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L’Eldorado dei faraoni

Nel ricchissimo immaginario degli antichi egizi, c’era un luogo mitico ma allo stesso tempo molto concreto e reale. Era la Terra di Punt, meta di solenni spedizioni con le quali gli egizi si procuravano incenso e spezie, oro e avorio, ossidiana, lapislazzuli, legno pregiato e animali sacri. Organizzare questi viaggi alla volta di una terra lontana era per un faraone la dimostrazione del suo controllo anche sull’estero, sull’ignoto e sul caos, la capacità di aggiungere, all’ordine del suo regno, materie prime e merci “esotiche”.

Con bassorilievi e pitture, già a partire dalla IV dinastia dell’Antico Regno (2630-2510 a.C.), i re e le regine dell’antico Egitto hanno voluto fissare la memoria di quelle prestigiose spedizioni per una terra che definivano anche “Paese del dio”. Qui, secondo il mito, avrebbe avuto origini Hathor, dea del cielo e della fertilità. Tuttavia, in nessun resoconto a noi pervenuto viene indicano dove si trovasse Punt, tanto che per molti anni gli archeologi non avevano escluso che si trattasse di una leggenda propagandistica dell’aristocrazia egizia.

Merci “meravigliose”

Negli ultimi tempi, però, risalendo alla provenienza geografica di alcuni oggetti importati in Egitto con quelle memorabili spedizioni, si sta svelando l’arcano. Andrea Manzo, archeologo dell’Università L’Orientale di Napoli, da lungo tempo impegnato a risolvere il mistero, spiega: «Gli egizi qualificavano le merci da Punt con il termine “bi3” (traslitterazione dei segni piede, canna e avvoltoio, nda) che nell’antica lingua egizia significava “meraviglia”. Termine solitamente usato non tanto in relazione al fascino o al valore estetico, ma con una forte connotazione religiosa, poiché spesso impiegato per qualificare eventi prodigiosi, segni tangibili che mostravano la presenza della divinità o il suo favore legittimante nei confronti del faraone».

È quindi un caso davvero unico che delle merci venissero etichettate con bi3. Ma quelle da Punt, a partire dall’incenso, lo erano quasi sempre. «Probabilmente tutto era nato dall’importanza dell’incenso nelle funzioni religiose», continua Manzo. «Bruciare incenso e inalarlo facilitava l’estasi mistica».

Da dove viene il babbuino?

Un’altra “meraviglia” importata da Punt era il babbuino amadriade (Papio hamadryas) incarnazione del dio Thot (divinità della saggezza e della scrittura). Così, se gli studi sulla provenienza dell’incenso portano tradizionalmente all’attuale Somalia Orientale, ma anche all’Etiopia e Eritrea Occidentale e allo Yemen, questa specie, che non esisteva allo stato libero in Egitto, ha permesso di allargare il campo geografico in cui situare Punt.

Thot
Thot in forma di babbuino, in una scultura conservata al British Museum (cc).

Servendosi di tecniche avanzate, come l’analisi isotopica delle ossa e dei denti, recentemente alcuni ricercatori hanno concluso che gli amadriadi degli egizi provenivano da una regione che comprende gran parte delle attuali Etiopia, Eritrea e Gibuti, parti della Somalia e dello Yemen. Insomma, una Terra di Punt più vasta del previsto. «Questo testimonia le grandi possibilità della marineria egiziana nel secondo millennio a.C.», fa notare Manzo. «Si arrivava alla Terra di Punt navigando fino alle coste del Mar Rosso Meridionale».

Salta all’occhio il paradosso che la leggendaria terra dell’abbondanza oggi risulta in gran parte una delle aree più povere del mondo. Niente male come esempio di progresso diseguale. Ma da quale località esatta partivano le navi egizie alla volta di Punt? «Sappiamo che nel Medio Regno salpavano da Nord, a Mersa/Wadi Gawasis, dove abbiamo trovato i resti di un porto e merci provenienti da Punt», spiega Manzo.

