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Che cos’è un numero? (Parte 1)

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Condividiamo la capacità di contare con scimpanzé, ma anche con piccioni e topi – così almeno vengono interpretati gli esperimenti di zoopsicologia cognitiva descritti da Stanislas Dehaene. Ma che cos’è un numero? E che cosa qualifica un aggettivo numerale come “tre” nella frase “Ci sono tre alberi fioriti in giardino”?

Oggetti e insiemi

Il fatto che la risposta non sia così immediata ha provocato molti paralogismi nella storia della filosofia sin dal medioevo. Sant’Anselmo era convinto di poter dimostrare addirittura l’esistenza di Dio solamente dal fatto di poter concepire Id quo nihil maius cogitari nequit (ciò di cui non si può pensare nulla di più grande). Il suo ragionamento era questo: poiché riusciamo a concepire tale ente perfettissimo allora tale ente non potrebbe non essere, perché altrimenti non sarebbe perfettissimo. Quindi Dio esiste. Fino a quando Kant non fece uscire la mosca da questa trappola linguistica, per dirla con Wittgenstein, non fu chiaro che l’esistenza di un oggetto, o più in generale il numero di volte che tale oggetto compare, non è un predicato dell’oggetto stesso, bensì del nostro universo del discorso, ovvero dell’insieme di oggetti di cui stiamo parlando. Se ci sono tre alberi fioriti in giardino, tre non è una proprietà degli alberi, ma semmai del giardino, anche se grammaticalmente l’aggettivo tre qualifica gli alberi esattamente come fioriti”.

Da Kant in poi, su questo punto c’è piena concordanza; l’esistenza e più in generale il numero, non sono una proprietà di un oggetto, ma di un insieme.

Gli insiemi sono le cose?

Sembrerebbe quasi di aver fatto un passo indietro però; volevamo definire cos’è un numero e ci ritroviamo a dover spiegare cosa sono gli insiemi. Ma questo non deve stupire: da oltre un secolo, gli insiemi sono la roccia su cui si fonda la matematica. Piccola parentesi: il filosofo-drammaturgo e attivista politico maoista francese Alain Badiou, in L’Être et l’Événement (1988), ha mostrato come ci si possa addirittura fondare sopra l’ontologia (cioè ciò che è). Anzi, per Badious, la teoria degli insiemi è l’ontologia.

Autoinclusivi

Un insieme viene generalmente definito come una collezione di oggetti, detti i suoi elementi; tra i quali possono esserci anche altri insiemi. Il mio esempio preferito è “l’insieme di tutte le cose alla quali ho pensato oggi” (da notare come questo insieme appartenga a se stesso, e proprio per questo spesso venga scartato. Incidentalmente, circa 40 anni fa, sono stato tra i primi a riscattare gli “insiemi malfondati” – come si chiama questa tipologia – che oggi hanno un ruolo importante nell’informatica teorica).

La matematica, un abisso costruito sul vuoto

Anche se può sembrare un po’ circolare, prima ancora di dover dire che cos’è un insieme ne abbiamo già davanti al naso uno: l’insieme vuoto, denotato ∅.

Cantor
George Cantor, padre della moderna concezione matematica di infinito (Photocolorization, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons).

I logici del ’900 hanno mostrato che tutto l’edificio della matematica si può costruire sull’insieme vuoto reiterando un numero sufficiente di volte, anche infinito, alcune operazioni apparentemente banali, tra cui quella che dà come risultato tutti i sottoinsiemi di un insieme dato. Ogni oggetto matematico, quindi, può essere visto come un insieme, i cui elementi eventualmente sono degli insiemi, i cui elementi eventualmente sono degli insiemi ecc… E tutte queste catene di appartenenze, se terminano, terminano sull’insieme vuoto. Forse fu questa visione che spinse il padre della moderna Teoria degli Insiemi Georg Cantor (1845-1918) a rispondere alla domanda su che cosa fosse per lui un insieme, con la frase un po’ misteriosa: Eine menge stelle ich mir vor wie einen Abgrund (“Mi raffiguro un insieme come un abisso”). Almeno così racconta la matematica Emmy Noether (1882-1935) nel libro Wandlungen des mathematischen Denkens: Eine Einführung in die Grundlagenprobleme der Mathematik di Herbert Meschkowski del 1956.

