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La chimera uomo-scimmia

Il 15 aprile 2021 la rivista Cell ha pubblicato i risultati di una ricerca condotta da scienziati statunitensi, cinesi e spagnoli – Chimeric contribution of human extended pluripotent stem cells to monkey embryos ex vivo – consistente nell’innesto di cellule staminali umane in tessuti embrionali di Macaca fascicularis, una varietà di macaco. Le cellule umane si sono integrate con successo, sia pure con la perdita di numerosi esemplari delle chimere (in analogia con la chimera del mito vengono così designate entità viventi costituite da cellule provenienti da due diverse specie) fino al ventesimo giorno quando, per scelta etica, gli embrioni ancora vitali sono stati distrutti per non farli sviluppare ulteriormente. Scopo della ricerca era gettare le basi per un possibile futuro utilizzo terapeutico di organi umani sviluppatisi in specie ospiti, da destinarsi al trapianto.

Il lavoro suscita non poche perplessità di ordine etico. La posizione più intransigente è quella di coloro che negano sempre e comunque la liceità di dare artificialmente origine a esseri viventi non esistenti in natura: “non si gioca a fare Dio”, asseriscono costoro. Non mi sentirei di condividere questa posizione. Dopotutto non c’è quasi frutto, sulla nostra tavola, che non nasca da una pianta innestata e il mulo affianca da secoli le attività dell’uomo senza che tutto ciò abbia mai sollevato proteste. Il problema nasce semmai quando le pratiche manipolatorie umane danno origine a esseri senzienti i quali, in conseguenza della modalità attraverso la quale sono giunti alla vita, sono destinati a sicura sofferenza. Ma questo è solo un caso particolare del più generale problema della sofferenza imposta all’animale per l’utilità dell’uomo, dove esiste un ventaglio amplissimo di posizioni, dalla più permissiva fino alla più rigorosa del vegano o del fedele jainista che respira attraverso una mascherina per evitare l’inalazione casuale di un moscerino.

Va infine considerata l’eventualità, per ora assai remota, della chimera con componente umana, dell’uomo-chimera per così dire, con sviluppate capacità cognitive e in grado, magari, di vivere a lungo: la maggior parte delle concezioni bioetiche, per non dire la totalità, sarebbe fermamente contraria alla produzione di individui del genere come già lo è per la molto più semplice clonazione umana.

Viaggio all’interno di un buco nero (Parte 2 – Scelta della destinazione)

Cominciamo, dunque, a individuare la meta del nostro viaggio. Una possibile domanda da porsi è la seguente: qual è il buco nero più vicino a noi? E quello che sarebbe più opportuno raggiungere? Rispondere non è facile, per svariate ragioni.

Dove andare?

Innanzitutto bisognerebbe decidere subito se puntare a un buco nero stellare o a uno gigante. I rappresentanti di quest’ultima categoria sono indubbiamente più facili da identificare: in prima approssimazione, ogni galassia ne ha uno. Inoltre, questi buchi neri sono molto voraci: ingurgitano enormi quantità di materia. E, poiché la materia (per lo più sotto forma di gas) che cade dentro un buco nero si scalda ed emette radiazioni, i buchi neri giganti sono anche quelli che danno più segni della loro presenza. Purtroppo, però, sono anche molto lontani. Il più vicino a noi, Sagittarius A*, che si trova al centro della nostra galassia, dista ben 26 mila anni luce dalla Terra. Questo vuol dire che, viaggiando alla velocità della luce o quasi, cioè il più celermente possibile, ci vorrebbero almeno 26 mila anni per arrivarci… Troppo? Lo scopriremo presto.

I buchi neri stellari sono più vicini. Ma è meglio puntare a un buco nero gigante

The Milky Way glitters brightly over ALMA
La Via Lattea sopra le antenne del radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), in Cile. Questo osservatorio fa parte della collaborazione Event Horizon Telescope, che ha effettuato la prima foto di un buco nero (ESO/B. Tafreshi, twanight.org).

