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Invito i manager in un monastero zen, e vi spiego perché

Luciano Traquandi
Luciano Traquandi, docente all’Università Carlo Cattaneo di Castellanza e alla School of Management del Politecnico di Milano.

Per i loro dipendenti e per i loro clienti sono professioniste e professionisti impeccabili, a volte impettiti, spesso dinamici, qualcuno autoritario, qualcuno autorevole. Ma quando varcano quella soglia qualcosa cambia: lasciano le scarpe – e la quotidianità da cui provengono ­– per proiettarsi in un mondo di cui spesso non hanno un’idea chiara, anche se già questa disponibilità in sé è parte del cambiamento di cui sono i protagonisti. Sono manager, dirigenti, imprenditori che Luciano Traquandi, docente di Psico-Sociologia Aziendale all’Università Carlo Cattaneo di Castellanza (Va) e di Comportamento Organizzativo alla POLIMI Graduate School of Management di Milano, porta con sé ormai da molti anni in un monastero zen in provincia di Parma, Fudenji, per vivere un’esperienza destinata a lasciare il segno. Gli abbiamo chiesto di parlarcene.

Che cos’hanno i manager da imparare in un monastero buddista di tradizione giapponese?

Chiariamo subito una cosa: questo posto in sé non è un modello per un manager. Cioè non è pensato per fornire qualcosa, come pratiche e strategie, di cui fruire immediatamente. Quindi un manager che va a Fudenji deve superare la soglia del “Vado e imparo”. Lo spirito giusto è quello di gratuità: “Vado, mi affido e aspetto l’ispirazione, o ancora meglio non mi aspetto nulla”. È una logica immersiva: si entra in un’esperienza, in una comunità che ha una sua natura, una sua tradizione, una sua solidità, e la si vive dimenticando la propria identità professionale. È l’incontro con questo spirito di gratuità che è fondamentale, insieme a un altro fattore, l’alterità, che qui è dovunque, in pratica in tutto, perché i tempi sono diversi, i ritmi sono diversi, i luoghi sono diversi, le regole sono diverse, le persone non sono quelle che incontro tutti i giorni. In poche parole, è un grande incontro con l’altro da me.

Un’esperienza di questo tipo è adatta a tutti? Oppure c’è una selezione?

Non è un’esperienza adatta a tutti; ma non è questione di scegliere, è questione di scegliersi. Alcune aziende mandano i propri dipendenti, perché ci va il leader e quindi inesorabilmente lo segue la sua prima linea. In questi casi, alcuni partecipanti sono più entusiasti, altri più refrattari; ed è normale che sia così, perché manca una vera scelta. La cosa migliore è che i partecipanti si autoselezionino; ma a parte questo l’esperienza è adatta a tutti, dal giovane neoassunto al professionista che trova assolutamente interessante rivedersi e ripensarsi a fine carriera, e anche fuori dal mondo del lavoro.

Fudenji pasto
Il rito del pasto (Photo courtesy Fudenji).

Quali sono i risultati? Ci sono effetti dimostrabili dell’efficacia dell’iniziativa?

Sì, su questo abbiamo quindici anni di esperienza. Abbiamo cominciato nel 2008 io e mia moglie, Patrizia Castellucci, e abbiamo avuto molti riscontri positivi. Quello che in genere succede è che, dopo una permanenza anche breve in monastero (almeno due notti), c’è un aumento della propria sensibilità. Cioè si notano cose, dettagli, comportamenti che prima non si vedevano, nel turbine degli impegni e stimoli quotidiani. Chi fa questa esperienza coglie in anticipo sfumature che prima avvertiva quando diventavano grandi, misurabili, quando intervenire è costoso. Questa capacità di cogliere segnali deboli è qualcosa che resta, insieme a una flessibilità sia fisica sia mentale (ottenute attraverso la meditazione, i riti, le prosternazioni). Dopo il passaggio dal monastero, le persone pensano in modi nuovi. Questo binomio sensibilità/flessibilità è un risultato che si ottiene anche in tempi brevi, con qualche giorno (e notte) di permanenza

Un’altra conseguenza che abbiamo osservato è l’importazione dei riti. Alcuni partecipanti lo hanno fatto a livello familiare, per esempio ritrovando il piacere di mangiare in casa tutti insieme, oppure lasciando le scarpe all’ingresso, come fanno i monaci. Altri lo hanno fatto sul lavoro, dove quello che abbiamo visto è una maggiore attenzione dei responsabili ai riti dei dipendenti, per esempio quello del caffè e le quattro chiacchiere del lunedì mattina o del venerdì sera, inizialmente percepiti come un fastidio, poi rispettati. Qualcuno ha cominciato a meditare, ritagliandosi uno spazio proprio in momenti tranquilli, garantiti, incorporando nella propria vita questo momento per sé come aiuto alla resilienza nei momenti difficili e come stimolo creativo nei momenti di innovazione.

C’è un esempio particolarmente significativo che si potrebbe citare?

In genere non si verifica niente di vistoso, non sono cambiamenti radicali ma sottili. Però sono socialmente percepiti. Cioè li percepiscono i familiari, i colleghi, i collaboratori, i clienti. Una volta capitò un manager, ingegnere, che andava spesso in Giappone e già conosceva la lingua e le regole di comportamento giapponesi; ma dopo essere stato a Fudenji per una classica esperienza di tre giorni riferì che i suoi contatti in Giappone avevano percepito qualcosa che rendeva più fluida la loro relazione.

