Che cosa succede al nostro corpo quando andiamo in montagna?

Quando saliamo oltre i 2 mila metri, la pressione arteriosa sale, il sangue diventa più denso e cambia tutto il metabolismo… Quindi è bene fare attenzione, come spiega Gianfranco Parati, docente di cardiologia all’Università Milano-Bicocca e pioniere della medicina d’alta quota.

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Che cosa succede al nostro corpo quando andiamo in montagna?

Quando saliamo oltre i 2 mila metri, la pressione arteriosa sale, il sangue diventa più denso e cambia tutto il metabolismo… Quindi è bene fare attenzione, come spiega Gianfranco Parati, docente di cardiologia all’Università Milano-Bicocca e pioniere della medicina d’alta quota.

C’è a chi piace d’inverno, quando c’è neve e si può sciare. C’è chi la preferisce d’estate, quando è bello perdersi nei boschi e nei paesaggi infiniti seguendo uno tra i tanti sentieri. In tutte le stagioni, la montagna è tra le destinazioni più ambite e più sane. E va benissimo, purché si sappia che quando si sale di quota qualcosa accade nel nostro organismo. Ed è meglio esserne consapevoli.

Il nostro corpo è infatti una macchina che si è evoluta per funzionare bene a livello del mare, dove la pressione atmosferica è indicativamente di 760 mmHg. Se si sale di quota, però, la pressione diminuisce. A 5.500 metri è circa la metà. Risultato: facciamo più fatica a respirare e tutto il metabolismo si modifica per portare ossigeno ai tessuti e consentirci la sopravvivenza.

A spiegarci che cosa succede esattamente è Gianfranco Parati, direttore scientifico dell’Istituto Auxologico di Milano, docente di cardiologia all’Università Milano-Bicocca e pioniere di questo settore con ricerche che ha svolto con i suoi collaboratori – nell’ambito dei progetti di ricerca HIGHCARE – sul Monte Rosa, nel campo base dell’Everest e sulle Ande nel corso di quasi vent’anni.

Quando saliamo di quota, il nostro organismo si modifica in modo molto complesso. In estrema sintesi, che cosa succede?

Succede che il corpo deve adattarsi, perché la pressione barometrica scende e nei polmoni l’ossigeno viene spinto con meno forza nel sangue. Nei nostri studi, abbiamo visto che la pressione arteriosa sale, che aumenta la frequenza cardiaca, che il cuore si contrae in modo diverso: si verifica in particolare una torsione (twist) della punta del ventricolo sinistro. Inoltre le arterie diventano un po’ più rigide (perché il sistema simpatico le contrae) e aumentano i globuli rossi (per portare più ossigeno). Nel sonno, aumentano le apnee notturne. E alle normali apnee “ostruttive”, legate al passaggio dell’aria nelle alte vie aeree, si aggiungono quelle “centrali”».

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Gianfranco Parati, durante la spedizione HIGHCARE-Himalaya 2008 (G. Parati).

Che cosa sono le apnee centrali?

Le apnee centrali sono causate da un impulso del sistema nervoso centrale, che ferma il respiro per alcuni secondi. In quota, infatti, si verifica una situazione molto particolare. A causa della carenza di ossigeno, ventiliamo più velocemente. È un meccanismo istintivo, guidato da alcuni recettori (i chemocettori carotidei) che avvertono la riduzione di ossigeno nel sangue; ma è poco efficiente, perché respirando più velocemente utilizziamo tutte le vie aeree, quindi anche i bronchi, mentre la parte che scambia l’ossigeno sono gli alveoli. Insomma, con l’iperventilazione si spende molta energia e non si utilizza gran parte dell’ossigeno inalato.

Non finisce qui, il corpo paga un prezzo aggiuntivo: butta fuori molta CO2, rendendo il sangue più alcalino. Le conseguenze sono ben visibili di notte. Nel sonno, infatti, il respiro è automatico, ed è regolato da alcuni recettori, che stanno nelle carotidi e nel cervello. Quelli nelle carotidi sentono l’ossigeno, quelli nel cervello la CO2. Durante il sonno, i chemocettori che stanno nel cervello si accorgono del calo del livello di CO2 e, per farlo risalire, bloccano il respiro per alcuni secondi. Peccato che, così facendo, il livello di ossigeno scende ancora di più. Quindi di notte si alternano momenti di iperventilazione dovuta alla quota a momenti di pausa per compensare. Con il risultato che, paradossalmente, l’ipossia aumenta. Ed è per questo che molte persone in montagna stanno peggio di notte.

