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Il bianco più bianco che c’è. Per salvare il pianeta

Come combattere il riscaldamento globale e le sue conseguenze? Da oggi abbiamo un’arma in più: una vernice bianca, la più bianca che c’è. Parola di Xiulin Ruan, il docente di ingegneria meccanica alla Purdue University (Usa) che l’ha sviluppata.

Nero più nero

Negli anni passati, molti sforzi sono stati dedicati alla ricerca di materiali capaci di assorbire la luce in modo estremo, per realizzare il nero più nero che si possa immaginare. E sono stati creati materiali a base di nanotubi di carbonio come il Vantablack, capace di assorbire il 99,96% della luce visibile, che più recentemente è stato superato da un altro materiale simile ma 10 volte più nero (assorbe il 99,995% della luce), sviluppato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston.

yellow_and_black_redemption
Un diamante prima e dopo la copertura di uno strato del materiale più nero esistente. È un’opera – The Redemption of Vanity – dell’artista tedesca Diemut Strebe (D. Strebe).

Bianco più bianco

Il bianco ha la proprietà opposta del nero: invece di assorbire la luce, la riflette in tutte le direzioni (a differenza di uno specchio, che riflette in una sola direzione). Ora Xiulin Ruan ha sviluppato la vernice più bianca mai vista, in grado di riflettere il 98,1% della luce solare, contro l’80-90% al massimo delle vernici più bianche che si trovano normalmente in commercio.

Coleottero nanotech

Un bianco così estremo è superiore a qualsiasi bianco che si trovi in natura, compreso il notevole scarabeo asiatico del genere Cyphochilus studiato dal fisico Pete Vukusic dell’Università di Exeter, in Gran Bretagna, che deve il suo candore – superiore a quello del latte o dei denti – alla struttura microscopica delle sue scaglie, formate da minuscoli filamenti di chitina distribuiti casualmente, e che resta una fonte di ispirazione per gli scienziati.

 

Cyphochilus
Scarabeo del genere Cyphochilus a confronto di un nuovo materiale ultra bianco a base di polistirene nanostrutturato, sviluppato da centri di ricerca italiani e cinesi nel 2019.

Chimica e struttura

Il segreto del candore record scoperto da Xiulin Ruan è il solfato di bario, un composto usato anche per rendere bianca la carta fotografica e i cosmetici. Le particelle di solfato di bario riflettono colori diversi a seconda delle loro dimensioni; per questo i ricercatori hanno creato particelle con un’ampia gamma di dimensioni diverse, in modo da disperdere lo spettro luminoso nel modo più ampio possibile, senza privilegiare un colore rispetto a un altro. Così facendo, aumenta un parametro chiamato riflettanza: «Ogni 1% di riflettanza guadagnata si trasforma in 10 watt per metro quadrato di calore in meno assorbito dal sole», commenta Ruan.

Bariumsulfat
Polveri di solfato di bario (Wikipedia).

Meglio dell’aria condizionata

Infatti la nuova vernice non è solo ultra bianca, riflette anche i raggi infrarossi. Dunque il calore. Ed è qui che arrivano le applicazioni più interessanti. Rivestendo una superficie di test con la vernice, i ricercatori sono riusciti ad abbassarne la temperatura – sia di giorno sia di notte – anche di 10 °C rispetto all’ambiente circostante, cosa che le vernici bianche tradizionali non riescono a fare. «Usando questa vernice per coprire un tetto con una superficie di circa 92 metri quadrati, stimiamo che si potrebbe ottenere una potenza di raffreddamento di 10 kilowatt. Meglio degli impianti di aria condizionata utilizzati dalla maggior parte delle case», ha affermato Ruan.