I buchi neri stellari sono indubbiamente più vicini. Ma è molto più difficile identificarli. Infatti i buchi neri sono, per definizione, neri, ed è quindi praticamente impossibile distinguerli dallo sfondo del cielo se non in casi particolari. Infatti, questi mostri gargantueschi diventano visibili solo quando orbitano vicino a una stella compagna, della quale rubano e divorano i gas: il materiale risucchiato, accelerando, emette radiazione energetica che può essere rivelata dai nostri strumenti. Così sono state finora osservate alcune decine di buchi neri di questo tipo nella nostra galassia. Ma, contando le stelle che potrebbero produrli, si pensa che ce ne siano molti di più, almeno un migliaio. E il più vicino potrebbe trovarsi a poche centinaia di anni luce da noi… Dobbiamo preoccuparci? È forse possibile che un tale mostro cosmico si avvicini indisturbato alla Terra e ci inghiotta in men che si dica nelle sue inevitabili fauci? No, non dobbiamo temere: se davvero un buco nero si avvicinasse a noi, gli astronomi se ne accorgerebbero con largo anticipo a causa della sua influenza gravitazionale. Un buco nero in avvicinamento disturberebbe infatti l’orbita dei planetoidi e degli altri oggetti più esterni del Sistema solare, come Plutone e Sedna. In tal caso l’annuncio sarebbe dato da una pioggia di comete e asteroidi: un campanello d’allarme che suonerebbe come le trombe dell’apocalisse. Per fortuna, un’eventualità del genere è considerata piuttosto remota.

Se un buco nero si avvicinasse a noi, altererebbe le orbite di planetoidi e comete

CoverI Buco Nero
La cover dell’ebook “Viaggio all’interno di un buco nero”, da cui è tratto questo post.

Ma torniamo alla meta da stabilire per il nostro viaggio interstellare. Cioè al problema di determinare il buco nero al quale conviene puntare i nostri razzi. Il più vicino sulle nostre mappe si trova nel sistema stella HR 6819, ha la massa di circa sei volte quella del sole e si trova a mille anni luce da noi. Pur essendo il più vicino, non è certamente vicinissimo. Ma è sicuramente un buon candidato da considerare. Interessante per ragioni storiche e scientifiche è anche un buco nero di nome Cygnus X-1, che è stato uno dei più studiati. Si trova a 6 mila anni luce da noi nella costellazione del Cigno, ha una massa di circa 15 volte il sole e un orizzonte degli eventi con diametro di 26 km. Per dare un’idea delle dimensioni, un cerchio con lo stesso diametro sarebbe tutto compreso all’interno della Valle D’Aosta.

Anche Cygnus X-1 fa parte di una stella doppia, e non è un caso. Come già detto, infatti, con i telescopi tradizionali siamo in grado di identificare i buchi neri solo in queste situazioni. Questo non vuol dire che non ce ne siano di vagabondi e isolati, o di altre classi ancora. Semplicemente, non li possiamo vedere.

Alla fine, ora come ora, mentre leggiamo questo libro e fantastichiamo, dove ci conviene puntare la nostra astronave? Conviene percorrere seimila anni luce per raggiungere Cygnus X1 o 26 mila per arrivare a Sagittarius A*, nel centro della Galassia?

(Tratto dall’ebook Viaggio all’interno di un buco nero – continua)

Le leggi della rete

I numerosi articoli apparsi su Josway che parlano di ragnatele, ci obbligano a suggerire una loro esplorazione con lo sguardo matematico. Dobbiamo però evitare di impigliarci subito, come nella drammatica canzone della tartaruga e del reggilattine, anche se il rischio è alto. Sin dalla mattina, ascoltando il ribollire del vapore mentre percola attraverso lo strato di caffè della nostra moka, mentre scorriamo velocemente le risposte ricevute ai messaggi sui social network, per andare prima al sito che riporta gli ultimi dati sulla pandemia, non facciamo altro che districarci in una moltitudine di reti: quella dei percorsi del vapore tra le particelle di caffè, quelle sociali dei pettegolezzi, quella del contagio. E a nulla vale cercare di sfuggire, posando per un istante lo sguardo sulla foglia caduta sul terrazzo dal pioppo in giardino: i diagrammi di Voronoi delle sue venature ci richiamano alla mente la cyber-analisi del gol subito dalla nostra squadra nell’ultima partita. Non sembra più possibile riflettere sul mondo, senza fare i conti con la teoria delle reti. Ma come abbiamo potuto farne a meno prima d’ora?

