere tante cifre quante ne hanno calcolate i ricercatori dei Grigioni? È difficile immaginare una qualche applicazione real-life nella quale servano più di una ventina di cifre decimali di π. Per esempio, è stato dimostrato che, per il calcolo astronomico del volume dell’universo con l’approssimazione del diametro di un atomo di idrogeno, 39 cifre decimali esatte sono più che sufficienti. Insomma, in una visione essenzialmente utilitaristica, anche conoscere già 1.000 cifre di π sarebbe uno spreco computazionale.

Cercherò quindi di dare alcune motivazioni per giustificare il fascino di questa ricerca, al di là del valore della prestazione degli informatici svizzeri, che è indubbiamente straordinaria, se si pensa che il matematico dilettante inglese William Shanks impiegò molti mesi nel 1873 per calcolare 707 cifre delle quali solo le prime 527 erano corrette.

Pimanifesto
Il manifesto della prima Giornata del π tenuta a Udine nel 2009.

Fate attenzione al prossimo quattordici marzo, poco prima delle quattro di pomeriggio! No, non è solamente il compleanno di Albert Einstein. Osservate bene le cifre che potete utilizzare per descrivere questo momento: 3, 14, 15, 9 … sono proprio quelle dell’incipit di π!  Il 14 marzo è infatti stata denominata “Giornata del pi greco”! La sua prima celebrazione si tenne nel 1988 all’Exploratorium di San Francisco, per iniziativa del fisico statunitense Larry Shaw. Nei dieci anni nei quali ebbi il privilegio di essere sindaco della città di Udine, celebrai ogni anno tale ricorrenza organizzando iniziative per festeggiare e promuovere la cultura matematica nelle piazze e nelle scuole della città. L’alfabetizzazione matematica è infatti necessaria per una consapevolezza e resistenza civile a fronte dell’abuso di dati, percentuali, e previsioni numeriche di cui siamo fatti bersaglio negli ultimi decenni.

L’iniziativa più folle, ma anche di maggior successo, tra le celebrazioni della Giornata del pi greco, è la gara a chi ricorda a memoria la maggior quantità di cifre decimali di questo numero. Sul sito www.pi-world-ranking-list.com, c’è la classifica mondiale di questa prova, e le regole per registrare eventualmente la vostra prestazione. L’indiano Sharma Suresh Kumar detiene attualmente il record del mondo, impresa realizzata il 21 ottobre 2015 ricordando ben 70.030 cifre decimali esatte in 17 ore e 14 minuti. Il primato italiano è invece detenuto da Luca Valdacca, che il 28 maggio 2020 ha ricordato 22.801 cifre superando così il precedente primato di Nicola Pascolo che, nella Giornata del pi greco del 2012 a Udine, ne ricordò ben 6.935.

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Un momento della gara per la scrittura delle cifre di pi greco a Udine. In primo piano, a sinistra, Nicola Pascolo (F. Honsell).

In realtà, in quell’occasione Pascolo scrisse quasi 10.000 cifre, ma la 6936-esima era sbagliata e ciò invalidò tutte le rimanenti, che pure erano giuste. Quell’impresa durò quasi 7 ore. La foto a lato lo ritrae, primo a sinistra, in quell’occasione; ma la foto mi piace perché illustra quanto π sia democratico e non faccia differenze né di genere né di età. Se vi appassionano le gare di memoria, date però un’occhiata a quest’altro sito e troverete le graduatorie delle competizioni mnemoniche più impensate.

Pi greco si presta a questo tipo di gare, perché non è un numero razionale la cui sequenza di decimali dopo la virgola si ripete dopo un po’, oppure risponde a qualche regola facile da calcolare. π è un numero irrazionale le cui cifre decimali compaiono in modo statisticamente casuale, tanto che i matematici congetturano che sia un numero normale, ovvero che nella sua coda tutti i numeri interi occorrano tra le sue cifre con la giusta frequenza, ovvero un decimo i numeri di una cifra, un centesimo quelli di due cifre, e così via. Nella Giornata del pi greco del 2012 a Udine, decidemmo di realizzare la catena umana delle prime mille cifre di π, con i ragazzi delle scuole medie, intorno all’ellisse di piazza Primo Maggio. Tale piazza si trova nel luogo nel quale Boccaccio ambientò la quinta novella della nona giornata del Decamerone facendovi sorgere il magico “giardino di gennaio bello come di maggio”. Proprio perché tutti congetturano che π sia un numero normale, per l’occasione ci procurammo circa 100 magliette per ciascuna delle cifre, in modo da poter raggiungere l’obiettivo, ma nessuno si ricordò di… procurare una maglietta con la “virgola”.

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Furio Honsell e concittadini in una Giornata del pi greco a Udine. La virgola è stata aggiunta in un secondo momento (F. Honsell).

Qui a sinistra potete vedere la foto che testimonia quanto sia vero il detto di Flaubert “dieu est dans le detail”, anche se forse lo scrittore francese la intendeva in un altro senso, forse più vicino a quello di Szymborska, di cui parleremo tra breve, rispetto alla legge di Murphy!

Ciò che stupisce di π è che a fronte della naturalezza con la quale si concepisce geometricamente ovvero esteticamente – cosa c’è di più naturale e perfetto di una sfera? – vi sia questa apparente casualità digitale così difficile da afferrare.

La storia della scoperta delle cifre di π ha un’origine antica.

Possiamo iniziare da Salomone che, in questo caso forse più sbrigativo che sapiente (ma certe volte anche questa è saggezza), usò come valore di π il numero 3 (1Re7,23). I babilonesi usavano un’approssimazione razionale per π data dalla frazione 25/8 (da bambino mi insegnarono 22/7, che è approssimazione migliore). Archimede capì che π era difficile da cogliere con esattezza ed escogitò il metodo di approssimarlo racchiudendo un cerchio tra poligoni regolari inscritti e circoscritti, con numeri di lati via via crescenti. Si stufò nel ripetere l’operazione quando giunse a concludere che π, ovvero il perimetro del cerchio, era compreso tra quello di 2 poligoni rispettivamente di perimetro 3 e 10/70 e 3 e 10/71. Nel 480, Zu Chongzhi trovò un’approssimazione razionale di π sorprendente, 355/113! Ma fu il matematico indiano Mahdava di Sangamagrama che, mille anni dopo, comprese come fosse possibile esprimere molto naturalmente π/4 come somma limite della serie infinita:  1 – 1/3 + 1/5 – 1/7 + … (che per eurocentrismo ostinato noi continuiamo a chiamare formula di Leibniz, dedicandola a un matematico vissuto secoli dopo). Questa fu la prima di tantissime e regolarissime sequenze infinite e relazioni notevoli che, oggi sappiamo, π soddisfa e che ci permettono di trattarlo senza che ci si debba smarrire nelle sue cifre.

Perché π ha suscitato tante emozioni? La causa è forse un pregiudizio: ciò che è misurabile è comprensibile mentre l’incommensurabile è inafferrabile. Pregiudizio che sembra risalire ai pitagorici e all’orrore con il quale accolsero la scoperta che la diagonale di un quadrato non è commensurabile al lato. Si narra che addirittura la morte fosse la pena per chi svelasse la dimostrazione che √2 non è un numero esprimibile come una frazione. L’irrazionale distruggeva irreparabilmente l’illusione che il mondo fosse retto da un’armonia razionale. La commensurabilità, ovvero la proprietà che due quantità siano multiplo intero di una stessa unità di misura (per esempio, due bastoni di lunghezza 1/43 e 1/47 unità, rispettivamente, sono tra loro commensurabili, perché sono multiplo intero di un bastoncino di lunghezza 1/2021), sembra concetto elementarissimo. Ma a guardare più a fondo la cosa, la commensurabilità stessa è concetto di complessità illimitata. Un punto su un bastone può condensare l’informazione di tutte le biblioteche del mondo, anche se divide il bastone in due segmenti tra loro commensurabili. È sufficiente che il minimo comune multiplo delle misure dei due pezzi sia un numero abbastanza grande. Che un numero possa codificare qualsiasi informazione, compresa quella esprimibile a parole, penso sia ovvio per tutti, essendo alla base della rivoluzione digitale.