Fudenji tè
Il rito del tè (Photo courtesy Fudenji).

Che cosa ha di specifico l’esperienza svolta in questo particolare monastero?

Fudenji si fonda su una tradizione solida, quella giapponese, molto severa, elegante, essenziale Gli ingredienti fondamentali della vita monastica sono due: la meditazione (zazen) e i riti. Il rito più impegnativo è quello del pasto. Il pasto rituale è infatti un momento topico della loro giornata nelle cosiddette “sesshin” (ritiri), che i monaci svolgono con grande rigore e precisione, sia da parte del servitore, sia da parte di chi consuma il pasto. Chi serve, è altrettanto importante di chi viene servito: a differenza di quello che avviene nel nostro mondo, che è focalizzato sul cliente, customer first.

Lei ha citato lo zazen. Che cos’è?

Lo zazen è la meditazione seduta. Il termine deriva, appunto da za (seduto) e zen. Ci si siede, si imposta il corpo e si imposta la mente. Questo è il punto di partenza. Ma è anche un punto d’arrivo, ciascuno trova la sua via. Lo zazen è una pratica meditativa dello zen. Ci sono esempi di chi pratica lo zen facendo una lezione di fisica teorica, altri lo ottengono suonando un tamburo (la pratica del taiko). Non bisogna pensarci troppo, è qualcosa che arriva da solo.

È una risposta molto bella, in realtà: trovi lo zazen nel momento in cui non lo cerchi…

Siccome non lo cerchi ti trova lui. Cioè, in qualche modo succede il contrario. Ti siedi in zazen perché ti saresti comunque seduto e potrebbe darsi che succeda qualcosa che non stai cercando. Perché se la cerchi, se la progetti, se la organizzi, se la pianifichi, allora diventa una “tecnica”, il tentativo spesso deludente di prendere il controllo di un accadimento che deve, appunto accadere.

L’organizzazione interna dei monaci è di tipo gerarchico. Anche questo può essere una fonte di ispirazione per le aziende?

L’organizzazione dei monaci in sé non è un modello adottabile da un’organizzazione. Loro stessi, in qualche modo, cercano ispirazione nel mondo esterno. Tuttavia, hanno qualcosa di speciale, che non è tanto nella struttura. È nel vissuto. Prenderei come esempio il concetto di oryoki, una parola giapponese che indica, fra le altre cose, la ciotola del pasto rituale. In giapponese, oryoki vuol dire “quanto basta”, Tutto è oryoki: la forza con cui si pulisce la superficie laccata della ciotola, il tempo in cui si lascia la zuppa sul fuoco… tutto deve essere improntato all’intercettare questo “quanto basta”, che non è uguale per tutti. E non è uguale tutti i giorni. È qualcosa che appartiene a quella situazione. Il conseguimento del giusto equilibrio è ciò che può insegnarci qualcosa.

C’è anche una componente collettiva che sembra importante.

È un mondo “corale”. Ed è questa l’importanza del rito, altrimenti diventa una performance meccanica. In qualche modo, lo schema organizzativo è questo: guardati intorno, dov’è l’altro? L’altro è avanti? Accelera. L’altro è indietro? Rallenta. Quindi l’obiettivo è quello di non pensare alla propria performance, ma a quella collettiva, anche tenendo conto di chi non è presente. La recitazione del mattino, prima della colazione, è emblematica: si ringrazia per questo chicco di riso che diecimila mani hanno seminato, coltivato, raccolto, cotto, servito e mangiato. C’è un’attenzione a tutte quelle mani che non vedrai mai. Si potrebbe semplicemente prendere una scatola di riso, cuocerlo e servirlo senza pensarci.

Alla fine, per un manager, questo è anche un modo completamente diverso di vedere la supply chain.

Certamente. Nella rete globale del commercio, la supply chain è costituita da aziende che acquistano un pezzo da un’altra azienda, lo lavorano, lo trasformano e poi lo vendono a un’altra. Ciascun attore pretende la qualità di ciò che riceve e garantisce quella di ciò che vende, cercando la massima efficienza; ma il rapporto si esaurisce con la transazione economica. La logica di Fudenji è diversa: tu azienda non hai solo la responsabilità che il tuo pezzo sia ben fatto, ma porti il frutto di tutte le mani che hanno lavorato su quel pezzo, non dimenticarlo. E a questo punto il pezzo prende anima. La spiritualità è quest’anima che arriva alle cose non tanto perché sono sante o benedette, ma perché tu le hai rese sante. Tu l’hai santificato perché hai pensato ciò che la preghiera recita di un chicco di riso: pensa a quante mani l’hanno seminato, l’hanno fatto crescere, l’hanno raccolto, l’hanno pulito, l’hanno trattato, l’hanno portato qui e l’hanno cucinato. Fudenji è un posto dove non ci sono santi, c’è la santificazione.

Link e approfondimenti

• Il sito del monastero Fudenji.

• Il nuovo corso di Luciano Tranquandi e di Patrizia Castellucci, SPEM Spiritualità e Management, alla POLIMI Graduate School of Management.

La scienza delle reti 3: come cresce un network

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Abbiamo visto nel precedente articolo che reti diverse hanno non solo numeri molto diversi di nodi, ma anche nodi molto diversi tra loro, come nel caso dei profili Twitter che possono avere decine di milioni di nodi o nessuno. I ricercatori che studiano le reti però non si accontentano di descrivere l’eterogeneità del grado dei nodi di una rete: cercano anche di spiegarla.