Un numero è un insieme

Dunque, se ogni cosa (come dice Badiou) si può vedere come un insieme ottenuto a partire dal vuoto, alla domanda “Che cos’è un numero?” possiamo rispondere che un numero è un insieme.

Una nuova definizione

Per Bertrand Russell, i numeri erano le classi di tutti gli insiemi che avevano lo stesso numero di elementi. Ovviamente, per non avere un regresso all’infinito, definì la relazione “avere lo stesso numero” tra due insiemi come una corrispondenza biunivoca tra i loro elementi. Così, per Russell, il numero 1 è la classe di tutti i singoletti, ovvero degli insiemi che contengono un unico elemento. Il 2 è la classe di tutte le coppie, ecc. Ma queste sono collezioni troppo grandi e proprio il paradosso scoperto da Russell stesso rende la cosa alla lunga impraticabile.

Una definizione migliore

Il prodigio matematico John von Neumann, quando agli inizi del XX secolo si occupò anche di insiemi, quindi, scelse per rappresentare i numeri un ben preciso rappresentante di ciascuna di queste classi di Russell. Lo zero è rappresentato da ∅. Gli altri numeri sono 1={∅}, 2={0,1} e così via. L’operazione per ottenere il numero successivo consiste nell’aggiungere all’insieme di numeri costruito fino a un certo punto, proprio tale insieme come nuovo elemento, ovvero n+1={0,… , n}=nU{n}. Se poi raccogliamo tutti gli insiemi così costruiti, ripetendo questa operazione all’infinito, arriviamo al più piccolo ordinale infinito ω={0,… , n,… }.

Avanti, senza ritegno

E adesso possiamo andare oltre, con ω+1=ωU{ω}, ω+2=ω+1U{ω+1}… senza più alcun ritegno… ω^ω (e poi altri ordini di infinito come ℵ₀, 2^ℵ₀, ℵ₁ ℶ₁ ecc.). Questi insiemi si chiamano numeri ordinali di von Neumann. Soddisfano la proprietà che comunque se ne prenda un insieme ne troviamo sempre un minimo che gli appartiene. Purtroppo sugli ordinali infiniti non si riescono a definire tutte le operazioni, ma ben presto vedremo come ciò si può fare immergendoli in un contesto più vasto.

Dai numeri naturali agli interi

Se ci restringiamo invece ai numeri ordinali finiti, questi rappresentano i numeri naturali che ci sono familiari dalle elementari, ovvero sin da quando non ci eravamo ancora chiesti che cosa fossero i numeri. Premettendo  un segno ai naturali si ottiene una classe di numeri più grande, gli interi, su cui poter eseguire le operazioni di somma e sottrazione.

Le tabelline servono a memorizzare alcune proprietà dei numeri naturali (Photo by Gayatri Malhotra on Unsplash).
Le tabelline servono a memorizzare alcune proprietà dei numeri naturali (Photo by Gayatri Malhotra on Unsplash).

E poi i numeri razionali, reali, immaginari…

Prendendo poi coppie di interi, otteniamo i numeri razionali su cui possiamo definire prodotto e reciproco. Già i Greci avevano scoperto però che le distanze non sono rappresentabili tutte da numeri tra loro commensurabili e quindi sono necessari i numeri reali. Nella teoria degli insiemi, questi ultimi sono definiti per approssimazione, come coppie di insiemi di numeri razionali: quello dei numeri più grandi e quello dei numeri più piccoli del numero che si vuole approssimare. Le star tra i reali sono √2 e π, ma ce ne sono infinitamente tanti altri.