Ma quanto tempo ha fatto perdere la natura numericamente irripetibile di π? Basti pensare al problema della quadratura del cerchio, ovvero al problema di costruire un quadrato di area uguale a quella di un cerchio, con esattezza assoluta, utilizzando solamente la riga e il compasso. Ha sedotto matematici, e non, da Euclide fino a Lindeman, che nel 1882 dimostrò essere impossibile (ma molti ancora non si sono rassegnati, e continuano a provarci). Pi greco è complice inoltre di uno dei più grandi grattacapi dell’umanità, ovvero il problema dello “spiaccicamento della sfera” che, espresso in modo più forbito, è il problema di come fare delle carte geografiche che si possano stendere su una tavola. L’amara verità è che nessuna triangolazione è mai esatta e quindi sfugge sempre qualcosa. Se si riescono a conservare le aree, non si riescono a conservare gli angoli tra le rette e viceversa. Se si tiene conto degli angoli allora le distanze scappano all’infinito, oppure le linee rette diventano curve, oppure non si conservano le direzioni.

Forse chi più di chiunque altro ha giustificato la necessità di conoscere le cifre di π, seppure indirettamente, è la poetessa polacca Maria Wisława Anna Szymborska (1923-2012), Premio Nobel per la letteratura 1996, che nella raccolta Numero enorme (Wielka Liczba) del 1976, scrisse la poesia Liczba Pi (Pi greco):

È degno di ammirazione il Pi greco
tre virgola uno quattro uno.
Anche tutte le sue cifre successive sono iniziali,
cinque nove due, poiché non finisce mai.
Non si lascia abbracciare sei cinque tre cinque dallo sguardo,
otto nove, dal calcolo,
sette nove dall’immaginazione,
e nemmeno tre due tre otto dallo scherzo, ossia dal paragone
quattro sei con qualsiasi cosa
due sei quattro tre al mondo.
(…)

(Wisława Szymborska – Opere – Adelphi  2008)

In Cianfrusaglie del passato – La vita di Wisława Szymborska di Anna Bikont e Joanna Szczęsna (Adelphi – 2015) è riportato: “Qualche giorno dopo, all’incontro di Udine, il sindaco ed ex rettore della locale università, il matematico Furio Honsell, volle leggere pubblicamente la poesia Pi Greco.” Si tratta della Festa del pi greco del 2015 a Udine. Per illustrare la poetica di Szymborska, che ritorva l’universo nelle cifre di π leggendole come una sciarada, mi limito a tradurre due frasi.

La prima è tratta dalla motivazione del Nobel. “(…) for poetry that with ironic precision allows the historical and biological context to come to light in fragments of human reality.” (“per una poesia che con precisione ironica permette al contest storico e biologico di venire alla luce sotto forma di frammenti di una realtà umana”).

La seconda è tratta dal suo discorso di accettazione al Nobel. “But ‘astonishing’ is an epithet concealing a logical trap. We’re astonished, after all, by things that deviate from some well-known and universally acknowledged norm, from an obviousness we’ve grown accustomed to. Now the point is, there is no such obvious world. Our astonishment exists per se and isn’t based on comparison with something else. Granted, in daily speech, where we don’t stop to consider every word, we all use phrases like “the ordinary world,” “ordinary life,” “the ordinary course of events”… But in the language of poetry, where every word is weighed, nothing is usual or normal. Not a single stone and not a single cloud above it. Not a single day and not a single night after it. And above all, not a single existence, not anyone’s existence in this world.” (Ma ‘meraviglioso’ è un epiteto che nasconde un tranello logico. Siamo meravigliati, dopo tutto, da cose che deviano da una norma ben nota o universalmente riconosciuta, da un’ovvietà a cui ci siamo abituati. Ora il punto è questo, non esiste un tale mondo ovvio. La nostra meraviglia esiste per se e non si basa su confronto con qualcosa d’altro. È vero, nel parlare quotidiano, dove non ci fermiamo a considerare ogni parola, usiamo frasi come ‘nella realtà ordinaria’, ‘vita quotidiana’, ‘il naturale corso degli eventi’… Ma nel linguaggio poetico, nel quale ogni parola è soppesata, nulla è consueto o normale. Non una singla ola pietra o una nube in alto sopra ad essa. Non una singola giornata non una singola notte successiva. E soprattutto non una singole esistenza, non l’esistenza di chiunque a questo mondo).

Penso che queste parole abbiano la forza di dare dignità anche a ogni singola cifra di π, anche se dopotutto, come disse Goethe, il poeta sa che cosa voleva scrivere, ma non sa che cosa ha scritto.

Schermata 2021-09-27 alle 22.21.59Concludo con un problemino, per farvi asciugare le lacrime di commozione di fronte alla poesia. Se è impossibile quadrare il cerchio, non tutte le aree con bordi curvi hanno però superfici che non si possano esprimere in modo razionale. Sapendo che il diametro dei cerchi è 1, quanto misura la superficie dell’area rossa nella figura a lato?

Infine, spero di avervi convinto che conoscere le cifre di π è importante, perché come disse la poetessa: le cife di π si susseguano incitando, oh sì, incitando la pigra eternità a durare.

La via della luce 1 (prologo)

Lo incontriamo sul divano che sarà il palcoscenico della sua performance. Daniel Lumera, esperto di meditazione e autore di best seller come 28 respiri per cambiare vita (Mondadori), si sta preparando con lo staff tecnico. Nel momento in cui arrivo, sta verificando che la fascia che ha in testa funzioni correttamente: serve a registrare la sua attività cerebrale e a proiettarla su un piccolo schermo, in modo che il mondo invisibile che vive nella sua mente possa trovare una traduzione in forma di mappe mentali e colori. È questa, infatti, la cifra dello spettacolo che si sta per svolgere al FlavioLucchiniArt Museum, negli spazi di Superstudio Più, a Milano.

Sballarsi senza droghe

Siamo andati a trovarlo poco prima di Meditation Rave, un evento di meditazione collettiva che unisce arte, scienza e spiritualità sulla scia della Mente Meditante, altro spettacolo che si è svolto al MAXXI di Roma con la partecipazione di Giacomo Rizzolatti, il coordinatore del gruppo che ha scoperto i neuroni specchio.

«Il termine “Meditation Rave” è una provocazione», spiega Lumera. «I rave sono associati alla droga, allo sballo; noi vogliamo dedicarli alla meditazione. E vorremmo andare in Stazione Centrale e al Duomo, organizzare con i ragazzi flash mob che durino tutta la notte, anche con la musica. Insomma, questo è l’inizio di un filone di ricerca che vuole essere molto provocatorio e affermare che non c’è bisogno di droga per sballarci. La vita è una droga pazzesca e possiamo usarla per stare bene».

Meditation Rave
Un momento della performance di meditazione collettiva che si è svolta a Milano. L’attività cerebrale di Daniel Lumera è visualizzata nello schermo alla sua destra (Foto Meditation Rave_@FLA Museum_02.03.2024).

L’intervista

L’entusiasmo di Lumera è contagioso, la sua serenità anche. Ero arrivato come sempre un po’ di fretta, un po’ a disagio per la pioggia e un po’ imbranato sulle regole da seguire (lasciare le scarpe fuori dalla stanza, portare il tappetino per la pratica). Ma in un attimo sono seduto di fronte a lui, perfettamente a mio agio, connesso, travolto in un flusso che mi sta portando altrove. Mi lascio andare e gli rivolgo le domande che ho preparato per lui.