Qual è, dunque, la causa fisiologica del cosiddetto “mal di montagna”?

La causa principale di molti sintomi tipici del mal di montagna – nausea, mal di testa, insicurezza – è proprio il sangue alcalino. In più, si respira male e possono verificarsi aritmie. Dunque in montagna bisogna fare attenzione, soprattutto se si è soggetti a rischio (per esempio, cardiopatici e ipertesi) e soprattutto di notte, per cui è meglio sottoporsi a una visita di controllo facendo attenzione ad alcune linee guida che abbiamo formulato.

Come cambia l’adattamento in quota con il sesso e con l’età?

Le donne si adattano meglio degli uomini. Per esempio, a 3.400 metri, gli uomini hanno apnee nel 40-50% dei casi, le donne quasi per niente. A 5.400 metri anche le donne hanno un po’ di apnee, ma comunque la metà rispetto agli uomini. L’ipotesi è che a fare la differenza siano gli ormoni sessuali femminili, che potrebbero costituire un meccanismo protettivo interessante da studiare. Però anche le apnee ostruttive sono meno frequenti nelle donne, quindi potrebbero esserci anche ragioni anatomiche, o diversi meccanismi di regolazione. Riguardo all’età, al suo aumentare diminuisce la capacità di adattamento, per cui sopra i 60 anni bisogna fare più attenzione.

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Ci si adatta a ogni quota?

Oltre una certa altitudine non ci si adatta mai completamente. I rifugisti della Capanna Margherita sul Monte Rosa, per esempio, non stanno in quota in via continuativa. Dopo un po’ rientrano. Perché noi non siamo fatti per stare in quegli ambienti. Possiamo ottimizzare l’adattamento, ma fino a un certo punto. È quello che fanno gli alpinisti quando scalano l’Everest. Vanno su per un mese, un mese e mezzo. Salgono e poi scendono. Vanno a 6 mila metri, poi scendono a 4-5 mila. Quindi vanno a 7 mila e ridiscendono. Si adattano un po’ per volta, cercando di non superare la soglia di permanenza, perché dopo un po’ di giorni si attiva un catabolismo proteico e si perdono le proteine: i muscoli perdono potenza, anche il cuore. Lo abbiamo sperimentato noi stessi nella nostra spedizione al campo base dell’Everest: siamo rimasi in quota un mese e mezzo e abbiamo perso in media 9 kg a testa. Non solo di grasso, anche di muscoli. E ci vuole un po’ di tempo per recuperare i muscoli.

Quali sono le conseguenze più gravi del mal di montagna?

Tra le conseguenze più gravi ci sono l’edema polmonare e l’edema cerebrale, che possono portare alla morte. Nei primissimi giorni di esposizione in quota, tutti hanno una trasudazione di liquidi maggiore. In genere, un po’ alla volta, questa eccedenza si risolve. Ma non è sempre così. L’edema polmonare, all’inizio, a livello subclinico ce l’hanno un po’ tutti. A causa dell’ipossia, infatti, aumenta la pressione polmonare. Allo stesso tempo, si verifica una disfunzione endoteliale: le piccole cellule che ricoprono i capillari negli alveoli diventano meno efficienti nel liberare ossido nitrico e si scollano un po’. Si verifica, dunque, una trasudazione di liquido. Nei polmoni, già c’è difficoltà a respirare perché la pressione barometrica, e quindi la pressione parziale di ossigeno, scende. In più, questo velo di liquido peggiora ulteriormente la situazione, perché fa da barriera al passaggio dell’ossigeno che va dall’alveolo al sangue. Con l’adattamento, se si supera questa fase, l’edema si riassorbe. Quando invece non si riassorbe, può peggiorare e portare a un edema polmonare acuto, che è molto pericoloso.

Quali sono i possibili rimedi?