Espresso
Un espresso: le molecole d’acqua percolano attraverso le polveri di caffé, seguendo percorsi che formano un’intricata rete (Foto di Janko Ferlic da Pexels).

Avrei voluto offrire un’agile guida alla sopravvivenza in rete, ma solo con questa breve introduzione ci siamo già terribilmente invischiati con i link, nella foresta incantata del World Wide Web, che è l’universo immateriale, o se mi si concede nuvoloso, nel quale crescono le ragnatele tessute dai nostri avatar. Non ci rimane che il gioco… matematico, si intende, per prendere con filosofia quest’ossessione e sciogliere qualche incantesimo.

Nodi, archi e grafi

Il concetto matematico di rete è il grafo. Un grafo costituito da nodi ed archi: gli incroci tra venature nella foglia di pioppo sono i nodi (o vertici), i tratti tra due nodi sono gli archi.

Problema 1: i ponti di Königsberg

Due sono i problemi famosi sui grafi. Il primo è noto come il Problema dei ponti di Königsberg, che si può formulare così: “Nella sua salutare passeggiata quotidiana, il filosofo Immanuel Kant può attraversare tutti i ponti della città una e una sola volta, prima di rientrare a casa?”. L’amico Eulero spiegò a Kant come ciò non sia possibile, perché tutti e quattro i rioni di Königsberg hanno un numero dispari di ponti. Se si inizia il percorso in un rione qualsiasi, non lo si può terminare nello stesso rione, perché i ponti che imbocchiamo in uscita devono essere tanti quanti quelli che imbocchiamo in entrata. Dunque non c’è un circuito chiuso che attraversi tutti i ponti una e una sola volta.

Problema 2: i colori delle regioni

L’altro problema riguarda la colorazione delle mappe: “Qual è il minimo numero di colori con i quali si possono tingere le regioni italiane in una cartina, senza che ci siano due regioni confinanti con lo stesso colore?”. Per “confinanti” intendiamo due regioni che si toccano per un tratto non costituito da un solo punto. Questo per mettere i proverbiali puntini sulle “i”, e i proverbiali (in inglese) taglietti sulle “t”. Per colpa dell’Umbria, sono necessari 4 colori, infatti la Toscana confina sia con il Lazio che con le Marche, e le Marche confinano con il Lazio. Ebbene, il fatto sorprendente è che bastano 4 colori, qualunque sia la frammentazione delle zone. Bastano 4 colori anche per colorare gli oltre ottomila comuni d’Italia, senza che due comuni confinanti abbiano lo stesso colore! Incidentalmente, faccio notare che la dimostrazione del fatto che bastano sempre solamente 4 colori è stato un problema aperto per molto tempo, e quando fu chiuso nella dimostrazione si fece un uso massiccio del computer per controllare un gran numero di casi. Ciò mise in crisi il concetto stesso di dimostrazione.

Foglia pioppo
Una foglia di pioppo. Le sue venature costituiscono un buon esempio di rete, che obbedisce a regole matematiche universali (Image by Hans Braxmeier from Pixabay).

Una regola universale

Voglio infine ricordare un’ulteriore proprietà, detta caratteristica di Eulero, che vale per tutte le reti piane, per quanto possano sembrare complesse.

Considerate la foglia di pioppo, è facile distinguere vertici, archi e regioni. I vertici – lo ricordiamo – sono gli incroci tra due venature. Gli archi sono i tratti di venature tra due incroci e le regioni sono le aree di foglia senza venature. Se considerate l’esterno della foglia come una regione, allora il numero delle regioni più quello degli spigoli è uguale a quello dei vertici più due: R+S=V+2. Sorpresi? Provate a verificarlo disegnando alcune reti a caso su un foglio.

Reti sociali

Oggigiorno, però, c’è una nuova specie di rete molto invasiva nella nostra quotidianità, la rete sociale. Nelle reti sociali, gli individui sono i nodi e un legame di amicizia tra due individui rappresenta un arco. La loro evoluzione è affascinante, poiché avvengono alcuni cambiamenti di fase come in chimica. Fino a quando la media degli amici di un nodo è minore di 1, il grafo è costituito da numerose componenti connesse di piccole dimensioni; ma, quando il numero medio di amici è superiore a 1, allora di solito compare un’unica componente connessa gigante. Adesso però non fatevi venire l’ansia se appartenete alla componente gigante della vostra rete sociale preferita.