Quando ha incontrato la meditazione? E come è stata la sua prima esperienza?

Avevo 19 anni e studiavo scienze naturali e biologia all’università. Non ne sapevo niente, allora non c’erano tutte le informazioni che ci sono adesso. Ho semplicemente seguito il consiglio di un compagno di studi, ed è stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Prima ero una persona molto stressata e reattiva; da quel momento ho iniziato un percorso personale, esperienziale ed esistenziale molto profondo. Fino a quando ho deciso di dedicarmi a tempo pieno a quello che faccio.

Quindi quello è stato subito un momento di svolta.

Sì, perché fin dalla prima volta sono entrato in stati mentali estremamente rigenerativi, estremamente profondi, in esperienze di grande benessere, di grande integrità interiore, di grande unità. E quindi quella è stata la molla che mi ha fatto cambiare vita.

Può descrivere che cosa succede dentro di lei quando entra in uno stato di meditazione?

Se devo essere sincero, dipende. Ci sono molte fasi, da quelle più superficiali di quiete, di calma di pace e di rigenerazione a stati contemplativi molto più profondi dove si entra in contatto con alcune esperienze che definirei di gratitudine. Sono esperienze di grande lucidità, di grande chiarezza, di grande presenza, anche di felicità esistenziale, cioè non dovuta a niente ma semplicemente al fatto di esistere. Non ho mai trovato – quando la meditazione in me è diventata matura – una controparte nella sessualità, nell’alimentazione, nel successo che mi abbia dato un senso di soddisfazione, di integrità e di benessere così profondo. Che tra l’altro non dipende dal fare, dall’avere, dall’apparire, che sono i tre pilastri dell’educazione moderna; ma dalla consapevolezza di essere. Questo mi ha dato un enorme vantaggio nella vita, perché di solito gli esseri umani prendono decisioni in base a logiche di convenienza, ma soprattutto per essere felici, per avere successo ecc. Invece questi stati, questa esperienza interiore, ti permettono di scegliere e di decidere perché sei felice, perché sei centrato, perché sei lucido, perché hai chiarezza. E questo è un vantaggio enorme, in quanto ti permette di essere molto meno manipolabile, molto più integro in te stesso e molto meno assoggettato alle logiche di mercato, ai desideri creati a tavolino, alle aspettative familiari e sociali. Il processo meditativo in me crea un momento di ascolto così profondo che riesco a discernere in maniera molto chiara quelli che sono i miei bisogni, le mie esigenze, i miei ritmi soprattutto, rispetto a quelli imposti dall’esterno. E questo per me è un processo di grande valore.

Per arrivare al culmine della meditazione, c’è un percorso da seguire?

Sì, è un’arte che ha millenni di storia e con un gruppo di neuroscienziati abbiamo evidenziato alcune fasi, sempre più profonde, che sono estremamente precise.

La prima è quella dell’attenzione, che deve essere educata. Non deve essere dispersa, ma focalizzata. Questo è uno stato di presenza.

La seconda fase è quella della concentrazione, che si realizza quando l’attenzione diventa prolungata e fissa su un oggetto. Non importa che sia qualcosa di interno o di esterno, di astratto o di concreto; anche il silenzio può essere oggetto di attenzione e di concentrazione.

La terza fase è quella di contemplazione. La contemplazione accade quando osserviamo l’oggetto su cui stiamo meditando da una condizione di silenzio mentale e di non definizione. Questo è importante, perché la mente per sua natura è “vagabonda”, viene infatti definita wandering mind: noi passiamo il 47% della giornata a pensare a ciò che non sta accadendo, cioè viviamo in un mondo immaginario pazzesco. La contemplazione è uno stato di osservazione attraverso la quiete mentale, il silenzio e il non giudizio, la non definizione di quello che si sta guardando. È uno stato, non so, di purezza originale, bellissimo; lì, io sento che sto “entrando”.

La quarta fase è quella della meditazione vera e propria. La meditazione non è pensare, non è visualizzare. Al giorno d’oggi c’è una grande confusione su questo. La mindfulness non è meditazione: è uno stato di presenza, al massimo è una premessa. Pregare non è meditare, anche se ci sono importanti punti in comune. Meditare non è neanche respirare consapevolmente. La meditazione è uno stato di coscienza, di pura consapevolezza di essere, molto simile a quello dei bambini appena nati. Non ci sono processi mentali di giudizio, di definizione, di critica. Non ci sono processi logici e razionali. Non si conosce niente, si è uno stato di non sapere originale, dove qualsiasi cosa diventa entusiasmo, meraviglia, scoperta. Ma è anche uno stato di pura consapevolezza di essere. Questo stato ha alcune caratteristiche specifiche e provoca in chi lo sperimenta un’intensa felicità esistenziale, che non dipende da niente. È la felicità di esistere e di prenderne pienamente consapevolezza. Ed è gratitudine, perché ti rendi conto di avere il dono della vita. Quando sono in questo stato, provo una sensazione di grandissima integrità, che deriva da una riconnessione con l’unicità dell’essere, con l’unicità della mia natura.

Di solito si pensa alla meditazione come a una pratica individuale. Che cosa cambia quando si passa a un’esperienza di gruppo come quella di oggi?

Accade che si potenzia. La bellezza della performance che abbiamo effettuato al MAXXI con Giacomo Rizzolatti, il Cnr di Parma e Henesis è stato vedere come due cervelli, in un processo meditativo ben stabilito, si sincronizzano, cioè tendono a produrre onde cerebrali della stessa frequenza. La meditazione è un fenomeno sociale, non individuale. Non ci si isola: paradossalmente, si condivide il silenzio. E questo potenzia gli effetti di benessere e di rigenerazione. Per questo noi portiamo la meditazione negli ospedali, per esempio. Siamo stati all’ospedale pediatrico Meyer e al Careggi di Firenze. Questa settimana andremo all’ospedale di Locarno, in Svizzera. Siamo stati anche nelle carceri: a Palermo abbiamo inaugurato la prima stanza perpetua di meditazione ed è stata un’esperienza straordinaria. Perché abbiamo visto che dappertutto – che sia un carcere, un team o un’azienda – le esperienze di meditazione di gruppo abbassano il livello di conflittualità e di stress. Le relazioni migliorano. C’è una maggiore empatia, un maggiore ascolto e un potenziamento della fiducia reciproca degli individui.

To be continued

A questo punto, lo ringraziamo e salutiamo, perché la performance sta per cominciare. Non ci resta che provare, e condividere la nostra esperienza (continua).

Link e approfondimenti

Com’era il mondo prima del Big Bang

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L’universo, si sa, è nato 13,8 miliardi di anni fa, con una grande esplosione detta Big Bang. Giusto? Ni. Perché il Big Bang ci fu, questo è sicuro. Però – a parte chiarire che cosa si intende con “grande esplosione” (cosa semplice, ma che non faremo qui) – l’universo non è propriamente nato con il Big Bang: c’era qualcosa prima. A scommetterci è Gabriele Veneziano, fisico teorico al Collège de France e al Cern di Ginevra, noto per aver avuto nel 1968 un’intuizione – passata alla storia come Ampiezza di Venezianocelebrata anche dall’artista Anselm Kiefer – che ha portato alla nascita della moderna teoria delle stringhe. Veneziano lavora dagli anni ’90 a un modello cosmologico basato appunto sulla teoria delle stringhe, che consenta di dare ragione del Big Bang e del nostro universo. Lo abbiamo incontrato per chiedergli di aggiornarci sugli sviluppi recenti. «Ci stiamo lavorando proprio in questi giorni», ha esordito con la sua voce pacata, capace però di aprire squarci su scenari inimmaginabili.

