“Un osservatore che guardasse la Terra da lontano e ne seguisse lo sviluppo da miliardi di anni, troverebbe il nostro pianeta al tempo stesso strano e interessante. Si accorgerebbe che in questi ultimi anni avvengono cambiamenti anomali e non riuscirebbe a capire perché. Noterebbe che la temperatura si alza, l’atmosfera diventa insieme più luminosa e più lattiginosa, opaca, che da alcuni decenni si è aperto nello strato esterno di ozono che avvolge il globo un enorme buco in corrispondenza del Polo Sud.
L’osservatore extraterrestre non può saperlo con certezza, è troppo distante per cogliere i particolari, ma deduce che sulla superficie del nostro pianeta sta accadendo qualcosa, che una nuova forza ne sta modificando profondamente gli equilibri e l’aspetto. Pensa di essere testimone di un evento insolito, che potrebbe avere sviluppi spettacolari: un grande sconvolgimento del clima oppure, chissà, una catastrofe. Non avrebbe dubbi di trovarsi di fronte all’inizio di una nuova era geologica. E se sapesse che la causa di tutti i cambiamenti che osserva siamo noi uomini, non esiterebbe a chiamare la nuova era Antropocene, cioè l’era dell’uomo”.
Comincia così Benvenuti nell’Antropocene (Mondadori), il primo libro che ha affrontato il tema dell’impatto dell’uomo sul pianeta e sul clima da un punto di vista globale, geologico, con un capitolo finale visionario sulle possibili soluzioni in termini di ingegneria dell’atmosfera. Perché visionario era innanzitutto l’autore, il chimico olandese Paul Crutzen, che ha vinto il premio Nobel nel 1985 con F. Sherwood Rowland e Mario J. Molina per studi che hanno portato alla comprensione del buco dell’ozono e al conseguente bando internazionale di clorofluorocarburi.
In un periodo in cui nessuno si preoccupava troppo dell’argomento, Crutzen anticipava gran parte dei temi su cui si incentra il dibattito attuale. A cominciare dal termine Antropocene, che ha dato anche origine a un documentario e su cui un numero sempre maggiore di scienziati non può fare a meno di concordare. Recentemente, ne ha parlato la rivista Science con un articolo dettagliato che sarà oggetto di un prossimo intervento.
Nonostante la fortuna del termine, però, molti di quelli che lo cavalcano dimenticano che proprio Crutzen ne è il padre, e ne andava fiero. Nel suo libro, racconta: “L’idea nacque per caso, nel corso di una riunione del comitato scientifico dell’International Geosphere-Biosphere Programme (Igbp) che si teneva la mattina del 22 febbraio 2000 a Cuernavaca, in Messico. Chi presiedeva la riunione stava parlando dell’attività umana nell’Olocene, quando lo interruppi per osservare che l’Olocene era tramontato e oramai eravamo nell’Antropocene. Il termine mi venne in mente lì per lì, per sottolineare il fattore umano (…). Dopo la mia osservazione, tutti rimasero in silenzio per qualche istante e nessuno fece commenti. Ma durante la pausa per il caffè, uno dei membri del comitato mi disse che il mio intervento meritava il lungo viaggio che aveva dovuto affrontare per venire in Messico. Mi resi subito conto della forza e della portata della parola. Appena rientrato a casa, controllai per vedere se non fosse stata già usata in precedenza e scoprii che lo aveva fatto Eugene Stromer, un biologo dell’Università del Michigan, conversando con dei colleghi in Internet. Presi contatto con lui e scrivemmo insieme un articolo su una rivista dell’Igbp”.
Da quel momento, e con quella pubblicazione (più un’altra del solo Paul Crutzen), la parola e il concetto di Antropocene hanno cominciato a fare breccia, prima nella comunità scientifica, e poi nel grande pubblico. Le prove, che già erano schiaccianti, si sono accumulate. Fino alla notizia di pochi giorni fa, che la massa totale prodotta dalle attività umane ha superato il peso di tutte le specie viventi sulle terre emerse. Ma questo è un altro post. Il prossimo.
Andrea Parlangeli
Curatore del libro Benvenuti nell’Antropocene (Mondadori).