Molto a pochi

Ovviamente non ci sarebbe ragione di aspettarci che tutti i profili Twitter abbiano lo stesso numero di follower, così come se convochiamo in una stanza un certo numero di persone non abbiamo motivo di aspettarci che siano tutte ugualmente alte. Quello che vorremmo spiegare è però come mai esistano (molti) profili milioni di volte più seguiti di (moltissimi) altri. Non può essere solo un caso: o, meglio, può esserci ovviamente di mezzo il caso, ma vogliamo capire come il caso possa portare a differenze così estreme.

Perché?

Una risposta semplice – troppo – sarebbe che le persone scelgono liberamente quali account Twitter seguire, mentre i genitori non scelgono l’altezza dei propri figli. Tuttavia, immaginiamo di studiare un migliaio di persone che entrano in un centro commerciale: se scoprissimo che tutti si concentrano in un paio di negozi, considerando poco o nulla gli altri, non ci accontenteremmo di concludere “l’hanno scelto”. Da scienziati sociali, vorremmo capire perché tendano a fare tutti le stesse scelte. E questo problema riguarda non solo Twitter, ma anche la rete delle pagine web e varie altre reti sociali.

Vantaggi cumulati

Una possibile spiegazione fu data nel 1976 da Derek de Solla Price, un fisico che, appassionatosi di quella che sarà in seguito chiamata scientometria, cioè lo studio di quanto e come gli scienziati pubblicano le loro ricerche, si dedicò in particolare alla comprensione della rete delle citazioni tra articoli scientifici. Cercando di spiegare come mai alcuni articoli scientifici attraessero molte più citazioni di altri – cioè avessero un grado in entrata maggiore – Price suggerì il meccanismo del vantaggi cumulati. In pratica, ogni volta che un articolo è citato da un altro, questo fa sì che altri ricercatori (quelli che leggono l’altro articolo) vengono a conoscenza della pubblicazione originaria, magari leggendola e poi citandola. Quindi più un articolo ha archi in entrata – citazioni – più tenderà ad accumularne.

Effetto Matteo

Già un altro ricercatore, Robert K. Merton, aveva ipotizzato nel 1968 che nelle scienze fosse all’opera un “Matthew effect” (dal passaggio del Vangelo di Matteo “A chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”) per cui, in sintesi, i ricercatori già più famosi hanno più facilità a diffondere ulteriormente le loro idee e quindi affermarsi ulteriormente, rispetto a quelli più sconosciuti. De Solla Price ebbe il merito di trasformare questa intuizione in una regola matematica rigorosa che spiegasse la specifica distribuzione di citazioni osservata nella rete degli articoli scientifici. La stessa regola fu poi adottata nel 1999 dai fisici Albert-László Barabási e Réka Albert, con il nome di preferential attachment (letteralmente “attaccamento preferenziale”) per descrivere la crescita di un’altra rete: il web. Anche in questo caso, il meccanismo dei vantaggi cumulati è perfettamente sensato: se a una pagina web puntano collegamenti da tante altre pagine, è più facile che chi naviga il web finisca per leggerla… e quindi magari, nello scrivere nuove pagine web, per farci puntare altri collegamenti.

Arriva Google

Il fatto che gli archi nelle reti sociali (amicizia su Facebook, citazioni tra articoli, link tra pagine web) non si costruiscano a caso, ma siano il risultato di scelte, non è importante solo per spiegare il grado dei nodi, e più in generale la struttura delle reti. Permette anche di estrarre informazione da una determinata rete. Un utilizzo intelligente dell’informazione contenuta nelle reti è ad esempio quello che ha permesso a Google, alla fine degli anni Novanta, di sbaragliare rapidamente la competizione degli altri motori di ricerca.

Il garage dove è nato Google, a Mountain View, California.

Ricerca intelligente

Per capire l’importanza della novità che Google ha rappresentato dobbiamo pensare che quando un utente cerca su un motore di ricerca la parola “gatto”, il motore di ricerca deve fare due cose: primo, scandagliare il proprio archivio di pagine web in cerca di tutte quelle che contengono la parola. E questa è la parte facile, o perlomeno che all’epoca era già sostanzialmente risolta. Il difficile veniva dopo: mettere le pagine in un ordine sensato, per esempio facendo in modo che in prima pagina ci fossero quelle più interessanti per un utente. A fine anni Novanta, per questo secondo passaggio venivano utilizzati diversi approcci, come considerare migliori le pagine in cui la parola in questione appariva più volte, o in posizione più rilevante, o consultare delle specie di cataloghi creati dagli utenti. Ma tutti questi approcci erano insoddisfacenti – i cataloghi richiedevano un grande lavoro manuale e ogni ragionamento sul contenuto era facilmente manipolabile dagli autori delle pagine. Google, o meglio i suoi due fondatori Brin e Page, ebbero l’idea di sfruttare la rete delle citazioni tra le pagine per capire quali fossero più rilevanti. Intuitivamente, osservarono che una pagina con più archi (link) in entrata sarebbe stata presumibilmente più interessante (dato che era risultata interessante a chi aveva fatto quei link). Ma non si fermarono qui: pensarono che avrebbero dovuto considerarla tanto più interessante quanto più le pagine da cui provenivano quei link fossero state interessanti. Può sembrare un cane che si morde la coda far dipendere l’importanza di una pagina dall’importanza delle pagine che hanno link verso quella pagina – e infatti è quel che si dice una definizione ricorsiva – ma funziona, e l’algoritmo risultante, il cosiddetto PageRank, è anche relativamente robusto alla manipolazione (non è facile per l’autore di una pagina “truccarne” l’importanza).