I ricchi con i ricchi

Le reti sociali sono assortative, ovvero i nodi con tanti amici tendono a collegarsi agli altri che hanno tanti amici. Questa dinamica purtroppo induce all’emarginazione e alle disparità: i ricchi tendono a frequentare ricchi, i famosi i famosi. Non tutte le reti sono assortative, però. Per esempio, i collegamenti aerei non lo sono: le compagnie tendono a collegare gli hub con scali minori per assicurarsene il monopolio e ottenere così collegamenti più redditizi.

Sei gradi di parentela

Un’altra caratteristica sorprendente delle reti sociali è la cosiddetta Teoria del mondo piccolo, secondo la quale prendendo a caso due vertici c’è sempre un cammino abbastanza breve che li collega. È la teoria dei 6 gradi di parentela avanzata dallo psicologo sociale Stanley Milgram negli anni ’60. Comunque si prendano due persone al mondo, queste sono collegate da un cammino di conoscenze che ha al più una decina di nodi. Questo pensiero ci porta agli iperconnettori, ovvero agli super-spreader delle pandemie di Covid-19 e Aids. Provate a stabilire una catena che vi colleghi a me attraverso delle persone che si sono strette la mano almeno una volta nella loro vita.

Amicizia e paradossi

Amicizia
Anche le reti sociali, come quelle basate sull’amicizia e sui social network, seguono precise leggi matematiche (Foto di Elly Fairytale da Pexels).

Ma ancora più sconvolgente è il paradosso dell’amicizia, il cui insegnamento mi sembra importante anche sul piano psicologico: “È vero che, in una rete sociale in media, ho molti più amici dei miei amici?”. Molti ne sono convinti, ma ahimè si illudono. La verità è amara: in una rete sociale è vero l’opposto, e in media i miei amici hanno più amici di me. Tutto discende dal fatto, quasi ovvio, che è molto più facile essere connessi con nodi che hanno un alto numero di contatti, gli hub o super-spreader, piuttosto che con nodi isolati. In una rete sociale, la media del numero degli amici di un amico di una persona generica è maggiore della media dei suoi amici. Questo tipo di fenomeno, che si applica anche a reti non simmetriche, come quella dei follower, e a misure diverse come il numero di contenuti virali o la mole di attività, non deve però avvilirci troppo. Da un lato il risultato è dato in media; ma soprattutto, come dice il proverbio, mal comune mezzo gaudio.

Il paradosso dell’amicizia (schema di F. Honsell).

Il calcolo delle medie

La giustificazione matematica di questa proprietà dipende da come calcoliamo le medie. Chi volesse può provare a fare il conto su un grafo disegnato a caso. In quello tracciato in figura, per esempio, la media degli amici di un nodo è pari a  (2+1+2+3+4)/5=12/5=2,4. Mentre la media degli amici degli amici di un nodo è maggiore: ((4+3)/2+4/1+(4+3)/2+(2+4+2)/3+(2+1+2+3)/4)/5=3,1. E anche se usassimo la media pesata degli amici degli amici otterremmo un valore maggiore. Infatti in questa rete si vede facilmente che i nodi hanno in maggioranza meno amici della media dei loro amici (vale per A, B e C). Questo fatto non è vero in generale, anche se si verifica nelle reti sociali che hanno ampie variabilità tra il numero di collegamenti. Il punto è che la popolarità dipende da come la si conta, e non va mai confusa con la vera amicizia.

Rete elettrica Usa
La foto satellitare mette in evidenza la rete elettrica negli Stati Uniti (Photo by NASA on Unsplash).