Rotazioni nel piano e nello spazio

I numeri reali si possono pensare anche come punti su una retta e come distanze rispetto all’origine, dove c’è lo zero…. Ma perché fermarsi alle distanze e non rappresentare anche le rotazioni in un piano? Così, in modo un po’ anfibio, con motivazioni sia algebriche che geometriche, arriviamo ai numeri complessi, la cui star è √-1, chiamato i, ovvero immaginario. Sebbene impensabile, fu comunque pensato dai matematici italiani del XVI secolo Cardano, Tartaglia e Bombelli. La moltiplicazione per i corrisponde a una rotazione di 90° in senso antiorario. Hamilton nell’800 andò oltre e introdusse i quaternioni, che permettono di descrivere le rotazioni nello spazio.

Infinitamente piccoli

Tra i vari tipi di numeri, non ho ancora parlato degli infinitesimi, ovvero quei numeri strettamente positivi che sono più piccoli di qualsiasi numero razionale positivo. Il problema è che non sono mai stati veramente caratterizzati in modo rigoroso fino a quando negli anni ’50 del secolo scorso venne introdotta l’analisi non-standard da Abraham Robinson e altri. Gli infinitesimi erano stati però usati con maestria agli albori del calcolo infinitesimale e integrale proprio da Leibniz e prima di lui, in un metodo per calcolare aree e volumi, da Archimede, che li chiamò indivisibili, e da Bonaventura Cavalieri (1598-1647). La difficoltà di non commettere errori aveva però portato agli inizi dell’800 a fondare il calcolo infinitesimale su “gli epsilon e i delta” come li chiamano gli studenti di matematica di tutto il mondo da allora.

E poi…

Esistono numeri che includono i reali, gli infiniti e gli infinitesimi, e quindi consentono anche di effettuare operazioni aritmetiche tra loro. Sono i numeri surreali, e sono l’argomento del prossimo articolo.

Un pranzo ad Amatrice

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Oggi ho deciso di andare a pranzo ad Amatrice, per un piatto come si deve di spaghetti all’amatriciana. Non li mangio mai, perché l’amatriciana è un sugo troppo carico per i miei gusti. E poi non ho mai capito bene la ricetta; anzi, ho sempre avuto la sensazione che fosse uno dei sughi più contraffatti al mondo. “Eh, ma come la fanno ad Amatrice…” mi sono sentito dire più volte. Per capire davvero, non mi restava che una possibilità: andare proprio lì. 

Parto alle 9:00 da Fabriano, ho tutto il tempo che mi serve. Il navigatore indica 2:30 di viaggio, per 130 km di strada. Faccio in tempo a passare anche da qualche altro borgo. Opto per Camerino. Ed è una brutta sorpresa: la città è ancora tutta chiusa per ragioni di sicurezza, dopo il sisma del 2016. Il centro storico è zona rossa, non si può accedere. E a controllare trovo in una piazzetta un presidio dell’esercito. Risultato: perdo più di un’ora, non vedo nulla e non riesco a prendere neanche un caffè perché è tutto chiuso.

Camerino
Camerino, Piazza Cavour (A. Parlangeli 2021).

Mi rimetto in marcia e da qui in poi è uno strazio continuo. Case puntellate con il legno, macerie, ogni tanto si apre uno squarcio in qualche muro. Nemmeno un bar per fermarsi a prendere un caffè. L’occhio cade su uno striscione: “Benvenuti nel dimenticatoio d’Italia”.

Su uno striscione c’è scritto: “Benvenuti nel dimenticatoio d’Italia”

I problemi si acuiscono nella verde Valnerina. Qui ogni tanto si incontra una casa sventrata, con le piastrelle di quello che era un bagno che ora affacciano sulla strada. Mi sento a disagio. Come se, semplicemente guardano, stessi violando la privacy di una famiglia. Ed è tutto così, fresco, come se fossero passati solo pochi giorni invece di cinque anni.

Valnerina
Una casa sventrata in Valnerina (A. Parlangeli, 2021).