Da Ostuni a New York

D’altra parte, si sa, il bianco è un colore molto usato nei Paesi più caldi, dalla Puglia (si pensi a Ostuni) alla Grecia. Recentemente, nella modernissima New York, per ottenere lo stesso risultato sono stati rivestiti di bianco circa 1 milione di metri quadrati di tetti nell’ambito dell’iniziativa CoolRoofs. Per certi aspetti, si possono vedere queste iniziative anche come attività utili a compensare la diminuzione di un fenomeno naturale che è l’albedo, cioè la riflessione di energia solare da parte della superficie terrestre nel suo complesso. Poiché la superficie dei ghiacciai è andata diminuendo nel corso degli ultimi decenni, è diminuito anche l’albedo, accelerando il fenomeno del riscaldamento globale.

 

Mykonos
Strada di Mykonos (A. Parlangeli).

Per tentativi

La ricerca guidata da Ruan, pubblicata sulla rivista ACS Applied Materials & Interfaces, è il risultato di sei anni di studio su oltre 100 materiali diversi. Su 10 di questi sono state testate circa 50 formulazioni diverse per ciascun materiale. Una vernice bianca che in precedenza aveva superato un primo record era a base di carbonato di calcio, un composto che si trova comunemente nelle rocce e nelle conchiglie.

I ricercatori Xiulin Ruan (a sinistra) e Joseph Peoples confrontano le performance di campioni di bianco su una terrazza (Foto Purdue University/Jared Pike).

Davvero bianco

«Abbiamo esaminato vari prodotti commerciali, praticamente tutto ciò che è bianco», ha detto Xiangyu Li, un altro ricercatore, ora al MIT, che ha lavorato al progetto. «Abbiamo scoperto che usando il solfato di bario, puoi teoricamente rendere le cose davvero, davvero riflettenti, il che significa che sono davvero, davvero bianche».

 

Link e approfondimenti

• Il comunicato stampa della scoperta di Xiulin Ruan.
• Un articolo del New York Times sui tetti dipinti di bianco.
• L’iniziativa CoolRoofs a New York.
• Gli studi di Pete Vukusic all’Università di Exeter.
• Uno studio più recente sulle proprietà fisiche dello scarafaggio bianco dell’Istituto nazionale di ottica del Cnr (Ino-Cnr), del Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare (Lens) dell’Università di Firenze e dell’Università di Cambridge (pubblicato su Science Reports).
• Un nuovo materiale ultra bianco a base di polistirene nanostrutturato, sviluppato da centri di ricerca italiani e cinesi.
• Un’altra vernice bianca, biocompatibile, ispirato allo scarabeo e sviluppato di recente all’Università di Cambridge e all’Università Aalto in Finalndia.
• Un confronto video tra bianco e nero estremi.

Il coro muto della Via Lattea

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Un brano musicale che dà vita ai dati delle onde gravitazionali è stato presentato al Festival della Scienza di Genova. Chiamato Einstein’s Sonata (“La Sonata di Einstein“), il lavoro si basa su simulazioni di doppie nane bianche (stelle alla fine della loro vita).

Le onde gravitazionali furono predette per la prima volta da Albert Einstein. Sebbene finora questi segnali siano stati rilevati solo dall’universo distante, gli astronomi sono certi che ci siano molte sorgenti di onde gravitazionali nella nostra galassia prodotte da nane bianche che orbitano l’una intorno all’altra.

Valeriya Korol
Valeriya Korol, University of Birmingham Institute for Gravitational Wave Astronomy (Foto Samantha Stella).

Valeriya Korol, dell’Istituto per l’astronomia delle onde gravitazionali dell’Università di Birmingham (Uk), ha creato una mappa simulata di queste doppie nane bianche galattiche per una ricerca scientifica condotta nell’ambito della preparazione per la missione spaziale LISA prevista dall’Agenzia spaziale europea per il 2034. Questa simulazione ha costituito la base della Sonata di Einstein ed è stata trasposta in una composizione per pianoforte utilizzando software e algoritmi dedicati.