Automi cellulari: il gioco della vita

Chiudiamo con un ultimo tipo di rete: un automa cellulare è costituito da un network di cellule, ciascuna collegata a un certo numero di cellule vicine. Ogni cellula si trova in uno stato, tra un numero finito di stati possibili, che può mutare ad ogni tic dell’orologio a seconda degli stati delle cellule vicine. L’automa cellulare più famoso è il gioco della vita del matematico inglese John Conway. La rete è una scacchiera di dimensioni qualsiasi e le cellule sono le caselle. Ogni casella è vicina a 8 caselle, perché si considerano vicine anche quelle in diagonale. Ogni casella può essere viva o morta. La dura legge della vita è la seguente: una casella viva con meno di 2 caselle vive vicine muore d’isolamento; una casella viva con 2 o 3 caselle vive vicine sopravvive alla generazione successiva; una casella viva con più di 3 caselle vive vicine muore per sovrappopolazione; una casella morta con esattamente 3 caselle vive vicine diventa una casella viva, ovvero nasce. Partendo da una configurazione qualsiasi di caselle vive, l’evoluzione della scacchiera, al succedersi delle generazioni, manifesta complessità sorprendenti. Di fatto, l’automa di Conway può simulare tute le evoluzioni possibili di un sistema complesso, compresa – se crediamo nel meccanicismo – la dinamica della mente umana.

Napoleone all’Isola d’Elba

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Dal 4 maggio 1814 al 26 febbraio 1815. Tanto è rimasto in esilio all’Isola d’Elba Napoleone Bonaparte, di cui quest’anno ricorre il bicentenario della morte (5 maggio 1821). Un mese prima era stato costretto ad abdicare, ormai sconfitto dagli eserciti di Austria, Inghilterra, Prussia e Russia. In cambio gli offrirono un micro-regno, il Principato dell’Isola d’Elba, creato ad hoc con il Trattato di Fontainebleau: “L’Isola d’Elba, scelta da Napoleone come luogo del suo soggiorno, formerà per tutta la sua vita un principato separato, da lui posseduto. Gli sarà data una rendita annuale di due milioni di franchi, da addebitare alle casse dello Stato francese”. Un esilio dorato sul conto della Restaurazione, non troppo lontano dalla sua Corsica. 

Grandi speranze

busto-napoleone
Il busto di Napoleone, attribuito al francese François Rude e conservato nella Palazzina dei Mulini, a Portoferraio (R.Ridi/Visitelba.info).

Ma Bonaparte non era tipo da dedicarsi soltanto agli amati scacchi o al giardinaggio. «Napoleone, con l’Elba, aveva voluto conservare un brandello di potere, una piccola isola dove gli fosse ancora possibile, sia pure in una misura quasi ridicola, esercitarlo» ha scritto lo storico Luigi Mascilli Migliorini nel suo libro 500 giorni (Laterza), dedicato agli anni tra i due esili.

E infatti si impegnò a realizzare le aspettative che gli elbani avevano affidato a un manifesto appeso nei giorni del suo sbarco: “Napoleone è arrivato fra noi. La felicità dell’isola è assicurata”. Dopo avere affrontato l’annoso problema dei cani randagi, imposto regole di igiene pubblica, rivisto la rete stradale e istituito una corte d’appello, cercò di rianimare l’economia locale. Per mantenere una corte degna di questo nome e un esercito personale di 1000 soldati, la rendita non bastava e Napoleone aveva bisogno di fare cassa. Ai ricavi delle miniere di Rio Marina aggiunse l’attività di una manifattura di vetro e ceramica e quella degli altiforni, facendo di Portoferraio un porto vivace come non era stato da molto tempo. Ma aumentò anche le tasse, provocando almeno un tentativo di rivolta sull’isola. Poi trasformò una chiesa sconsacrata nel Teatro dei Vigilanti di Portoferraio, mettendo in vendita i 65 palchi per finanziare i lavori. Nelle campagne tentò senza successo di avviare l’industria della seta e tentò persino di colonizzare la vicina Pianosa; non aveva perso il suo istinto espansionista.

Vini Doc

Del territorio elbano l’imperatore si era già occupato cinque anni prima, nel 1809, quando era padrone di mezza Europa. Elisa Bonaparte, sua sorella e granduchessa di Toscana, aveva ricevuto una supplica dai notabili elbani: bisognava fare qualcosa per sostenere il comparto vitivinicolo dell’isola. Elisa ottenne dal fratello il Privilegio dell’imperatore, un documento ritrovato negli Archivi storici dell’Isola d’Elba. Il Privilegio aboliva per i vini elbani le tasse di pedaggio e consentiva la libera esportazione verso le coste italiane dei vini isolani corredati di certificato di origine. In pratica, Bonaparte aveva istituito la prima Denominazione di origine controllata elbana (si dice che tra i vitigni locali lui preferisse l’Aleatico).