Si vedono anche le case prefabbricate, per gli sfollati dalla tragedia. A prima vista, sono come nuove. Tutte ordinate in fila, ciascuna con i suoi pannelli solari e un contenitore per l’acqua calda sul tetto. Viene però da chiedersi come viva la gente lì, quale sia la realtà oltre l’apparenza: quanta superficie avrà a disposizione ogni abitante? Quanta privacy? Come si saranno modificati i rapporti tra concittadini? E poi oggi è un’afosa giornata di giugno: che temperatura ci sarà in quelle abitazioni? Ci sarà l’aria condizionata?

Castelsantangelo sul Nera
Castelsantangelo sul Nera (A. Parlangeli, 2021).

Le domande restano senza risposta. Fino a Castelsantangelo sul Nera, un piccolo borgo che resta impresso per le mura difensive della sua fortezza, che tracciano un triangolo del bosco, alle pendici della montagna. Da lì è tutta una salita fino all’altopiano di Castelluccio; che adesso, a fine giugno, è nel pieno della fioritura con tutto il suo ventaglio di colori. La natura, a differenza delle città, cancella le tracce dei terremoti, cosicché l’altopiano disabitato è una piacevole pausa ai drammi dell’umanità.

Castelluccio
I campi fioriti di Castelluccio (A. Parlangeli, 2021).

Ma poi giù, oltre il passo, lo strazio ricomincia. Il primo centro che si trova, una frazione di Arquata del Tronto, è un cumulo di macerie. La chiesa, che tra le sue mura ospita più buchi che mattoni, non si capisce come riesca a stare in piedi. Nel passare, si ha il timore che lo spostamento d’aria la faccia crollare definitivamente da un momento all’altro.

Arquata del Tronto
Il campo di casette provvisorie ad Arquata del Tronto (A. Parlangeli, 2021).

Sulla Via Salaria c’è ancora un ostacolo: un’interminabile serie di lavori che costringono a muoversi a senso unico alternato. E, alla fine, ecco i primi cartelli che indicano Amatrice. Ci sono molti carabinieri, alcuni hanno fretta e mostrano insofferenza. Poi militari, polizia… un dispiegamento di forze senza senso per un’anonima giornata estiva come questa. Il passaggio attraverso quello che una volta era il centro è impressionante. La città non c’è più, c’è solo una via tra le macerie in cui il visitatore è tollerato, più che accolto, ospitato. E dove non ci si può fermare, né camminare.

Amatrice
La strada tra i detriti del centro storico ad Amatrice. È consentito solo il transito su una vettura (A. Parlangeli, 2021).

Tutto è esattamente come era cinque anni fa. I militari non hanno lasciato spazio ai muratori, e c’è da chiedersi per quanto tempo rimarranno ancora là. Ho la sensazione di violare un divieto, mi sento tollerato più che accolto, e siccome della situazione non ho ancora capito niente mi fermo per cercare un ristorante con il navigatore, anche se ormai di mangiare non ho più voglia. Mi rendo allora conto che la città è divisa in zone. C’è la solita area residenziale, con le casette tutte uguali. E poi c’è un’area commerciale, e una destinata alla ristorazione, con tutte le strutture disposte attorno a uno spazio centrale e una scuola alberghiera. Nonostante tutto, c’è una bella atmosfera qui, e anche un bel panorama. “Area del gusto, della tradizione e della solidarietà”, l’hanno chiamata. C’è gente che gira, altri che si ritrovano e parlano, altri che mangiano. Molti sono del posto. Mi fermo in un ristorante a caso. È l’una in punto. Eccola qui, l’Amatriciana della mia vita. Ed è davvero un’altra cosa rispetto a ogni altra che ho mangiato finora. Il gestore prova a convincermi che non è niente di complicato, e mi spiega perché. In un attimo, mi rivela la ricetta. Ma nemmeno lo sto ad ascoltare, tanto so già che un’amatriciana così non la mangerò mai più, se non quando tornerò la prossima volta, chissà quando.

Area del gusto
L'”Area del gusto, della tradizione e della solidarietà”, che ospita i ristoranti della città (A. Parlangeli, 2021).

Dopo anni, C’è Ancora un enorme dispiegamento di forze dell’ordine… A che serve?