Banche e scienza

Il PageRank non è più il solo criterio che Google utilizza per ordinare i suoi risultati; in cambio, nel frattempo algoritmi ispirati dal PageRank si sono rivelati utili per analizzare anche reti di tutt’altra natura. Per esempio, Eigenfactor viene utilizzato per valutare l’importanza delle riviste scientifiche – con le citazioni tra articoli scientifici che prendono il posto dei link tra pagine web – e DebtRank per misurare l’importanza sistemica di una banca o di un altro istituto finanziario, in base alla rete del credito. Vale la pena di menzionare che mentre link tra pagine web e citazioni tra articoli scientifici si possono considerare tutti uguali, di certo non sono tutte uguali le relazioni di credito tra banche – possono riguardare somme maggiori o minori di denaro. Ma gli algoritmi tipo PageRank si prestano facilmente ad essere applicati anche a reti pesate, come appunto la rete del credito… o quella dei risultati sportivi.

Link e approfondimenti

• Il libro La responsabilità di rete (il Mulino) di Pietro Battiston, e il suo sito.

battiston

Carlo Rovelli spiega: il paradosso dell’informazione dei buchi neri

Un buco nero che abbia mangiato una tonnellata di spaghetti è uguale a un identico buco nero che abbia invece divorato una tonnellata di budino al cioccolato? La questione non è banale, è una delle più profonde della fisica contemporanea, e prende il nome di “paradosso dell’informazione”.  

Prologo

Prima di approfondire, torniamo alla domanda. Rispondere, a prima vista, è semplice. “Noi siamo quello che mangiamo”, diceva il filosofo Ludwig Feuerbach. Perché lo stesso non dovrebbe valere per i buchi neri? Ebbene, che si sia o no d’accordo con Feuerbach, tra noi e i buchi neri c’è una differenza abissale, e per fortuna. Ciascun essere umano è infatti unico, con la sua altezza, il suo peso, il colore degli occhi, quello dei capelli, per non parlare delle impronte digitali… E anche quando mangiamo qualcosa, se si va a indagare con attenzione, le tracce di ciò che ingeriamo si possono certamente ritrovare in noi e nell’ambiente circostante. Per i buchi neri non è così.

La Via Lattea con la recente foto di Sagittarius A*, il buco nero al suo centro, con i radiotelescopi dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA, foto crediti: ESO/José Francisco Salgado – josefrancisco.org, EHT Collaboration).

Calvi

“I buchi neri non hanno capelli”, diceva John Archibald Wheeler, un fisico noto per la sua abilità nel coniare termini e frasi memorabili; fu lui a ideare il termine “buco nero”. Quel che Wheeler intendeva con la sua espressione è che, nella Relatività Generale, i buchi neri sono descritti da tre soli parametri. La carica, lo spin e la massa. Lasciamo perdere la carica (tutti i buchi neri noti hanno carica nulla) e la rotazione (per semplicità assumiamo che sia nulla anch’essa, non cambia molto). La frase di Wheeler vuol dire che due buchi neri con la stessa massa sono perfettamente uguali, a prescindere dal modo in cui si sono formati o dalla materia che vi è caduta dentro. Un buco nero che abbia mangiato una tonnellata di spaghetti è indistinguibile da uno uguale che abbia mangiato una tonnellata di budino. I buchi neri non hanno capelli, perché i capelli implicherebbero una complessità somatica che i buchi neri semplicemente non hanno per come sono descritti dalla Relatività Generale di Einstein.

Il segreto della ricetta 

Se un buco nero mangia un piatto di spaghetti, la sua massa aumenta un po’, ma il suo aspetto non cambia. Gli spaghetti, per contro, spariscono nell’orizzonte degli eventi. Il problema, allora, è: dove va a finire l’informazione contenuta negli spaghetti o nel budino, quando entrano in un buco nero? Possibile che si perda ogni traccia degli ingredienti, della ricetta, degli stessi atomi di cui erano fatti?

CarloRovelli
Carlo Rovelli è uno dei fondatori della teoria Loop Quantum Gravity (C. Rovelli).

Forse sì

La relatività di Einstein dice di sì, che è possibile: è proprio quello che succede. D’altro canto, non è noto nessun altro processo fisico in cui l’informazione vada perduta del tutto come in questo caso. 

Forse no 

Il celebre fisico Stephen Hawking si appassionò alla questione e arrivò a convincersi, fino a scommettere con i colleghi, che un buco nero doveva per forza distruggere l’informazione di ciò che inghiottiva. Qualche anno dopo ammise di aver avuto torto e di aver perso la sconfitta. In realtà, il problema è ancora aperto e molto dibattuto, ma è anche molto complicato. 

L’intervista

Per questo abbiamo chiesto a Carlo Rovelli, docente all’Università di Aix-Marsiglia e noto autore di libri, di spiegarcerlo e di dirci quel che ne pensa.

Come nasce il paradosso dell’informazione?

I buchi neri sono oggetti che ci sono diventati familiari. Ce ne sono nel cielo a milioni, a miliardi. Li vediamo. Sono buchi nei quali vediamo cadere un’enorme quantità di materia. Allora la domanda è: dove va a finire tutto quello che casca dentro?