Nei casi più gravi di edema, bisogna scendere al più presto a una quota più bassa. Per acclimatarsi meglio, invece, ci sono alcuni rimedi. Per esempio, la ventilazione meccanica a pressione positiva continua, o C-PAP (Continuous Positive Airway Pressure); cioè quella macchina che si usa nella terapia delle apnee ostruttive. La C-PAP si usa anche in cardiologia, per i pazienti con scompenso cardiaco. Il cuore sfiancato, infatti, non riesce a far circolare il sangue, quindi la pressione nelle vene e nei capillari polmonari aumenta. I polmoni trasudano e si allagano. E allora bisogna togliere l’acqua in eccesso. Oltre ai diuretici, anche la C-PAP funziona molto bene nei pazienti con scompenso, perché la pressione dell’aria sposta l’acqua e libera gli alveoli, rendendo possibile lo scambio di gas. Lo stesso meccanismo vale in montagna. Sulla Capanna Margherita, ma anche nel campo base dell’Everest, abbiamo visto che nei primi due o tre giorni di permanenza in quota, quando si sta male, la saturazione scende al 70%-80%. In queste condizioni, 10 minuti di C-PAP fanno salire la saturazione al 90%. Dopo un paio di settimane in quota, la C-PAP non ha più nessun effetto, perché ormai l’organismo si è adattato e l’edema è stato riassorbito.

C’è anche un’altra tecnica che abbiamo sperimentato con successo, quella del respiro lento. Abbiamo applicato questa metodica, in particolare, con un sistema israeliano a guida musicale, basato sull’uso di una banda toracica (che misura il respiro), un computer che genera una musica dolce ritmica e delle cuffie per ascoltarla. Dopo aver indossato l’apparecchio, ci si siede rilassati, si respira normalmente e si ascolta. Il computer genera una musica che è stimolata dalla frequenza del respiro. Dopo un minuto o due, il software comincia a prendere il comando; cioè modifica la musica e piano piano, in modo impercettibile, la rende più lenta. Così, senza sforzo, ci si trova a respirare alla frequenza di sei atti al minuto, invece di venti. E questo respiro lento costringe i polmoni a espandersi molto di più. Respiro lento vuol dire infatti respiro profondo: in questo modo, come insegna lo yoga, si utilizza la pompa respiratoria molto meglio. È una buona abitudine per tutti. Perché si usano tutti gli alveoli e aumenta la superficie di scambio. Non solo. Stiracchiandoli, i setti diventano più sottili: il polmone si espande di più e quindi scambia meglio. Infine, si stimolano alcuni recettori vagali che stanno sulle superfici dei polmoni e riducono un po’ quell’attivazione simpatica tipica dell’ipossia: si contrastano così gli effetti sul cuore, sulla frequenza del battito cardiaco e sull’iperventilazione. Abbiamo testato anche questo metodo in alta quota. Partivamo con valori della saturazione pari a 70-80%. Dopo 15 minuti di respiro lento con la musica, la saturazione di ossigeno saliva fino al 90-92%. Quando si smetteva, tornava a 70-80%.

Una delle tende dove hanno dormito gli sperimentatori al campo base dell’Everest.
Una delle tende dove hanno dormito gli sperimentatori al campo base dell’Everest.

Queste tecniche si possono usare anche nella pratica medica, a casa o in ospedale?