Itinerario nella storia

 Camera da letto della Villa di San Martino, a Portoferraio (R.Ridi/Visitelba.info).
Camera da letto della Villa di San Martino, a Portoferraio (R.Ridi/Visitelba.info).

Ancora oggi l’empereur dà il suo contributo all’economia isolana, oggi prevalentemente turistica, grazie ai luoghi storici del suo esilio. A cominciare dalla Palazzina dei Mulini, la residenza ufficiale. Costruita a inizio Settecento nel punto più elevato di Portoferraio, dove un tempo si alzavano i mulini a vento del nome, la palazzina è in stile neoclassico, ma fu totalmente ristrutturata dal nuovo proprietario. L’architetto Paolo Bargigli ridisegnò un grande salone delle feste e gli appartamenti per la seconda moglie, Maria Luisa d’Austria, che però non ci mise mai piede. Qui erano invece di casa Paolina e Maria Letizia Ramolino, la madre, che raggiunse i figli con un passaporto falso.

Oltre a quadri e armi originali, la casa-museo ospita la biblioteca di Napoleone, con oltre 2300 volumi. Ma la stanza preferita dall’imperatore doveva essere quella con l’amata vasca da bagno in marmo: un luogo ideale per progettare la fuga con i fedelissimi, lontano da orecchie indiscrete.

Il lato privato

L’altro polo del tour napoleonico elbano è la residenza di campagna di Villa San Martino, a 5 km da Portoferraio. Qui oggi ci sono una galleria egizia e la collezione di stampe napoleoniche. La villa fu ristrutturata nel 1851 dal principe russo Davidov, che l’aveva ereditata. La sensuale Paolina avrebbe fatto da modella per la statua di Galatea che si trova qui.

La spiaggia della Paolina, dedicata alla sorella di Napoleone (R.Ridi/Visitelba.info).
La spiaggia della Paolina, dedicata alla sorella di Napoleone (R.Ridi/Visitelba.info).

L’eremo della Madonna del Monte, infine, fu il nido d’amore di Napoleone e Maria Walewska, sua amante che lo raggiunse all’Elba a settembre con il loro figlio, mai riconosciuto dal padre naturale. A proposito di controversie: se capitate a Portoferraio intorno al 5 maggio, potreste assistere alla messa in suffragio di Napoleone, nella Cattedrale della Misericordia. Una celebrazione che ha suscitato in anni recenti più di una protesta.

Parentesi chiusa

Duecentonovantotto giorni dopo lo sbarco all’Elba, Napoleone chiuse la parentesi del suo primo esilio. Il motto del principato era Ubicumque felix: “Felice ovunque”. Ma evidentemente a Parigi lo era di più. Così, la notte tra il 26 e il 27 febbraio 1815, dopo una festa-diversivo in maschera organizzata da Paolina, Napoleone salpò verso i suoi ultimi cento giorni di gloria, chiusi con il disastro di Waterloo e il secondo esilio. Questa volta, su un’isola da cui era impossibile fuggire: Sant’Elena.

Link e approfondimenti

• La poesia Il cinque maggio, di Alessandro Manzoni.
• Il sito sito www.visitelba.info
• A piedi o in mountain bike: 400 km di percorsi outdoor elbani  
• La Federazione Europea delle Città Napoleoniche e la Route Napoleon 

L’avventura di Perseverance su Marte: audio, video e foto a 360°

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Atterraggio Perseverance
L’atterraggio di Perseverance su Marte (NASA/JPL-Caltech). In apertura, il video del primo volo di Ingenuity (NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS).

Nei giorni scorsi il rover Perseverance della Nasa è arrivato su Marte, e ha iniziato la sua esplorazione alla ricerca di dati geologici e di tracce di vita.

“È la prima volta che una sonda è capace di riprendersi mentre atterra su un altro pianeta”

Un video ripreso dalla sonda mentre atterrava documenta le fasi più critiche del viaggio, cioè i sette minuti che precedono l’atterraggio (NASA/JPL-Caltech).

È il momento dell’impatto con l’atmosfera, che scalda lo scudo termico fino a 1.300 °C, e poi dell’apertura del paracadute, fino all’impatto con il suolo. “È la prima volta che siamo stati capaci di vedere noi stessi – cioè di vedere la nostra sonda – atterrare sulla superficie di un altro pianeta”, ha commentato Matt Wallace, vice project manager della missione al Jet Propulsion Laboratory (JPL) di Pasadena, in California.