Negli Anni ’70 del secolo scorso, Stephen Hawking ha ottenuto un risultato che lo ha reso famoso: ha fatto vedere che i buchi neri sono caldi, nel senso che emettono radiazione (la “radiazione di Hawking”). Possiamo dire che irraggiano come una stufa, e nel farlo perdono energia e diventano sempre più piccoli. Questo è un fenomeno quantistico, che sembra in contraddizione con la teoria classica: la Relatività Generale, infatti, dice che niente può uscire da un buco nero, e che dunque un buco nero non può in alcun modo rimpicciolirsi. Però noi sappiamo che la Relatività Generale non è completa, c’è la meccanica quantistica. Allora Hawking ha fatto il calcolo quantistico e ha predetto questo fenomeno. La radiazione di Hawking non è mai stata osservata; ma il fenomeno è considerato molto credibile da tutti quelli che lavorano nel campo, perché è stato calcolato in molte maniere diverse e si arriva sempre allo stesso risultato.

Allora, se Hawking aveva ragione, un buco nero irradia, irradia, irradia… e diventa via via più piccolo. A un certo punto diventa piccolissimo, microscopico. Che cosa succede a questo punto? In molti pensavano che sparisse, come qualcosa che finisce di bruciare e a un certo punto non c’è più niente: tutta la sua energia è uscita sotto forma di radiazione. Ma così si aprono le porte al paradosso dell’informazione: e tutto quello che era entrato dov’è andato a finire? 

Si potrebbe dire “Be’, è uscito sotto forma di radiazione, la radiazione di Hawking”. E invece no, sarebbe troppo facile. Questa risposta non va bene, perché la radiazione di Hawking è una radiazione definita “termica”, cioè casuale. Non contiene informazione, perché non dipende da come sono entrate le cose. 

Sembrerebbe, allora, che l’informazione di ciò che entra in un buco nero venga effettivamente distrutta. Ma questo, per i fisici, è difficile da accettare. Perché?

Perché non c’è nessun fenomeno noto in natura che distrugga l’informazione. L’informazione c’è sempre, da qualche parte. Se si conosce lo stato attuale di un sistema, se ne può calcolare il futuro. E dal futuro si può calcolare il passato. In fisica, questa proprietà è chiamata unitarietà. Ma i buchi neri sembrano violare la conservazione dell’informazione: questo è il paradosso dell’informazione dei buchi neri.

E come se ne esce?

Ci sono una serie di risposte possibili, ma le più studiate oggi sono due, che corrispondono alle due principali teorie di gravità quantistica, la Teoria delle Stringhe e la Loop Quantum Gravity. 

Cominciamo dalla più semplice

L’ipotesi più semplice, e a mio giudizio anche la più plausibile, è che nello scenario appena descritto c’è qualcosa di falso. E che cos’è falso? L’idea che alla fine dell’evaporazione il buco nero scompaia. 

Che cosa potrebbe succedere, allora?

Se si guarda dall’esterno, quel che succede è che – dopo l’evaporazione – rimane a lungo un residuo (remnant) del buco nero. Cioè un oggettino piccolo, però stabile, che non evapora più e che pian piano – ci mette molto tempo – riemette sotto forma di radiazione o altro tutta l’informazione che aveva in precedenza ingerito. 

Questa radiazione è diversa dalla radiazione di Hawking?

Sì, è diversa perché è fredda, lenta, con poca energia. Perché ormai nel buco nero è rimasta pochissima energia. Però c’è tanta informazione, che pian piano esce. E questo è quello che si vede dall’esterno del buco nero.

Perché? Che cosa succede all’interno, invece?

Guardando all’interno si capisce meglio quel che succede. Perché l’interno di un buco nero non è piccolo, è grande. E questo è forse il punto più interessante di questa storia. Immaginiamo di fare un disegno della geometria di un buco nero, all’interno. Prendiamo per esempio il Sole, e immaginiamo di comprimerlo in un buco nero. L’orizzonte avrebbe un diametro dell’ordine di un chilometro. Visto da fuori è piccolo, ma dentro è enorme. È un po’ come un bottiglione: il suo collo può essere molto stretto, ma dentro è voluminoso. Con il passare del tempo, il buco nero inghiotte materia e diventa più grande. Lo si può immaginare come un tubo, che è grande come l’orizzonte degli eventi, ma che dentro diventa via via più lungo a mano a mano che il tempo passa. Quando il buco nero evapora, l’orizzonte si stringe fino a diventare sempre più piccolo. Ma l’enorme spazio al suo interno c’è ancora. 

Quando infine l’orizzonte diventa molto piccolo, smette di evaporare. Non scompare, ma si stabilizza nel suo stato minimo, con tutto il suo volume all’interno. E, piano piano, questo volume comincia a uscire. 

Dunque, una volta raggiunte le dimensioni minime il buco nero si trasforma in un buco bianco?

Sì, questo grande volume che piano piano esce è come un buco nero che si forma, solo che è visto al contrario nel tempo. Si tratta di un buco bianco, ed è una soluzione (ben conosciuta) delle equazioni della Relatività Generale classica di Einstein. Così, piano piano, tutto quello che c’era dentro esce. Il punto chiave di questo ragionamento è la stabilizzazione del residuo, perché è un fenomeno quantistico, così come la transizione da buco nero a buco bianco. Questo è un vero fenomeno di gravità quantistica, con tutte le incertezze e le difficoltà relative, perché siamo nell’ambito di una teoria che non conosciamo.