Sì, ed è uno degli aspetti centrali della nostra ricerca. Noi usiamo infatti la montagna come un laboratorio, che serve a testare alcune ipotesi sull’importanza dell’ossigeno nel nostro organismo. In ospedale abbiamo infatti molti pazienti ipossici. In questo caso l’ipossia non dipende dalla quota ma da altre condizioni come scompenso cardiaco, asma, enfisema, apnee nel sonno, obesità. Questi pazienti hanno però comorbidità di vario tipo, cioè sono complessi, e si fa fatica a capire quali sintomi siano dovuti all’ipossia e quali ad altri fattori. In montagna si riesce a semplificare la situazione: si prende un solo problema, che è quello della carenza di ossigeno nel sangue, in soggetti sani e si testano vari rimedi – C-PAP, respiro lento, farmaci che riducono l’alcalinizzazione del sangue con lieve effetto diuretico (come l’acetazolamide) e betabloccanti – che poi si possono tradurre in clinica. Per esempio, abbiamo applicato con successo le tecniche di respirazione lenta ai nostri pazienti con scompenso cardiaco, come terapia riabilitativa. Abbiamo testato anche i betabloccanti, e abbiamo visto che c’è un’enorme differenza tra betabloccanti selettivi e non selettivi per i recettori beta-1 cardiaci. In alta quota i selettivi sono più efficaci e danno meno effetti collaterali in termini di ridotta capacità di esercizio. Infine abbiamo testato anche l’acetazolamide, cioè il diamox, che è eccezionale in montagna. Questo farmaco blocca infatti l’anidrasi carbonica, cioè il meccanismo che rende il sangue più alcalino, e quindi previene il mal di montagna. Infatti si consiglia a chi non è allenato e va sopra i 3 mila metri: in questi casi può essere utile cominciare ad assumerlo due giorni prima e continuare per uno o due giorni in quota, finché c’è un po’ di adattamento. L’acetazolamidefa scendere anche la pressione e può prevenire l’edema. Però, assumendola più a lungo, possono manifestarsi effetti collaterali come la disgeusia: il gusto cambia e non si riesce più nemmeno a bere una birra, perché sa di metallo. Non è una terapia a lungo termine, tranne che per patologie particolari, però può essere molto utile per adattarsi in quota.

In tanti anni di ricerca e di esperienze in quota, qual è l’episodio più significativo che le è rimasto in mente?

Ce ne sono tanti. E anche a me non sono mancate le disavventure. Una volta siamo saliti un po’ in fretta alla Capanna Margherita e l’ho pagata cara. Di notte i miei collaboratori mi sono saltati addosso con cortisone e ossigeno, perché avevo aritmie ventricolari pericolose. Per fortuna eravamo tutti monitorati. Un’altra volta, sempre alla Capanna Margherita, fu un mio collaboratore a stare male; ma lo nascose perché non voleva tornare indietro. Arrivati al rifugio, non si presentò a cena. Allora salimmo a controllare e lo trovammo in coma. Aveva un edema cerebrale. Ricorderò lo spavento per tutta la vita: era notte e fuori c’era una tempesta che veniva da sud, quindi da Alagna non potevano mandare un elicottero. L’edema cerebrale si tratta con il cortisone, con l’acetazolamide, un po’ possono aiutare anche i farmaci antiossidanti; ma l’unica vera soluzione è scendere, e lui doveva scendere. Ha rischiato la vita. Per fortuna un elicottero è riuscito a salire dalla Svizzera. Non poteva arrivare al rifugio, perché in cresta c’era troppo vento, e allora lo abbiamo trasportato alle tre di notte con una barella al Colle Gnifetti, un avvallamento a 4.200 metri di quota. Come il malcapitato è sceso a terra, a Zermatt, è rifiorito. È passato tutto in un attimo. Perché la pressione barometrica ha riportato in asse i suoi sistemi di regolazione: l’edema si è riassorbito e tutto è tornato alla normalità. Ma lui se l’è vista brutta. In queste situazioni, in alta quota, bisogna stare molto attenti.

 

Siti e approfondimenti

  • Le linee guida dell’Istituto Auxologico.
  • In questo sito, una pubblicazione coordinata da Gianfranco Parati con informazioni specifiche per chi soffre di cuore ma desidererebbe salire in quota.
  • Il sito della Società Italiana Medicina di Montagna.
  • Il sito del progetto europeo multidisciplinare HIGHCARE (HIGH altitude Cardiovascular REsearch).

 

Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli è fisico (PhD) e giornalista, caporedattore del mensile Focus. Appassionato di scienza, tecnologia e innovazione, nel 2019 ha conseguito un Executive MBA presso il MIP/Politecnico di Milano. Ha scritto diversi libri, tra cui Uno spirito puro. Ennio De Giorgi, genio della matematica (Milella 2015, Springer 2019) e Viaggio all’interno di un buco nero (StreetLib, 2019). È stato curatore di La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli 2016) di Guido Tonelli, sulla scoperta del Bosone di Higgs; La musica nascosta dell’universo (Einaudi 2018) di Adalberto Giazotto, sulla scoperta delle onde gravitazionali ; Benvenuti nell'Antropocene (Mondadori, 2005) del premio Nobel Paul Crutzen, padre del termine "antropocene" .

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