La musica è stata scritta dal compositore e ricercatore Andrea Valle dell’Università di Torino ed è stata eseguita dal pianista Luca Ieracitano. L’artista Samantha Stella, che ha la direzione artistica del progetto, ha creato un’interpretazione visiva  ispirata alla scena iniziale del film Drowning by Numbers di Peter Greenaway. Nelle scene iniziali del film, una giovane ragazza parla di contare le stelle, vestita con un abito che ricorda l’opera Las Meninas del pittore barocco spagnolo Diego Velazquez.

«La scoperta delle prime onde gravitazionali nel 2015 ha catturato l’immaginazione del mondo e l’ha mantenuta da allora», afferma Valeriya Korol. «Nella Sonata di Einstein ci sforziamo di portare dimensioni extra alla complessa scienza delle onde gravitazionali, di reinterpretare e immaginare le origini del nostro universo e di ispirare il pubblico in un modo completamente nuovo».

Link e approfondimenti
Il sito dell’artista, Samantha Stella.
Il comunicato dell’Università di Birmingham, da cui è tratto questo post.
Un articolo sulla performance al Festival della Scienza di Genova.

Il turista matematico (prologo)

Il turismo matematico è un esercizio dello sguardo e dell’incanto, un’idea che si è molto sviluppata negli ultimi anni. Sono stati scritti libri, articoli, racconti. Ci sono travel blogger che ci portano a scoprire storie di scienza e di scienziati. Ci sono “matematici in città” che preparano visite giornaliere a Napoli, a Firenze, a Milano. 

Non saprei dire esattamente che cosa sia il turismo matematico, ma tutti concordano sul fatto che si tratti di un ottimo esercizio del pensiero e dello sguardo. Nel praticarlo, si può essere più rigidi e guardare solo l’urbanistica o i monumenti o le immagini che nascono ispirati dalla matematica, come la città di Palmanova in Friuli, Castel del Monte, molte grafiche di Escher. Ma anche un quadro di Dalì si comprende meglio se si conoscono i poliedri regolari. 

Iran (A. Parlangeli).

Se in aggiunta crediamo che la matematica sia parte del nostro ingegno, allora è naturale pensare che questa spesso nasca nelle opere d’arte senza che chi le ha generate si sia posto l’intento di utilizzarla. Il turista matematico inizia a scoprire frattali nella città di Matera e numeri costruibili nei rosoni romanici, per non dire delle spirali disseminate in una miriade di dipinti, dai volti rinascimentali alle notti di Van Gogh. Possono persino assalirci dubbi sulla casualità o la scelta di una tecnica come il dripping di Pollock, a cui si possono associare numeri. 

Il rosone della basilica di San Francesco ad Assisi (Image by WikiImages from Pixabay).

C’è però il linguaggio stesso di chi visita un luogo che si arricchisce di quell’elenco di forme che la geometria ha per secoli cercato di classificare e che tuttora si amplia. Si possono descrivere i dettagli di un pavimento elencando tassellazioni, immaginare l’infinito sotto un colonnato gotico, portare l’attenzione sul locale e il globale di un dipinto con tecnica di puntinismo. Ogni luogo può in qualche modo riportare una idea matematica, basta ad esempio che ci sia una superficie di rotazione, quindi un vaso o una bottiglia o un portafrutta di design a forma di paraboloide. 

Palmanova
Vista Aerea di Palmanova (foto Comune di Palmanova).

Sicuramente ciascuna delle declinazioni di turismo matematico è vincente da un punto di vista didattico e va usato sia dal docente di matematica che da quello di arte. Ma anche chi non deve più essere interrogato è affascinato da questo rinnovato modo di raccontare l’arte e la matematica, perché mentre prepara un viaggio allena lo sguardo al dettaglio e ne apprende il nome, collezionando parole affascinanti come leminscata e trattrice, dodecaedro ed esaustione. All’arrivo nel luogo sarà proprio la lettura matematica a mostrargli che complessità di ciò che ci meraviglia richiede attenzione e dà un piacere anche razionale che nulla toglie all’emozione.

Vetrata in Iran (A. Parlangeli).

Il moltiplicarsi di questi racconti ha portato vantaggi sia al turismo che alla matematica. 