Quindi, questa è la prima possibile soluzione del paradosso dell’informazione. Qual è l’altra?

Un’altra possibilità, oggi molto studiata, nasce nell’ambito della Teoria delle Stringhe e si basa su una versione più colta e più sofisticata del paradosso dell’informazione. Il punto di partenza è il calcolo dell’entropia, che in un buco nero si può calcolare e risulta proporzionale all’area. I buchi neri grandi hanno quindi molta entropia, quelli piccoli ne hanno poca. Ora, l’entropia in genere è legata al numero di stati possibili di un sistema. Come scoprì Ludwig Boltzmann, in particolare, l’entropia conta in quanti stati può essere un sistema. Allora, quando un buco nero evapora e diventa più piccolo, anche la sua entropia diventa più piccola. Quindi ha meno stati possibili, e quindi non può codificare l’informazione. Quando il buco nero diventa piccolo, insomma, l’informazione deve essere già uscita. 

Che cosa non funziona, allora?

L’entropia, in realtà, determina il comportamento termodinamico. Ma per calcolarla non conta il numero di stati di un sistema, conta il numero di stati accessibili di un sistema. Quindi, nel caso dei buchi neri, qual è l’errore di questo ragionamento, secondo me? È che l’entropia non è data dal numero di stati possibili del buco nero, ma da quello di stati accessibili. Quindi, per l’entropia, gli stati che stanno dentro il buco nero non contano. Se entro, li vedo. Altrimenti vedo e conto solo gli stati sull’orizzonte. 

Quindi la discordia tra i due mondi è: l’entropia conta il numero totale degli stati del buco nero, o conta solo quelli accessibili dall’esterno, cioè quelli sull’orizzonte degli eventi?  

Quindi il dubbio è il seguente: quando il buco nero diventa piccolo, l’informazione è ancora dentro o no?

Esatto, questo è il punto. E se fosse ancora dentro avremmo la soluzione: c’è un residuo, e prima o poi l’informazione esce. Altrimenti deve uscire prima. E allora la sfida consiste nel capire come questo potrebbe succedere. 

L’informazione sarebbe nascosta in mezzo alla radiazione di Hawking, in qualche modo?

Esatto. L’idea, che risale al fisico nordamericano Don Page, è che la radiazione di Hawking in realtà non sia davvero termica, ma contenga informazione. 

Queste due ipotesi che ha passato in rassegna come sono legate alle teorie da cui traggono origine?

Sono legate ai due mondi, e lo sono intrinsecamente. Perché in Teoria delle Stringhe si studiano i sistemi dal di fuori. Gli sviluppi più recenti sono sotto l’influenza del principio olografico, per cui anche di un buco nero conta la superficie, e non bisogna chiedersi che cosa accada all’interno. Invece nella Loop Quantum Gravity il conto dell’entropia di un buco nero si fa in modo esplicito, ed è chiaro che riguarda solo la superficie; ma che all’interno c’è altra informazione. 

Torniamo alla Loop Quantum Gravity. Può spiegare più esplicitamente che cosa succede?

Succede questo: il buco nero si forma, evapora, diventa piccolissimo e in quel momento c’è una transizione di gravità quantistica, per cui l’orizzonte del buco nero – che è piccolino – diventa orizzonte di buco bianco. Immaginiamo che io cada in un buco nero, quando – dopo aver varcato l’orizzonte degli eventi – mi avvicino al centro, avviene una transizione quantistica, una specie di effetto tunnel, che mi proietta fuori da un buco bianco.

Quanto è piccolo il buco nero quando avviene questa transizione?

La domanda è centrata. È esattamente quello che da due anni stiamo cercando di calcolare. All’inizio pensavamo che potesse succedere anche quando un buco nero è macroscopico. Adesso sembra di no. Cioè – prendila cum grano salis – sono calcoli che stiamo facendo anche usando numericamente il computer. Ma ci stiamo convincendo che la transizione avviene solo quando il buco nero è molto molto piccolo. Molto piccolo vuoi dire della scala di Planck, che dal punto di vista della massa vuol dire un microgrammo, 0,1 microgrammi. Cioè, pesa quanto un capello.  

Dunque, avviene la transizione… e l’orizzonte di un buco bianco che cosa fa? Aumenta con il passare del tempo?

No, è stabile. Attenzione, perché da fuori un buco bianco e un buco nero sono la stessa cosa. L’esterno è uguale, è l’orizzonte che è diverso. Cioè un buco bianco è come un buco nero, una piccola massa che attira con la sua gravità. La differenza è che dentro un buco nero puoi cascare, invece dentro un buco bianco no. E da un buco bianco puoi uscire, mentre da un buco bianco no. 

Allora un buco bianco come si esaurisce?

Pian piano le cose escono e, quando è uscito tutto quello che c’è dentro, il buco bianco sparisce. Il fenomeno è uguale a quando una massa collassa e genera un buco nero. Se guardi indietro nel tempo, vedi il buco nero che a un certo punto sparisce perché esce tutto e non c’è più niente. Non c’è niente di misterioso in come sparisce un buco bianco: è una soluzione delle equazioni di Einstein.  

Quindi un buco bianco ha un orizzonte stabile ed emette fin quando sparisce.

Esatto.  

Tornando al paradosso dell’informazione, come lo si può mettere alla prova da un punto di vista sperimentale? Cioè, come si può capire se in un buco nero la natura conserva o distrugge l’informazione?