Che cos’è cambiato nel nostro modo di vedere il Big Bang?

In passato il Big Bang era visto come una singolarità, cioè una situazione di densità e temperatura infinite, che ci impediva di andare al di là nel tempo. Nella nuova visione, il Big Bang è un momento particolarmente interessante della vita dell’universo, ma non è l’inizio e non ha niente di catastrofico: la densità è altissima, ma non è infinita, e la temperatura è altissima, ma non è infinita. L’ordine giusto con cui si sono verificati gli eventi è dunque: prima l’inflazione, poi il Big Bang, e non viceversa come si vede in molte illustrazioni.

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Pioggia di meteore allo Yosemite National Park, Usa (Foto di Casey Horner su Unsplash).

Perché c’è bisogno di una fase inflazionaria iniziale per risolvere i problemi della vecchia cosmologia?

La ragione è che, altrimenti, bisognerebbe aggiustare in modo incredibilmente preciso le condizioni in corrispondenza del Big Bang per spiegare l’universo attuale. Ma l’inflazione da sola non basta: un punto su cui insisto da tempo è l’importanza della meccanica quantistica in questa nuova cosmologia. L’inflazione, se non ci fosse la meccanica quantistica, darebbe un universo completamente omogeneo, cioè privo delle strutture su grande scala che ci circondano: galassie, ammassi di galassie, vuoti, filamenti ecc.

Alla luce di queste nuove idee, dunque, il Big Bang non è l’inizio ma un semplice punto di svolta nella storia dell’universo. Come possiamo pensarlo?

È un momento in cui si passa da un’energia potenziale, quella che determina l’inflazione, alla creazione di un gas particelle ad alta temperatura. Per descrivere quello che accade, spesso ricorro all’immagine di una cascata: a monte della cascata c’è molta energia potenziale; ma quando l’acqua scende l’energia potenziale si trasforma in energia cinetica.

Come descriverebbe l’universo prima del Big Bang?

Caratterizzare l’inizio della fase inflazionaria non è facile. Ma nell’ambito delle teorie delle stringhe esiste una possibilità abbastanza motivata di descriverlo sulla base di certe simmetrie che la teoria stessa possiede. La teoria delle stringhe è un completamento della teoria quantistica dei campi (cioè la teoria alla base del Modello Standard delle particelle elementari, ndr) e la modifica quando si considerano scale di lunghezza molto molto piccole…

Piccole rispetto a che cosa?

La scala di riferimento è la cosiddetta lunghezza di stringa. Su scale molto maggiori della lunghezza di stringa vale la teoria quantistica dei campi convenzionale. Però questa scala può evolvere nel tempo.

In che senso, e in che modo, la lunghezza di stringa può cambiare nel tempo?

La lunghezza di stringa è, in realtà, l’unica scala di lunghezze della teoria e possiamo tenerla fissa, come unità di misura di tutte le lunghezze. Quello che cambia è la forza con la quale le stringhe interagiscono. Siccome in teoria delle stringhe le interazioni sono unificate, la forza di gravità, la forza elettromagnetica e le forze nucleari forte e debole sono determinate da un’unica costante. Questa costante però è dinamica, cioè è associata a una particella, o se vogliamo a un campo (nella teoria quantistica dei campi, a ogni particella corrisponde un campo e viceversa, ndr), una specie di bosone/campo di Higgs: si chiama dilatone.

Quanto più piccola è la forza, in particolare quella di gravità, tanto più grande è il rapporto tra la scala della stringa e la scala di Planck (che è legata alla costante di Newton e vale 10-35 m). Quindi, se si fissa una delle due scale di lunghezza, l’altra dipende dal valore del campo del dilatone e dunque può cambiare nel tempo.

Torniamo alla domanda iniziale: come era, allora, l’universo prima dell’inflazione?

Il vecchio modello di cosmologia su cui ho lavorato con Maurizio Gasperini (Università di Bari) e con altri collaboratori parte dall’ipotesi che l’universo inizi con interazioni debolissime. In questo regime è facile risolvere le equazioni della teoria delle stringhe, perché si parte da costante di accoppiamento molto piccola e da una curvatura molto piccola dello spazio-tempo. Poi la costante di accoppiamento e la curvatura evolvono e prendono valori sempre più grandi, finché si arriva alla scala di curvatura della stringa stessa, cioè quando il raggio di curvatura dell’universo è dell’ordine della lunghezza di stringa. A quel punto, la costante di accoppiamento arriva ai valori attuali e avviene questa transizione che noi associavamo al Big Bang. Si chiamava modello di pre-Big Bang, perché descriveva questa fase precedente, che tecnicamente parlando era anch’essa inflazionaria, cioè aveva caratteristiche simili a quelle dell’inflazione più convenzionale.

Alla fine, si può dire che è il dilatone che spinge l’espansione dello spazio durante l’inflazione?

Esattamente. Le equazioni di Friedman, che descrivono l’espansione dell’universo, ci dicono che la velocità dell’espansione è data dal prodotto della costante di Newton per la densità. Nel nostro scenario, durante la fase che precede il Big Bang, cresce sia la costante di Newton sia la densità; quindi l’espansione è di tipo accelerato, sinonimo di inflazione.

E se ne esce con una transizione di fase, il Big Bang.

Sì, e qui veniamo alle novità. Negli ultimi anni alcuni studi, in particolare di Olaf Hohm e Barton Zwiebach, sono riusciti a tener conto in modo completo delle simmetrie che caratterizzano questa fase di pre-Big Bang. Noi l’avevamo fatto solo nel regime in cui le curvature sono piccole e l’accoppiamento è piccolo. Usando questi nuovi risultati, con Maurizio Gasperini siamo riusciti a vedere che si può effettivamente avere una transizione che connette le due fasi, pre e post Big Bang, attraverso un rimbalzo. Invece di Big Bang preferiamo quindi chiamarlo Big Bounce (“Grande Rimbalzo”). Fino a poco tempo fa non c’erano tecniche matematiche per descriverlo in dettaglio, ma grazie a questo sviluppo teorico siamo riusciti a costruire delle soluzioni perfettamente regolari. Uno degli ostacoli che avevamo sembrerebbe risolto.

Che cosa succede al dilatone durante il Big Bounce?

Finché siamo nel regime di interazioni molto deboli, il dilatone si comporta come una particella senza massa. Quando invece si entra in un regime simile a quello attuale, il dilatone si può stabilizzare, un po’ come fa il campo di Higgs nella transizione elettrodebole.

Però, quando dà la massa alle particelle, il bosone di Higgs condensa. Anche il dilatone condensa?

Esattamente, dato che si stabilizza prendendo un valore non nullo. Quando condensa al minimo del suo potenziale, il dilatone fornisce il valore di tutte le forze. Come il campo di Higgs dà massa alle particelle del Modello Standard, così il dilatone dovrebbe dare la forza delle loro mutue interazioni. Per esempio, dovrebbe dirci quanto vale la costante di Newton e quanto è grande la costante di struttura fine (che vale circa 1/137, ndr). La teoria delle stringhe, se un giorno sarà risolta, dovrebbe fornire quel numerino come conseguenza del valore attuale del campo del dilatone.

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Raffigurazione grafica dell’evoluzione dell’universo (Foto Nasa).

E, condensando, il dilatone genera il Big Bang, giusto?

Genera la transizione tra la fase inflazionaria e il Big Bang inteso come reheating. È il “rimbalzo”, il rebound.

Dopo il Big Bang, però, che cosa succede al dilatone? Rimane fisso, invariato nel tempo?