Le guide turistiche hanno sperimentato laboratori scientifici e i musei associato ai reperti gadget geometrici. Viceversa, testi di matematica hanno interrotto l’elenco di formule con foto di forme artistiche. L’idea ha trovato un’ottima accoglienza di pubblico, poiché lascia al viaggiatore la libertà di andare nello stesso luogo e fare un’altra descrizione geometrica completamente diversa. Cantor diceva che “l’essenza della matematica è la sua libertà”, il turista matematico libera insieme matematica e parola cercando l’essenza della bellezza. 

(Prossima puntata, il Salento)

Iran (A. Parlangeli).

Letture e approfondimenti

• Sandra Lucente, Itinerari Matematici in Puglia, Giazira Scritture (2016).

• Sandra Lucente, Itinerari Matematici in Basilicata, Giazira Scritture (2019).

• Silvia Benvenuti, Dodici passeggiate alla scoperta delle curiosità matematiche della Toscana, Mateinitaly (2021).

Sull’origine del Covid

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Si riaccende il dibattito sull’origine della pandemia di Covid-19.

L’origine in Cina

Secondo un rapporto pubblicato nel marzo 2021 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e dalla Cina, il primo caso noto di contagio da SARS-Cov-2 riguarda un contabile di nome Chen che non era stato al mercato di Wuhan e che aveva sviluppato i sintomi l’8 dicembre 2019.

Secondo uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Science, invece, il primo caso documentato è quello di una donna di nome Wei Guixian, venditrice al mercato degli animali, che ha riportato i sintomi l’11 dicembre (mentre il signor Chen li avrebbe in realtà sviluppati il 16 dicembre). A sostenere questa tesi è Michael Worobey dell’Università dell’Arizona, uno dei massimi esperti del settore. Worobey è convinto che l’epidemia sia nata nel mercato Huanan di Wuhan: «In questa città di 11 milioni di persone, metà dei primi casi sono legati a un luogo che ha le dimensioni di un campo da calcio», ha affermato. «È molto difficile spiegare questo fatto se non ammettendo che la pandemia sia iniziata lì». Lo studio mette in evidenza diverse incongruenze nel rapporto dell’Oms. Ma la questione resta aperta, anche perché i dati disponibili non sembrano sufficienti a dirimerla. L’unica certezza è che il mercato del pesce di Wuhan è stato un luogo di superdiffusione, probabilmente il primo.

L’origine in Europa

Un altro studio, basato su modelli matematici e pubblicato sulla rivista Nature a fine ottobre, cerca di fare luce, invece, sull’origine della pandemia in Europa e negli Stati Uniti. In questo caso, la trasmissione potrebbe essere iniziata in modo consolidato già nel gennaio 2020 in alcune aree. Come sappiamo, la diffusione è poi avvenuta sottotraccia, a causa della limitata capacità di identificare e testare i casi sospetti: si stima che all’inizio di marzo sia stato rilevato solo l’1-3% circa delle infezioni. Più precisamente, circa 9 infezioni su mille sarebbero state rilevate negli Stati Uniti e 35 su mille in Europa. È probabile che la trasmissione sia iniziata verso la fine di gennaio in California e all’inizio di febbraio nello Stato di New York; e forse fino a due settimane prima in Italia (non si può escludere di arrivare fino a dicembre 2019, ma la probabilità è molto piccola).

L’origine in Italia

Questi risultati sono coerenti con un altro studio, preliminare, effettuato su 800 donatori di sangue del Policlinico di Milano tra il 24 febbraio e l’8 aprile 2020. In questo caso era stato osservato che, nell’ultima settimana di febbraio, il 4,6% dei donatori ­– cioè 1 su 20 – aveva già sviluppato anticorpi contro il nuovo coronavirus. A inizio aprile, si era passati al 7,1%, e a fasce di età più elevate.