Intanto la conversazione scivola su altro, e le tante domande accumulate cercano una risposta… Come si sta in quelle case? “Danno molti problemi. Spesso si allagano con le piogge, con il gelo si rompono le tubature e i serbatoi d’acqua”. Eppure a vederle sembrano belle. “Sì, ma sono costate 4 mila euro a metro quadro e sono provvisorie. Vediamo molti sprechi, e questo non ci piace”. Queste strutture in cui siete però sono belle davvero, si sta bene. “Queste sì. Le ha costruite l’architetto Stefano Boeri, che ha seguito i lavori con attenzione. C’è anche una scuola realizzata dalla Ferrari e dedicata a Sergio Marchionne. Quello che hanno fatto i privati funziona. Quello che ha fatto lo Stato no”. C’è molta polizia in giro, a che serve? “All’inizio era utile, per evitare lo sciacallaggio”. Ora sarebbe forse meglio concentrarsi sulla ricostruzione, ma a questo non sembra credere nessuno.

Campanile
Un campanile ad Amatrice (A. Parlangeli, 2021).

Sono già le tre, ed è ora di ripartire. Il gestore mi ringrazia con affetto. Se fosse per me, questa sera stessa tornerei nello stesso posto a cena. Ma devo rimettermi in marcia sotto il sole rovente, e ripercorrere tutto il percorso in senso inverso. Fino a quel punto in cui non c’erano né carabinieri, né centri commerciali, né altro. Ma solo un cartello: “Benvenuti nel dimenticatoio d’Italia”.

 

Grandi patriarchi 1. L’albero asse del mondo

Il frassino di Pont-Sec

Età stimata: superiore a 300 anni
Frassino maggiore (Fraxinus excelsior Linné)
Comune: Gressoney-Saint-Jean (AO), località Pont-Sec
Circonferenza del tronco: 5,86 m. Altezza: 22 m.

Questo grande frassino si trova in località Pont-Sec raggiungibile per la strada regionale n° 44 della Val di Gressoney, oltre le località di Gaby e Pont de Trenta. La pianta si trova presso un gruppo di case costruite nel caratteristico stile Walser. La lunga storia di Gressoney è infatti legata alla comunità Walser (Walliser = vallese), di origini germaniche, che qui si insediò secoli fa e che ha mantenuto le proprie tradizioni e il proprio dialetto. Secondo la tradizione Walser, questa specie è carica di simbologia: prima che l’uomo comparisse sulla terra, un albero immenso di frassino si innalzava al cielo, era l’asse dell’universo e attraeva i tre mondi. Le sue radici affondavano fino agli abissi, i suoi rami toccavano le stelle. L’acqua assorbita dalla terra era la sua linfa vitale. Per molti popoli questo era l’albero “cosmico” che rappresentava il tentativo della vita terrena, del sapere umano, di raggiungere la perfezione e l’infinito.

(Articolo tratto dalla mostra “Patriarchi della natura – Alberi straordinari d’Italia”. Ideata e curata da Fondazione Bracco e Associazione Patriarchi della Natura, e ospitata da Triennale Milano dal 14 luglio al 22 agosto 2021, la mostra fotografica – a ingresso libero – propone un itinerario da Nord a Sud nell’Italia più verde, alla scoperta di stupefacenti opere d’arte naturali: alberi secolari o millenari, testimoni della nostra storia)

Link e approfondimenti
• Il catalogo della mostra.

L’arte fa bene, e vi spiego perché

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Gli scienziati lo hanno chiamato “effetto Michelangelo”: la vista dei grandi capolavori del passato può potenziare le nostre capacità motorie e intellettive, e avere perfino un effetto terapeutico. Ce ne parla Marco Iosa, professore alla Sapienza Università di Roma e responsabile del Laboratorio per lo Studio della Mente e dell’Azione nella Riabilitazione Tecnologica (SmArt Lab) presso l’IRCCS Fondazione Santa Lucia. Marco Iosa è uno degli autori di uno studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, che ha messo in luce il fenomeno mostrando – nello specifico – che le opere artistiche aiutano i pazienti con una lesione del sistema nervoso causata da un ictus a eseguire esercizi di neuroriabilitazione in un ambiente virtuale. 