Questa è una domanda molto interessante, perché in effetti sembrerebbe quasi un miracolo che se ne stesse lì tranquillo e non si muovesse più. Però, se avesse un’evoluzione anche piccola nel tempo, vorrebbe dire che certe costanti della natura dipenderebbero dal tempo. E ci sono molti esperimenti che fanno vedere che invece, nel nostro passato, anche remoto, varie costanti fisiche sono rimaste invariate. Quindi ci sono alcuni limiti su quale possa essere stata l’evoluzione del dilatone dopo il Big Bang. Se invece si osservassero piccole variazioni della costante di struttura fine nel tempo, o anche piccole deviazioni dall’universalità della caduta libera – fenomeni sotto attento scrutinio sperimentale da vari decenni – questa sarebbe una scoperta molto importante che punterebbe il dito verso la teoria delle stringhe.

Il dilatone potrebbe spiegare anche il mistero dell’energia oscura?

Ha colpito nel segno. In un lavoro con Thibault Damour, un fisico teorico francese che ha contribuito con i suoi calcoli alla rivelazione delle onde gravitazionali, avevamo sviluppato un modellino in cui effettivamente l’energia oscura è legata al dilatone. È un modello un po’ diverso da quello appena descritto: il dilatone, invece di andare a finire a un valore finito e fermarsi lì, continua a evolvere e da valori iniziali molto negativi va a finire a valori molto positivi. Questo limite del dilatone che cresce all’infinito è potenzialmente interessante ed è legato a un’idea di Andrej Sacharov, la cosiddetta induced gravity. L’idea è che si parte da una teoria classica in cui manca il termine usuale che fornisce le equazioni di Einstein. Però gli effetti quantistici inducono la costante di Newton e le equazioni di Einstein. Insomma, è come dire che la gravità è un fenomeno di origine quantistica. Questo limite in cui il dilatone va all’infinito (positivo) è essenzialmente lo stesso concetto. Una volta Sacharov venne al Cern e chiese di vedermi per informarsi sulla teoria delle stringhe. Mi chiese se nella teoria ci fosse una induced gravity. Io, però, a quei tempi non avevo pensato a questa possibilità; quindi gli risposi di no, che mi sembrava che la gravità ci fosse ab initio. E solo vari anni dopo, quando Sacharov era ormai morto, mi accorsi che questo limite concretizza proprio la sua idea.

Nella teoria delle stringhe, tra le particelle ancora da scoprire, c’è solo il dilatone?

No, c’è anche un assione. E ci sono altri campi scalari che tra l’altro, se non condensano, cioè se non si bloccano al minimo di un loro potenziale, possono generare anch’essi variazioni delle costanti naturali.

String theory
Una raffigurazione delle stringhe su scala microscopica (Immagine Photo by photoGraph: https://www.pexels.com/photo/a-disarray-of-multicolored-illuminated-curved-lines-6373118/).

Torniamo al pre-Big Bang. La teoria delle stringhe dice qualcosa su come potrebbe nascere il tempo?

Su questo ho idee abbastanza convenzionali. So che si parla di un tempo che scaturisce in modo emergente, io la vedo un po’ diversamente. La teoria in genere parte dalle coordinate delle stringhe, temporali e spaziali. C’è la coordinata della stringa che si muove nel tempo e descrive una superficie. Quello che ho potuto vedere, in alcuni studi, è che – proprio perché la stringa ha dimensioni finite – non è possibile misurare distanze spaziali e forse anche intervalli temporali che siano più piccoli di questa scala. Con alcuni collaboratori, abbiamo introdotto un Principio di Indeterminazione Generalizzato (GUP), che aggiunge al Principio di Indeterminazione di Heisenberg anche l’impossibilità di misurare distanze troppo piccole. Quindi il mio punto di vista è che, finché non siamo in un regime in cui domina la lunghezza di stringa rispetto ad altre scale, possiamo vivere tranquillamente con i nostri concetti usuali di spazio e di tempo. Però, quando siamo a scale di curvatura e/o di temperatura al di sopra di un certo valore critico, la stringa interviene con il suo nuovo principio di indeterminazione e fa sì che non sia più possibile misurare intervalli di spazio e di tempo più piccoli di quella scala. È come se lo spazio-tempo diventasse discreto: solo incrementi discreti sono possibili. È una specie di quantizzazione dello spazio e del tempo. In altre parole, in quelle condizioni lo spazio-tempo continuo non è una buona descrizione della natura.

Quindi non c’è stato un inizio del tempo?

Non ci sarebbe stato un inizio. Il fatto di partire da uno spazio-tempo piatto, con costante di accoppiamento piccola, risolve anche un problema noto come problema trans-Planckiano, cioè il fatto che quando si va indietro nel tempo, se si riporta per esempio la scala di una galassia all’inizio dell’inflazione, questa diventa una scala sub-Planckiana (cioè inferiore alla lunghezza di Planck, che è la lunghezza minima concepibile in natura, ndr). Ma questo è un problema: come si fa a descrivere questo inizio? Ecco, questo tipo di problemi non esiste nel nostro modello, proprio per il fatto che la fase iniziale nel nostro scenario non è affatto sub-Planckiana.

Però questo vuol dire che prima potrebbe esserci stata qualsiasi cosa, andando indietro all’infinito nel tempo.

Sì, certo.

Continua a essere spostato all’indietro nel tempo il problema dell’origine di tutto.

Sì, questo è vero.

E allora non sono vere e proprie condizioni iniziali.

Sì, diciamo che è modello basato sull’assunzione che l’universo sia iniziato nel modo più semplice possibile, cioè molto piatto e con interazioni debolissime. È un postulato che con Alessandra Buonanno e Thibault Damour abbiamo chiamato “ipotesi di un passato asintotico banale” (Asymptotic Past Triviality).

E in quelle circostanze l’entropia era bassa?

Sì, l’entropia era molto bassa. Si può vedere facilmente come l’entropia venga generata di nuovo tramite la creazione di particelle. L’universo diventa sempre più curvo, crea particelle e al Big Bounce è caldo.

Però, se nasce con entropia bassa, non è un universo improbabile?

Effettivamente, se vogliamo sì. Quello che mi piace è che nel momento del bounce si vede che si satura un certo limite teorico sull’entropia. Ci sono varie proposte in fisica sui limiti massimi dell’entropia (limite di Bekenstein, limite olografico ecc.) e la cosa interessante è che all’inizio l’entropia era molto bassa. In un certo senso è una tautologia: siccome l’entropia aumenta, all’inizio deve esser bassa. Ma, al momento del bounce, o del Big Bang, l’entropia sembra massimizzare questi limiti. Allora si potrebbe pensare: ma se l’entropia è già massimizzata, come faccio ad andare avanti? La novità è che questi limiti sull’entropia non sono fissati una volta per tutto, ma sono legati alla geometria dello spazio-tempo: corrispondono ad avere un certo numero di gradi di libertà, cioè di entropia, per ciascun volume di Hubble, che corrisponde essenzialmente alla porzione osservabile dell’universo a un dato istante. Allora, quando l’universo si espande e diventa sempre meno curvo, il volume di Hubble aumenta e aumenta anche il limite superiore accettabile per l’entropia. Quindi si parte al Big Bounce da uno stato massimamente entropico, però l’evoluzione dell’universo fa sì che sia possibile aumentare ulteriormente l’entropia, perché aumenta il limite. Tanto è vero che oggigiorno siamo molto lontani dal saturare questo limite. Però, ripeto, al bounce il limite sarebbe già stato raggiunto, e in un certo senso il bounce avviene perché, se non avvenisse, si andrebbe al di là del limite massimo consentito.

Gabriele Veneziano 2
Gabriele Veneziano (© 2018-2024 CERN).