Buona domanda. Nessuno è ancora riuscito a trovare un modo per effettuare un test diretto. L’idea che l’informazione fosse veramente persa era un’ipotesi che lo stesso Stephen Hawking aveva suggerito fin dall’inizio, negli anni ’70. Poi ha cambiato idea. Ci sono state tante persone che hanno pensato a come poter vedere effetti osservabili; ma che io sappia non c’è nessuna ragionevole ipotesi di come farlo. Invece ci sono tanti sforzi di prendere questi due scenari – la Teoria delle Stringhe e la Loop Quantum Gravity – e di vedere se nell’astrofisica e nella cosmologia ci possa essere qualcosa che li supporti. 

A lei che cosa piacerebbe vedere? In questo periodo ci sono sempre più dati che arrivano dagli osservatori di onde gravitazionali.  

Su questo punto, ancora non ho visto niente di convincente. Un’ipotesi che a me sembra plausibile è, piuttosto, questa: che in realtà abbiamo già visto gli effetti della Loop Quantum Gravity, il problema è come riconoscerli. 

Ricordi i buchi neri? Li osserviamo e li riconosciamo dagli Anni ’60 del secolo scorso. Ma la radiazione radio di Sagittario – il centro della nostra galassia – si vede con una qualunque antenna messa in un giardino: è stata la prima cosa osservata nel radio, da Karl Jansky, nel 1933. Era un segnale da Sagittario, ma all’epoca nessuno lo sapeva. Ci sono voluti più di cinquant’anni per riconoscere che si trattava di un gigantesco buco nero. Quindi la difficoltà non è vedere l’effetto di quel buco nero, è riconoscerlo. 

Lo dico perché una possibilità che trovo affascinante, ma che al momento è solo un’ipotesi, è che nell’universo primordiale, pochi istanti dopo il Big Bang, siano nati tanti piccoli buchi neri (questa è un’idea condivisa da molti) che poi forse sono già diventati buchi bianchi. E quindi, in tal caso, l’universo dovrebbe essere pieno di buchini bianchi, piccolini. 

E come si manifesterebbero?

Sarebbero come una polvere, granellini di un microgrammo sparsi più o meno nell’universo, che interagiscono solo con la forza di gravità. In realtà nell’universo c’è qualcosa che si comporta in questo modo, ed è la materia oscura (che si osserva, ma di cui non si sa spiegare l’origine). Quindi un’ipotesi è che la materia oscura, almeno in parte, sia costituita proprio da questi buchi bianchi, che emettono piano, piano, piano… Ovviamente è un’ipotesi bellissima, perché spiegherebbe la materia oscura senza aggiungere nient’altro a quello che sappiamo già della fisica. Però c’è un problema: come la verifichiamo? Non lo so. C’è tanta gente che ci sta provando, ma non è facile identificare un oggetto di un microgrammo che interagisce solo gravitazionalmente, ed è quindi invisibile. Quindi forse i buchi bianchi sono già sotto il nostro naso, ma ancora non li riconosciamo. 

Il luogo più santo di Roma

Nell’Antico Testamento con il termine “Sancta Sanctorum” si indicava un luogo sacro, in particolare la parte più interna del tempio, dove era ammesso solo il sommo sacerdote. Nel Tempio di re Salomone, secondo la tradizione, era conservata l’arca dell’alleanza. Meno conosciuto, però, è il fatto che una Cappella del Sancta Sanctorum si trovava anche a Roma, nella più antica basilica cristiana della storia, voluta dall’imperatore Costantino nel IV secolo d.C., vale a dire la Basilica Laterana (oggi, dopo essere crollata e ricostruita più volta, è intitolata a San Giovanni in Laterano).

All’interno della basilica si trovava la cappella di San Lorenzo in palatio, poi conosciuta anche, per l’appunto, come Sancta Sanctorum per via delle numerose reliquie custodite. Anzi, era il luogo che conservava il maggior numero in assoluto di reliquie cristiane. Come diceva una scritta sull’altare: Non est in toto orbe sanctior locus, vale a dire che “Non esiste al mondo luogo più santo”.

San Giovanni in Laterano
San Giovanni in Laterano a Roma (G. Scozzafava).

E dunque, di quali reliquie parliamo? Si comincia con ciò che di più antico si conservava qui, un’immagine del Salvatore seduto in trono dipinta su legno. Non se ne conosce l’origine (e per questo motivo la tradizione la definiva acheropìta, cioè non fatta da mano umana), ma era già venerata nell’VIII secolo quando, secondo il Liber Pontificalis, papa Stefano II la portò in processione per scongiurare l’invasione dei Longobardi.

Vi erano poi le reliquie, conservate nelle due finestrelle superiori e sotto l’altare papale, protette da una gabbia di ferro e due sportelli bronzei. Tra gli oggetti che vi erano (e in parte sono ancora) conservati, le teste delle sante Agnese e Prassede, mentre quelle dei santi Pietro e Paolo furono trasportate nel 1370 sopra l’altare maggiore della basilica di San Giovanni in Laterano. E poi una raccolta di oggetti, poco credibili ma tipici del commercio medievale di reliquie, legati alla figura di Gesù: il prepuzio che gli fu tagliato al momento della circoncisione, il suo sangue coagulato, i suoi sandali, il divano su cui partecipò all’Ultima Cena, alcune pietre della colonna della flagellazione, la canna con cui fu percosso il suo capo coronato di spine, una delle spine della corona e un pezzo della spugna impregnata di aceto che fu poggiata sulla sua bocca durante l’agonia in croce.