Il luogo di atterraggio, e i primi suoni

Landing Perseverance
Il puntino verde al centro è il luogo di atterraggio di Perseverance, ripreso dalla sonda Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa (NASA/JPL-Caltech/University of Arizona).

Il luogo in cui si è posato il rover (foto a sinistra) è il cratere Jezero, che si pensa ospitasse anticamente il delta di un fiume e un lago. Lì Perseverance si muoverà sulle sue sei ruote (v. modello 3D più in basso), ed effettuerà le sue analisi con il suo braccio robotico.

Dopo l’arrivo, il rover si è messo in azione. Ha registrato un audio (NASA/JPL-Caltech), con il microfono di bordo, nel quale per alcuni secondi si può ascoltare il fruscio del vento marziano (in questa versione, si ascolta l’audio originario, che include i suoni emessi dallo stesso rover).

Questi sono i primi suoni registrati sul Pianeta Rosso.

Foto e modelli 3D

Perseverance ha anche scattato una serie di fotografie dell’ambiente circostante con la sua coppia di telecamere Mastcam-Z. Alcune di queste immagini sono state composte per realizzare una visuale a 360° (NASA/JPL-Caltech).

In questa panoramica, in particolare, ci sono 142 immagini individuali scattate dal rover (qui sotto, un modello 3D, NASA/JPL-Caltech) nel terzo giorno marziano e ricomposte.

Ingegnoso!

Insieme a Perseverance ha viaggiato Ingenuity, un drone-elicottero il cui scopo è semplicemente quello di dimostratore tecnologico. Nessun mezzo, infatti, ha finora voltato nella rarefatta atmosfera marziana, che ha una pressione inferiore all’1% di quella terrestre. Per gli ingegneri è stata una vera e propria sfida. Da qui il nome, Ingenuity, che in inglese vuol dire “ingegnosità” (video NASA/JPL-Caltech).

Proprio nel giorno di Pasqua, il 4 aprile, Ingenuity viene posato al suolo, pronto per la sua avventura.

Il 19 aprile, dopo qualche ritardo dovuti a problemi con il software di controllo, finalmente Ingenuity ha eseguito il suo volo di prova, sollevandosi di circa tre metri in verticale sul suolo marziano. Si è trattato del primo volo a propulsione, controllato, su un altro pianeta, ed è stato documentato da un foto in bianco e nero e da un video.

Ingenuity
La prima immagine di Ingenuity in volo sopra il suolo marziano: ha fotografato la sua ombra (NASA/JPL-Caltech).

«Non sappiamo esattamente dove Ingenuity ci porterà, ma i risultati di oggi indicano che il cielo, almeno su Marte, non sarà il limite», ha commentato Steve Jurczyk, amministratore della Nasa.

Nei giorni successivi, Ingenuty ha continuato a volare. Fino a quando, il 27 aprile, ha ricambiato il favore al “fratello” Perseverance, fotografandolo dall’alto.

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Perseverance fotografato da Ingenuity, da circa 85 metri di distanza. Nella foto, si vede anche il luogo dell’atterraggio (NASA/JPL-Caltech).

Ossigeno fatto in casa

Nel frattempo, il 21 aprile, Perseverance ha effettuato un altro esperimento a titolo dimostrativo. Ha creato ossigeno a partire dall’anidride carbonica, per mezzo di uno strumento detto MOXIE (Mars Oxygen In-Situ Resource Utilization Experiment, v. schema sotto).

La quantità prodotta al primo tentativo è stata modesta, appena 5 grammi, quanto basterebbe a un astronauta per 10 minuti. Ma è pur sempre un primo passo importante verso l’obiettivo di portare l’uomo sul Pianeta Rosso. MOXIE, comunque, è progettato per generare fino a 10 grammi di ossigeno all’ora.

Per saperne di più
• Il sito della Nasa dedicato all’esplorazione marziana.
• Il sito della Nasa dedicato a Perseverance.
Il primo volo di Ingenuity e la registrazione della diretta.
• Il blog di Andrea Bernagozzi su Josway.