Tornando al nostro universo, resta una questione: che cosa c’è oltre l’orizzonte visibile?

Normalmente ci si aspetterebbe che l’universo fosse molto più grande di quello che osserviamo. Nel nostro scenario dipende molto da che cosa è successo durante la fase iniziale. Con Damour avevamo avanzato l’idea che questa fase iniziale assomigliasse al collasso gravitazionale di un buco nero, e che l’universo che emerge da questa fase possa essere molto più grande dell’universo osservabile. In questo schema, ci potrebbero essere molti universi paralleli, tutti sconnessi tra loro da un punto di vista spazio-temporale, nel senso che sarebbe impossibile entrare in comunicazione con loro.

I vari universi sarebbero tutti come il nostro, o potrebbero avere caratteristiche diverse?

Potrebbero anche avere leggi della fisica diverse. Nello scenario che abbiamo sviluppato alla fine degli anni ’90, c’è uno stato iniziale che descriviamo come un mare caotico di onde dilatoniche e gravitazionali. Questo stato iniziale tende a evolversi verso la formazione di buchi neri; ma questo può avvenire in punti e in momenti diversi. All’interno dell’orizzonte di ciascun buco nero può avvenire un Big Bounce e nascere un universo. Qui giocherebbe un principio antropico: noi esistiamo in uno di questi possibili universi che ha certe caratteristiche adatte a generare al suo interno la vita e gli esseri umani. Poi magari al di là, ma molto molto lontano da noi, in luoghi disconnessi, potrebbero esistere altri universi, altre dimensioni… nella teoria delle stringhe ci sono anche tutte le dimensioni nascoste. Anche quelle possono cambiare, perché ci sono varie configurazioni in cui possono trovarsi.

Che relazione c’è tra quei buchi neri primordiali e quelli che conosciamo?

All’interno di ogni universo si possono formare buchi neri astrofisici, di tipo più convenzionale. Ma anche all’interno di un buco nero astrofisico ci sarebbe, secondo la teoria di Einstein, una singolarità simile a un Big Crunch (un “Grande Collasso”). Cosa ne è di questa singolarità se si sostituisce la teoria di Einstein con quella delle stringhe? Questa è una domanda affascinante ancora senza risposta.

Come si può trovare una controprova sperimentale di queste idee?

Per esempio, attraverso la radiazione cosmica di fondo. Il nostro vecchio modello pre-Big Bang ha uno spettro di perturbazioni gravitazionali blu, cioè spostato verso le alte frequenze, e ci aspettiamo poca polarizzazione della radiazione di fondo. La polarizzazione di tipo B, che si sta cercando come prova dell’inflazione, in questo scenario sarebbe inosservabile. Negli studi più recenti, però, sembra esserci la possibilità di usare la teoria delle stringhe per innescare un’inflazione più convenzionale, in cui la polarizzazione sarebbe abbastanza grande da essere misurabile.

Questo scenario che abbiamo esaminato è l’unico possibile nella teoria delle stringhe?

Ci possono essere anche altri scenari. Quello di cui abbiamo parlato, e che ho studiato per molti anni, non è l’unico modello, ma direi che è il più semplice. Estrae solo le informazioni dovute a queste nuove simmetrie per dire: se c’è questa soluzione dopo il Big Bang (cioè l’universo che conosciamo), ce ne dovrebbe essere una duale nella fase antecedente. La simmetria trasforma una soluzione nell’altra, e in entrambe il dilatone svolge un ruolo centrale. Se il dilatone è costante oggi, non poteva essere costante prima. Questo è intrinseco in questa simmetria. Sono due fisiche diverse ma connesse dal fatto che c’è una simmetria nelle equazioni.

Ci sono però anche modelli ciclici, come quello sostenuto dal premio Nobel Roger Penrose o come quelli detti dell’universo ecpirotico. Ci sono tante idee in giro e probabilmente risulteranno tutte sbagliate via via che si progredisce sia sul lato teorico sia su quello sperimentale. Però ci sono anche questi concetti più generali per i quali sono pronto a mettere la mano sul fuoco: bisogna scordarsi l’idea del vecchio Big Bang, perché confonde solo le idee. Quello che noi osserviamo oggigiorno, per esempio nella radiazione fossile di fondo, non ha nulla a che vedere con l’inizio dell’universo. Ha a che vedere, invece, con la fine dell’inflazione.

Link e approfondimenti

• Un articolo sulle origini della teoria delle stringhe sul Cern Courier (in inglese).
Un video che spiega la teoria delle stringhe (in inglese).
• La storia dell’universo in un multimedia di Focus, a cura di Andrea Parlangeli. E il dossier di copertina di Focus n° 377.

CoverFocus377

La chiesa sospesa tra la terra e il cielo

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Incastonata in una falesia che guarda a oriente, la basilica della Madonna della Corona è un miracolo sospeso nella roccia. È a tutti gli effetti una chiesa semirupestre come quelle che abbondano nel Tigrai e in tante altre aree del Mediterraneo e del Medio Oriente; ma ha un’insolita architettura in stile veronese che la rende unica. Siamo ai margini del Monte Baldo, tra il Lago di Garda e Verona. E ci accingiamo a scendere dal sentiero che parte dal piccolo borgo di Spiazzi.

“Non gettare, c’è la gente!”

Camminando lungo la strada asfaltata che porta a destinazione, c’è un cartello un po’ arrangiato con la scritta: “Attenzione! Non gettare nulla sotto. C’è la gente”. Se ne deduce che la chiesa è proprio lì dietro, e che forse qualcuno in passato ha lasciato distrattamente cadere qualcosa. Chissà. La strada prosegue per poche centinaia di metri, fiancheggiata da una parete rocciosa ricca di grotte e di anfratti, toccando le tappe di una Via Crucis che è stata aggiunta per arricchire l’esperienza di chi si reca al santuario. E quando si arriva all’ultima curva, ecco che lo spettacolo si apre agli occhi: alle prime luci del giorno, da dietro la roccia si disvela il profilo della chiesa.

Madonna della Corona
L’interno della chiesa (Foto A. Parlangeli).

Oltre il tunnel

Per raggiungerla occorre scendere ancora qualche metro, percorrere un tunnel che sembra scavato con il piccone, poi una lunga scalinata. E ci si trova infine nell’ampio piazzale d’ingresso, con la vista che spazia sulla valle dell’Adige. Qui, se è inverno come ora e se ci si attarda a guardare il paesaggio e a scattare foto, può capitare di assistere alla caduta una stalattite di ghiaccio, che va in frantumi con grande fragore. Il pensiero torna al cartello visto poco prima, e all’inquietudine che per mille motivi qui possa sempre cadere qualcosa dall’alto.

Madonna della corona
Il tempio nel luogo esatto in cui secondo la leggenda fu ritrovata la statua della Madonna (Foto A. Parlangeli).

Apparizione miracolosa

Le origini del santuario affondano nella leggenda. Si narra infatti che l’edificio sia stato costruito nel luogo del miracoloso ritrovamento di una Pietà proveniente da Rodi e sfuggita ai saccheggi dei turchi. Di certo la scultura risale ai primi del ’400, ma il luogo – con le sue grotte e le sue suggestioni – era considerato sacro già da molto prima. Divenne santuario nel 1625, per iniziativa dei Cavalieri di Malta che fecero riedificare la chiesa.

Pareti di roccia

Quando si varca la porta d’ingresso, si resta soprattutto colpiti dalla Pietà circondata da un vortice di angeli che decora la parete rocciosa dietro l’altare. Sulla fiancata sinistra, c’è un’altra parete di roccia che custodisce una lastra di marmo intrisa di olio di nardo, simbolo di cristianità. La navata destra, è invece decorata di ex-voto.