Prima tra i giovani, poi la tragedia

In questo caso, il campione esaminato era significativo, ma costituito da soggetti particolarmente sani (non solo asintomatici, ma insospettabili) di età compresa tra 18 e 65 anni. Dunque il virus, in Italia, nelle prime fasi si è diffuso quasi del tutto sottotraccia, inizialmente soprattutto tra i giovani. Quando sono stati identificati i primi casi, già migliaia di persone erano state contagiate. Molte erano asintomatiche o presentavano sintomi lievi. Poi, però, il virus ha raggiunto le fasce più deboli della popolazione e gli ospedali, e le cose sono andate come purtroppo sappiamo.

 

Link e approfondimenti

• Il recente articolo di Science sull’origine della pandemia in Cina (in inglese).
L’articolo del New York Times che ha ripreso la notizia.
• Il rapporto dell’Oms del marzo 2021.
L’articolo di Nature sull’origine della pandemia in Europa e negli Usa, di un gruppo guidato dall’italiano Alessandro Vespignani della Northeastern University di Boston (Usa). Vi hanno contributo la Fondazione ISI di Torino e la Fondazione Bruno Kessler di Trento.
Lo studio, senza peer review, sui donatori di sangue condotto da Daniele Prati e Luca Valenti del Policlinico di Milano, in collaborazione con l’Ospedale Luigi Sacco, l’Istituto Europeo di Oncologia e l’Università degli Studi di Milano. E un articolo di Focus.it sull’argomento.

 

Grandi patriarchi 8. L’avo degli olivi

Olivastro di Luras

Età stimata: oltre 3000 anni
Olivastro (Olea europaea Linné var. sylvestris, Miller, Brot.)
Comune: Luras (SS), San Baltolu
Circonferenza del tronco: 13 m. Altezza: 14 m.

Questo autentico monumento della natura si trova in località San Baltolu, nel comune di Luras, presso il Lago di Liscia, vicino alla piccola chiesa di San Bartolomeo. La località si raggiunge da Calangianus (Ss), centro noto per la produzione di sughero. La pianta, conosciuta con il nome dialettale di “S’Ozzastru”, è considerata millenaria, ma la datazione precisa dell’età degli olivi rimane comunque assai problematica: questa specie infatti non produce con regolarità i caratteristici anelli annuali e le varie tecniche di indagine possono solo consentire stime più o meno attendibili. Ricerche effettuate dall’Università di Parigi attribuiscono a questo albero un’età di circa 3.800 anni, mentre secondo lo studio effettuato dal Dr. Franco Tassi, con la collaborazione di Mauro Aresu, che si è avvalso di innovative tecniche di dendrocronologia (radioestesia), l’età rilevata sarebbe di 3.340 anni. La pianta è un esemplare selvatico e produce frutti (olive) molto piccoli e inadatti alla produzione di olio di qualità. A breve distanza vegeta un’altra pianta selvatica monumentale, ritenuta un po’ più “giovane”, ma anch’essa millenaria. Vista la non idoneità alla produzione di olio alimentare, questi alberi sarebbero stati mantenuti fin dall’antichità, e lasciati al loro spontaneo sviluppo, per consentire l’ombreggiamento delle greggi, essendo la zona da secoli dedita alla pastorizia. L’olivo è il simbolo della pace, creato da Minerva e posto come emblema sull’elmo della dea bellicosa, ma anche saggia. Inoltre, l’olivo cingeva il capo dei sacerdoti di Giove e degli ambasciatori che portavano notizie di pace. A questa pianta di grande longevità viene attribuito anche il simbolo di vittoria, ricompensa, forza e purificazione.

(Articolo tratto dalla mostra “Patriarchi della natura – Alberi straordinari d’Italia”. Ideata e curata da Fondazione Bracco e Associazione Patriarchi della Natura, e ospitata da Triennale Milano dal 14 luglio al 22 agosto 2021, la mostra fotografica – a ingresso libero – propone un itinerario da Nord a Sud nell’Italia più verde, alla scoperta di stupefacenti opere d’arte naturali: alberi secolari o millenari, testimoni della nostra storia)

Link e approfondimenti
• Il catalogo della mostra.