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L’esperimento, con la Creazione di Adamo di Michelangelo. Il disco grigio è comandato dall’operatore (M. Iosa).

Che cos’è l’“effetto Michelangelo”, e perché si chiama così?

Nell’esperimento abbiamo visto che le prestazioni dei pazienti, in presenza di uno stimolo artistico, miglioravano. Per il nome ci siamo fatti ispirare dall’“effetto Mozart”, che è già noto nella musicoterapia e consiste nel fatto che, quando si ascoltano le opere di Mozart o di altri compositori, le performance cognitive migliorano. Quando abbiamo notato un effetto analogo per le arti visive, abbiamo pensato di chiamarlo “effetto Michelangelo”, un po’ perché una delle scene che abbiamo fatto vedere ai nostri pazienti era la Creazione di Adamo dell’artista aretino; un po’ perché da italiani ci piaceva dare il nome di un artista italiano.

In che cosa consisteva l’esperimento, più esattamente?

Traiettorie paziente2
Analisi dei percorsi effettutati con il cursore (M. Iosa).

Il nostro studio riguardava pazienti affetti da ictus, che dovevano recuperare le proprie capacità motorie. Con l’aiuto della realtà virtuale, è stato chiesto loro di muovere un cursore su una tela digitale che avevano di fronte, utilizzando la mano del lato del corpo colpito. I movimenti sulla tela avevano lo scopo cancellare un velo bianco sotto il quale si celava un dipinto.

I pazienti erano divisi in due gruppi. Per quelli di un gruppo, sotto il velo bianco si celava un capolavoro come la Creazione di Adamo di Michelangelo, la Venere di Botticelli o i Tre Musicisti di Picasso. Per quelli dell’altro gruppo, sotto lo stesso velo bianco si celava un quadro analogo dal punto di vista cromatico, ma con i colori mischiati tra loro in modo da essere irriconoscibile. Quello che abbiamo visto è che i pazienti del primo gruppo percepivano meno fatica nel compito (anche se la tela era la stessa, così come i movimenti richiesti), commettevano meno errori motori (per esempio uscire dal piano del quadro) ed erano molto più motivati. L’effetto era particolarmente pronunciato proprio per la Creazione di Adamo di Michelangelo.

Chi aveva nell’esperimento aveva a che fare con un’opera d’arte, commetteva meno errori ed era più motivato

Avete osservato anche l’attività cerebrale delle persone coinvolte nell’esperimento?

No, questo non l’abbiamo fatto. Ci sono però alcuni studi che lo hanno fatto in precedenza, in particolare quelli di Vittorio Gallese dell’Università di Parma. Questi studi hanno ampiamente analizzato che cosa succede al nostro cervello quando osserviamo un’opera d’arte, scoprendo che c’è una forte attivazione anche delle aree motorie. È un risultato sorprendente, perché l’osservazione in sé non richiede movimento, e quindi ci si potrebbe aspettare che si attivi solo il sistema visivo. Ma una scena dipinta ha la capacità di stimolare i neuroni specchio che si attivano anche quando si vede un’azione, più quello che in gergo si chiama un ampio arousal cerebrale, cioè un’attivazione anche di altre aree. Di fronte a una scultura, per esempio, si attivano sia l’amigdala (che pare ci fornisca un senso di bellezza soggettiva) sia l’insula (che corrisponderebbe invece a una sorta di bellezza oggettiva). Ci siamo ispirati a questi studi per cercare di renderli utili ai pazienti che a causa di un ictus hanno subito un danno nell’area motoria.

Come pensate di proseguire con la ricerca?

Vermeer
Un’altra fase dell’esperimento (M. Iosa).