Madonna della Corona
Il santuario visto dal basso, dal sentiero che arriva da Brentino Belluno (Foto A. Parlangeli).

Nella grotta

Oltre alla chiesa, le attrazioni per i pellegrini e i turisti sono molte. C’è una scala santa da percorrere scalzi o in ginocchio, un “sepolcreto degli eremiti”, un vecchio ospizio costruito per ospitare i pellegrini e un tempietto esagonale (Sacellum Pietatis) edificato nel luogo esatto in cui, secondo la tradizione, fu ritrovata la statua attorno alla quale è stato costruito il santuario. Ci sono infine anche i tanti gradini che portano a Brentino Belluno, seicento metri più in basso. Lungo la strada, un’altra grotta dedicata alla Madonna che custodisce un’altra Pietà. Ai suoi piedi, un vaso con la più semplice delle rime: “A te, mamma celeste, offriamo questo fiore con amore”.

La sorella della Mole

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La sua vista si impone a chiunque attraversi la Pianura Padana nei pressi di Novara, stagliandosi nel paesaggio al pari del Monviso e del Monte Rosa. È la cupola della basilica di San Gaudenzio, audace costruzione in mattoni, che con i suoi 122 metri di altezza surclassa gli altri edifici del capoluogo piemontese compreso il campanile della stessa chiesa. Siamo saliti in cima a questo monumento tutto da scoprire con attrezzatura da alpinisti, per capire che cosa lo rende così straordinario (spoiler, il genio di Alessandro Antonelli che lo costruì).

Chiesa incompiuta

La visita comincia dalla basilica da cui prende il nome, che in realtà è molto più antica e ha una storia lunga e travagliata. «In origine era in un’altra posizione, all’estremità occidentale della città, oltre la barriera albertina dove oggi si chiude Corso Italia», spiega Roberto Tognetti, architetto e coordinatore del progetto Piemonte Antonelliano. «Verso le metà del ‘500 gli spagnoli di Carlo V cambiarono la struttura della città potenziando il suo ruolo di piazzaforte militare. Vennero così distrutte tutte le costruzioni esistenti al di fuori della cinta muraria, compresa la basilica. E si decise di costruire una nuova basilica dentro le mura». L’opera venne affidata a Pellegrino Pellegrini detto il Tibaldi, architetto di Milano che però non riuscì a completarla. Come accadde anche a Santa Maria del Fiore a Firenze, che inizialmente rimase senza cupola, così anche San Gaudenzio fu coperta all’epoca con un tetto provvisorio. «Nel ‘700 fu costruito il campanile e poi, finalmente, nell’800 arrivò Alessandro Antonelli (1798-1888)», racconta Tognetti. «In quel periodo, però, la fabbrica lapidea che gestiva la costruzione era in difficoltà economiche. Antonelli riuscì a sedurre i committenti promettendo di realizzare un progetto a basso costo, risparmiando sui materiali».

Esterno
Facciata e cupola della chiesa di San Gaudenzio (Foto A. Parlangeli).

Dall’interno

I novaresi sanno a memoria dove si trova la chiesa, ma per chi viene da fuori non è immediato raggiungerla. Se infatti la cupola si riconosce benissimo da lontano, nei meandri del centro cittadino è quasi impossibile vederla. E anche quando si arriva ai suoi piedi, si è troppo vicini per apprezzarne lo sviluppo verticale. Per ammirarla da vicino bisogna entrarci; ma non prima di aver visitato la chiesa su cui è costruita. La guida precisa subito che non è la cattedrale (titolo che spetta alla chiesa di Santa Maria Assunta, anch’essa rivista da Antonelli) e che è stata interamente finanziata dai novaresi. All’interno, sulla sinistra, balza all’occhio la statua del Cristo Salvatore laminata in oro, originale della copia che oggi svetta nel punto più alto a guardia della città. La statua è a ridosso di una colonna e ha lo sguardo puntato sull’altare, avvicinandosi al quale si viene come risucchiati dalla voragine che si apre verso l’alto: è la cupola che si dispiega in negativo, e che da qui si può ammirare dall’interno in tutta la sua gloria se non fosse per un telo semitrasparente che serve a trattenere il calore nei mesi invernali.

Interno San Gaudenzio
L’interno della chiesa. A sinistra, la statua del Cristo Salvatore (Foto A. Parlangeli).

Doppia rampa

Per salire, bisogna però uscire dalla chiesa e rientrare dal campanile adiacente, costruito da Benedetto Alfieri (1699-1767). La guida ci avvisa che c’è vento, e non è sicuro che potremo raggiungere il punto più alto consentito alle visite, cioè i cento metri di altezza. Intanto ci prepariamo. Mettiamo i nostri cellulari all’interno di tasche trasparenti in plastica da appendere al collo: è la ragione per cui le foto scattate da questo momento in poi non sono molto nitide, e alcune risultano inutilizzabili. Quando ci viene dato il via, la nostra guida, Paola, apre la strada e ci spiega che le scale sono disposte in una doppia rampa, per fare in modo che chi sale non si incroci con chi scende. Poi prosegue in silenzio con passo sicuro. Sono dietro di lei e la seguo tenendola a vista. Inizialmente reggo bene il ritmo, ma presto mi ritrovo a debito di fiato. Conto di recuperare all’arrivo, a ogni passo mi ripeto che dovrebbe mancare poco. Però la salita prosegue più a lungo del previsto e lei fugge in avanti come una lepre. Cerco di controllare il respiro, spingo, sento il cuore che batte come se andasse per conto suo. E, proprio nel momento in cui sto per mollare l’inseguimento, arriviamo. Paola è fresca come una rosa; si mette in posizione di attesa. Raccolgo il fiato e sospiro: “Però, tira”. “Sono trecento scalini”, risponde rilassata. “Sei bene allenata”, ribatto. “Sono una maratoneta”.

Interno Cupola
La cupola vista dall’interno della chiesa. Gli spazi sono separati da un telo semitrasparente, che serve a trattenere il calore d’inverno (Foto A. Parlangeli).

Compasso gigante

Quando arrivano anche gli altri, percorriamo un corridoio che congiunge il campanile alla base della cupola e raggiungiamo la Sala del compasso. Si chiama così perché qui è conservato l’enorme compasso ligneo originale, utilizzato da Antonelli per disegnare in scala 1:1 ogni parte della cupola. È veramente imponente, sarà lungo più di dieci metri. Paola dice che è il più grande del mondo e ci spiega la lunga e laboriosa costruzione della cupola, che è durata più di quarant’anni. Scopro, così, che quel genio di Antonelli era anche un grande imbroglione, diciamo uno “stratega”. E la prova è davanti ai miei occhi.