Che fine hanno fatto queste reliquie? Nel 1905 alcune di esse furono ritrovate all’interno di una cassetta lignea risalente al pontificato di Leone III (795-816). Dopo essere stati restaurati, studiati e catalogati gli oggetti furono sistemati nel 1936, da Pio XI, nella cappellina di San Pietro Martire all’interno dei Palazzi Vaticani. Dove, sembra, si trovino ancora oggi.

Link e approfondimenti
• Il libro di Massimo Polidoro Segreti e tesori del Vaticano (Piemme, 2017).
Il post di Josway sulla Scala Santa.

Le scienza delle reti 2: il web

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Nella precedente puntata, abbiamo incontrato due reti con dimensioni – cioè numero di nodi – molto diverse tra di loro: quella della città di Königsberg che con i suoi quattro soli nodi aveva comunque dato filo da torcere ai suoi abitanti, e quella della rete ferroviaria italiana, con circa 2.200 nodi. Ma entrambe impallidiscono di fronte ad altre di cui gli studiosi della teoria delle reti si sono molto occupati negli ultimi anni: come la rete di Twitter, con i suoi 300 milioni di nodi (profili) follower gli uni degli altri, quella di Facebook, con i suoi quasi 3 miliardi di nodi (profili) connessi da relazioni di amicizia, e la rete del web, con i suoi 4 miliardi e passa di nodi (pagine) connessi da link. Sono reti globali, che collegano tra di loro utenti e creatori a migliaia di chilometri gli uni dagli altri.

Mappa di Internet (Wikipedia, CC BY 2.5).

L’importanza di queste reti non si limita alla possibilità di raffigurarle artisticamente come nella figura qui sopra: capirne la struttura permette di studiare fenomeni importantissimi come la diffusione dell’informazione sui social network, incluse disinformazione e fake news.

In entrata e in uscita

La prima cosa di cui occorre rendersi conto per studiare reti di questo tipo è che non tutti i nodi sono uguali. Anzi, c’è un’eterogeneità impressionante. Su Twitter per esempio sono moltissimi i profili con al più un follower, mentre all’opposto ci sono (a maggio 2022) 26 profili che superano la soglia dei 50 milioni di follower – con in testa Barack Obama, i cui follower hanno superato i 131 milioni. Chi studia le reti chiama grado di un nodo il numero di archi collegati: un nuovo profilo Facebook appena aperto avrà grado zero, ma diventerà di grado 1 appena si stabilirà la prima amicizia amicizia. Su Twitter, invece, i collegamenti tra profili non sono simmetrici, nel senso che, per esempio, posso essere un follower di Barack Obama senza che Barack Obama sia un mio follower. Siccome avere tanti follower significa qualcosa di molto diverso rispetto all’essere follower di tanti profili, è importante distinguere le due cose: chiameremo quindi grado in entrata e grado in uscita, rispettivamente, il numero di archi che entrano in un certo nodo (es. il numero di follower) e il numero di archi che ne escono (es. il numero di profili seguiti). Su una rete come quella di Facebook, però, in cui ognuno è amico dei propri amici, grado in entrata e in uscita coincidono, e sono semplicemente il numero di amici di ogni utente.

Grado di connessione

Siccome ogni arco mette in connessione due nodi, se sommiamo il grado di tutti i nodi di una rete otteniamo il doppio del numero di connessioni, e questa è una misura sintetica di quanto sia connessa una rete. Di per sé però questo numero non ci dice molto: è piuttosto scontato, per esempio, che ci saranno più archi nella rete di Facebook che in quella ferroviaria italiana, semplicemente perché nella prima ci sono molti più nodi. Per farci un’idea di quanto facilmente i nodi di una rete tendano a creare tra di loro, sarà più utile vedere non il numero di archi esistenti ma la proporzione rispetto a quelli che potrebbero esistere.

La rete delle facce di un cubo, considerate connesse se adiacenti.

La densità del cubo

Per esempio, prendiamo la rete delle facce di un cubo, dove due facce sono connesse se adiacenti, come rappresentato nella figura sopra. I nodi sono 6 – le facce – e ogni nodo è connesso a 4 delle altre 5 facce. Quindi questa è una rete piuttosto connessa: sono presenti infatti 4/5, ovvero l’80%, degli archi teoricamente possibili: chiamiamo questo numero la densità della rete. Tornando alla rete di Facebook, che ha enormemente più archi, essa però ha anche enormemente più archi possibili. In particolare, ogni utente ha in media poche centinaia di amici (erano 338 nel 2014), su 3 miliardi di possibili profili di cui essere amico… quindi la densità della rete è circa 0,0000001%, esistono solo un decimo di milionesimo degli archi teoricamente possibili.

Velocità di propagazione

Conoscere la densità di una rete – in particolare una rete che abbia a che fare con qualche fenomeno sociale – è il primo passo per capire come ci si propagheranno tali fenomeni. È chiaro che, così come è più facile spostarsi velocemente su una rete ferroviaria con una rete fitta di collegamenti, sarà più facile per un’informazione, vera o falsa che sia, spostarsi più velocemente in un social network in cui tutti sono amici di tutti, o di molti.

Link e approfondimenti

• Il libro La responsabilità di rete (il Mulino) di Pietro Battiston, e il suo sito.

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