Vogliamo aumentare innanzitutto il numero di pazienti studiati, per avere una statistica più significativa. Poi vogliamo usare anche altre immagini fortemente emotive, per esempio quelle dei familiari dei pazienti, perché questo ci permetterà di distinguere se l’effetto sia dovuto per esempio all’empatia, oppure se riguardi esclusivamente l’arte. D’altra parte, nemmeno l’effetto Mozart è efficace allo stesso modo per tutti. A noi interessa capire, appunto, che cosa è più efficace per ciascuno, in modo da consentire il miglior recupero possibile.

Tornando all’effetto Mozart, sulla sua efficacia ci sono molte discussioni. Serve veramente?

Le performance dei soggetti in generale possono dipendere da molteplici fattori e da come vengono presentati gli stimoli. Quindi ci sono studi che portano in una direzione, e studi che portano in un’altra. Di certo qualcosa c’è, nel senso che sicuramente c’è un effetto sulle prestazioni nel momento in cui ascoltiamo un brano musicale, che può essere di Mozart o di un altro autore. Noi, per esempio, in passato abbiamo fatto uno studio in cui a pazienti con il Parkinson facevamo sentire diversi tipi di musica, dalla classica al rock. E a seconda del tipo di musica e del paziente, le prestazioni cambiavano. Per un paziente poteva andare bene la musica classica, per l’altro era meglio il rock. Alla domanda “La musica ha un effetto?”, la risposta sarebbe stata “Dipende”. Però sicuramente un effetto c’è.

 

Link e approfondimenti

• Il link all’articolo orginale.
• Due servizi televisivi (Tg2 e Tg5) sull’effetto Michelangelo.

 

La Scala che porta al cielo

Il Santuario della Scala Santa a Roma, noto a ogni pellegrino, è un luogo ricco di religiosità e dedizione, ma anche di arte e di spettacolare bellezza.

Il complesso comprende tre scalinate, una chiesa e la cappella papale.

Cenni storici

Secondo la tradizione cristiana, questa è la scala salita da Gesù prima della sua condanna, trasportata a Roma dal pretorio di Pilato in Gerusalemme. Fu poi fatta collocare davanti al Sancta Sanctorum, la cappella privata dei papi situata proprio dinanzi alla Basilica di San Giovanni in Laterano, la mater et caput di tutte le chiese di Roma e del mondo. Si dice che i ventotto gradini che la compongono furono deposti cominciando dall’alto, perché non fossero calpestati dai piedi degli operai.

Il santuario

La scala centrale è riservata alla salita dei pellegrini in ginocchio, secondo tradizione, mentre le altre due consentono di raggiungere la parte superiore senza disturbare i devoti. Tutto il complesso è ricco di marmi e affreschi tornati alla luce grazie anche ai recenti restauri. Al piano superiore si trova una chiesa, ma soprattutto la già citata cappella Sancta Sanctorum, che prende il nome dalla parte più sacra del Tempio di Gerusalemme, dove era custodita l’Arca dell’Alleanza. In poco spazio si trova letteralmente un accumulo di tesori, frutto dei vari abbellimenti avvenuti nel tempo, quasi in una gara tra i vari pontefici: dopotutto questo è stato l’oratorio dei papi sino al Rinascimento.

Sancta Sanctorum
Il Sancta Sanctorum (G. Scozzafava).

Come se non bastasse, in prossimità dell’altare papale troviamo un vero e proprio tesoro di inestimabile valore, composto di reliquie di pregiati materiali. Il tutto racchiuso da due meravigliosi sportelli di bronzo. Sempre all’interno della cappella, varcando le colonne che ci separano dalla zona dell’altare, è possibile ammirare un mosaico che riesce a farsi notare pur in mezzo a tanta bellezza. 

Link e approfondimenti

• Il sito ufficiale della Scala Santa.
• Un video dell’autore nel Sancta Sanctorum, pubblicato su Instagram (visibile anche senza registrazione).
• Un video con l’inaugurazione della Scala Santa dopo un recente restauro (2019).
• La Scala Santa è anche uno dei luoghi de La Grande Bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, oggi meta di tour turistici dedicati.