Stratagemmi

Siamo all’altezza del tetto della chiesa, a 24 metri dal suolo, dove comincia la cupola. Ho di fronte gli arconi in mattoni che reggono la struttura. Sono veramente imponenti. «La cosa straordinaria è che Antonelli, nel momento in cui avviò i lavori, per prima cosa potenziò e raddoppiò gli arconi», spiega Tognetti. «Perché quelli che c’erano sulla vecchia basilica erano assolutamente insufficienti a reggere il peso della cupola che aveva in mente». E qui arriva lo stratagemma. Perché il primo progetto dell’opera, quello che l’architetto nato a Ghemme aveva venduto alla fabbrica lapidea come “economico”, era in perfetto stile classico e prevedeva solo un giro di colonne e la cupola: l’edificio sarebbe stato molto più basso e leggero di quello attuale. Ma i lavori durarono a lungo, anche per i costi, e il progetto cambiò più volte. Per Antonelli, ogni occasione era buona per rilanciare verso l’alto. «Fin dall’inizio non costruì un arcone proporzionato al primo progetto che aveva presentato nel 1841», enfatizza Tognetti. «Ne fece invece uno combinato in una doppia centinatura, proporzionato per reggere il “missile” che aveva in testa e che non aveva ancora svelato ai suoi committenti. Perché Antonelli aveva nella spinta verticale, qualcuno l’ha definita “spinta gotica”, la sua dimensione più profonda di costruttore. Ed è straordinario che raggiunse esiti costruttivi paragonabili a quelli del quasi coevo Gustave Eiffel (1832-1923) in Francia, considerando però che Eiffel operava in una delle nazioni più avanzate del mondo sul piano industriale e usava le tecniche costruttive più moderne basate sull’uso dei metalli, mentre Antonelli si basava su un cantiere di impostazione medievale, che era ancora quello della muratura e dei mastri artigiani. Ciò nonostante tra i due sistemi, oltre alle differenze ci sono anche importanti analogie. Due tra tutte: la presenza di un “telaio strutturale”, realizzato con le rispettive tecnologie (metallo e pietra) e la tensione alla verticalità attraverso la leggerezza, cioè l’ottimizzazione del disegno e dei materiali».

Un guscio sottilissimo

La meraviglia cresce a mano a mano che proseguiamo nella nostra salita. Abbiamo già indossato caschetto e imbrago, e avanziamo seguendo un percorso che costeggia prima il profilo interno della cupola, poi quello esterno, poi di nuovo l’interno. È tutto un gioco di archi, volte e contrafforti, che si dispiega tra la cupola esterna e un’altra cupola, più interna, a forma di cono, che fa da supporto. il fatto più straordinario è che – è subito evidente – su una cosa Antonelli non aveva barato: per ottimizzare il peso e i costi, aveva reso la struttura leggera fino all’inverosimile. La cupola esterna è infatti sottilissima. Vengono i brividi al solo pensiero che basterebbe un colpo abbastanza forte con il braccio per aprire una breccia e magari farla crollare. Lo spessore è di appena uno strato di mattoni: «Si definisce “mattone a una testa”», spiega Tognetti. «Si tratta cioè di un mattone accostato all’altro e collegato con la malta. La resistenza viene garantita dalle nervature e dalla doppia struttura, quella conica interna e quella monumentale in forma di peristili di colonne sovrapposte fino all’emisfero finale. In questo modo Antonelli costruì una forma che esprimeva il massimo rapporto tra peso e resistenza».

Rinforzi pericolosi

La costruzione era talmente audace per l’epoca che per decenni i cittadini temettero che la cupola potesse crollare. E si tentò perfino di aggiungere alcuni rinforzi in cemento armato, che per fortuna furono fatti ma ridotti al minimo: avrebbero appesantito inutilmente una struttura che, come la storia ha dimostrato, resiste tutt’ora.

L’esempio del Bramante

Per comprendere bene la portata di quest’opera assolutamente straordinaria, e molto sottovalutata anche dal punto di vista turistico, può essere utile procedere per confronto. «Il primo progetto, con un giro di colonne e una cupola, si ispira al Rinascimento e in particolare a Donato Bramante (1444-1514)», spiega Tognetti. «È il modello classico di cupola perfetta, che si ritrova per esempio nella chiesa di Saint Paul a Londra e in quella di Sainte Geneviève (Pantheon) a Parigi». Stilisticamente la cupola di San Gaudenzio è molto simile a queste, ma è molto più slanciata verso l’alto.

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La salita attrezzata, nella parte alta del percorso (Foto Kalatà).

Il record della Mole

D’altra parte, la spinta verso l’alto la accomuna alla Mole di Torino dello stesso Antonelli, che – quando fu completata nel 1889 – con i suoi 167 metri di altezza divenne l’edificio in muratura più alto del mondo. «Entrambi i monumenti sono punti di riferimento per le città in cui si trovano, e ne marcano il paesaggio», commenta Tognetti. «Da parte di Antonelli c’è sempre una grande capacità di leggere il territorio. La Mole, per esempio, nacque come tempio istraelitico che doveva essere costruito su una grande aula con una serie di edifici collegati (ma non divenne mai sinagoga perché, per i costi elevati di costruzione, la comunità ebraica la vendette al comune di Torino prima che fosse completata). Quindi la forma di partenza era un cubo. Antonelli la inserì nella maglia quadrata della città, che è una struttura urbanistica di derivazione romana. E costruì una serie di cubi sovrapposti, su cui poggia il padiglione curvo sormontato a sua volta da un colonnato soprannominato “tempietto sospeso”, che ricorda la “gabbia per grilli” dell’analogo colonnato incompiuto del duomo di Firenze».

Cantiere interminabile

Entrambi i cantieri, quello di Torino e quello di Novara, durarono a lungo. «Il cantiere di San Gaudenzio, in particolare, fu tutto uno stop and go tra guerre di indipendenza, causa di forza maggiore, finanziamenti che finivano, contrasti con il committente, incomprensioni», racconta Tognetti. Durò 44 anni, però alla fine fu rispettato il disegno di Antonelli.

Con e senza impalcature

Parlando di cupole audaci, non può sfuggire il confronto con quella di Filippo Brunelleschi (1377-1446), costruita sul duomo di Firenze. «Sul piano dell’audacia siamo agli stessi livelli», argomenta Tognetti. «Dal punto di vista costruttivo, un’analogia è costituita dal doppio strato di cui sono costituite. Nel caso della cupola del Brunelleschi, però, i due strati sono esattamente paralleli, come se avessero un distanziatore. Nel caso della cupola di Antonelli, invece, lo strato interno è a forma di cono e quello esterno a forma di calotta. Un’altra analogia è costituita dalle nervature usate da Antonelli, che hanno la stessa funzione dei costoloni in marmo di Brunelleschi». E le differenze? «Per cominciare, la cupola del Brunelleschi doveva essere autoportante, mentre a San Gaudenzio furono usate le impalcature», risponde Tognetti. «L’altra grande differenza è la verticalità. La cupola del Brunelleschi è slanciata verso l’alto per ragioni strutturali, altrimenti non sarebbe stata in piedi; ma l’architetto aveva in mente di realizzare un emisfero perfetto, perché nell’Umanesimo e nel Rinascimento la semisfera rappresentava la perfezione. Per Antonelli, come per Eiffel, invece, la verticalità è l’elemento dominante».

La vista dall'alto, quota 100 metri. In lontananza, si vedono i grattacieli di Milano e la Madonnina in cima al duomo.
La vista dall’alto, quota 100 metri. In lontananza, si vedono i grattacieli di Milano e la Madonnina in cima al duomo.

Vista con Madonnina

Siamo arrivati a cento metri di altezza. Proseguendo lentamente, la fatica non si sente nemmeno. Si pensa a guardare il panorama, a muoversi nelle architetture, a leggere i messaggi lasciati sulle pareti dai visitatori di tutte le generazioni che si sono susseguite. Il tratto finale si percorre agganciati con un moschettone a una corda fissa, precauzione che rende il tutto più eroico ma che appare perfino esagerata. Quando si arriva in cima, si notano un paio di scale a pioli che portano ancora più in alto, ma l’accesso è proibito e lì ci vuole davvero coraggio ad andare. Ci limitiamo ad affacciarci sulla balconata più alta e a guardare. Il vento è andato via e l’aria è limpida. Si vedono ancora una volta il Monviso, il Monte Rosa e, da qui, anche Milano con i suoi grattacieli e la madonnina in cima al duomo, che con i suoi 108,5 metri di altezza era all’epoca il punto più alto del capoluogo meneghino. Il Cristo Salvatore di Antonelli fu il primo, e per quasi un secolo anche l’unico, a guardarla dall’alto in basso.

Link e approfondimenti