Un cane con le orecchie a punta

Dalla Terra di Punt veniva importato anche un cane tipico chiamato “tsem”, con orecchie a triangolo, corpo snello e coda corta arricciata. Fu rappresentato accanto agli amadriadi sulle navi egiziane di ritorno da Punt nei rilievi della rampa processionale della piramide di Sahura (secondo re della V dinastia, al potere dal 2490 al 2475 a.C.) che si trova ad Abusir, a nord di Saqqara.

Anche a Mersa/Wadi Gawasis, si è trovata la raffigurazione di un cane simile. Lo disegnò su terra cotta (ostrakon) uno dei marinai di ritorno da Punt o forse un prospettore. Non è da escludere infatti che al seguito di queste spedizioni vi fossero esperti addetti alla documentazione. I loro disegni su terra cotta o papiro servivano da base alle rappresentazioni ufficiali di quelle imprese, poi scolpite nella pietra, come quelle di Sahura, o del tempio di Hatshepsut a Deir el Bahari, dove è ricordata la famosa spedizione organizzata dalla regina nel 1493 a.C. Ma bassorilievi su Punt già erano presenti durante la quarta dinastia (2613-2498 a.C), per esempio mostrandone un abitante insieme a uno dei figli del faraone Khufu (Cheope).

Anche su una parete del tempio di Amon, a Tebe, fatto costruire da Seti I, secondo faraone della XIX dinastia, Punt è rappresentata. Si tratta di geroglifici che raccontano di un viaggio navale per portare in patria oro, incenso e mirra, oltre a zanne di elefante, lapislazzuli, ebano, pavoni e scimmie. Sappiamo che i contatti e i commerci documentati con Punt continuarono nel Nuovo Regno durante i periodi di Amenofi II, Ramses II e III, cioè fino al 1155 a.C. In totale ci furono contatti per quasi 1.500 anni.

Ebano e ossidiana

Nell’antico porto di Mersa/Wadi Gawasis (Medio Regno), sono state trovate stecche di ebano africano. Le indagini botaniche ne hanno stabilito la provenienza dagli altopiani etiopici. Altra merce con tutta probabilità “puntita”, ritrovata in questo porto egizio del Mar Rosso, è l’ossidiana. Usata fin dal predinastico, per esempio per creare il tipico coltello rituale per “l’apertura della bocca” (favoriva l’uscita del Ka, una delle diverse anime del defunto). I ricercatori dell’Orientale di Napoli hanno individuato l’origine dell’ossidiana sia nella costa africana che in quella arabica del Mar Rosso Meridionale. Se due o più indizi (amadriadi, ebano, ossidiana) fanno una prova, la Terra di Punt doveva davvero essere molto vasta. «Non un singolo Paese, una o più città-Stato», conclude Manzo, «ma una grande regione percorsa da una o più confederazioni di tribù, per lo più nomadi, con esperti artigiani e commercianti».

Diffusi su entrambe le sponde del Mar Rosso Meridionale, i puntiti presentavano anche un certo grado di multietnicità. Una popolazione mista, composta da individui di diversa provenienza è suggerita anche dai resti scheletrici e oggetti venuti alla luce nella necropoli di Mahal Teglinos, in Sudan, condotti sempre dall’Orientale. Anche Mahal Teglinos viene considerata parte del network di Punt. Queste tribù di mercanti erano tendenzialmente pacifiche, ma non “pacifiste”. Una iscrizione trovata in una tomba di El Kab, risalente alla XVII dinastia, racconta che i puntiti si unirono al Regno di Kush in una guerra contro l’Egitto, con buona pace dell’antica amicizia.

 

Chi ha diritto alla rianimazione?

La pandemia di Covid-19 ha reso di attualità un tema bioetico rilevante: come affrontare una situazione in cui c’è sproporzione fra mezzi di cura disponibili e numero di malati che ne hanno necessità? Se giungono in ospedale due pazienti che hanno entrambi bisogno di ricovero in rianimazione, ma c’è soltanto un posto disponibile, a quale criterio di scelta attenersi?

Le linee guida ufficiali

La maggior parte delle persone opta, in genere, per l’età più giovane. Ma è un criterio accettabile, o, addirittura, l’unico possibile? La Società italiana degli anestesisti e rianimatori raccomanda di agire in funzione delle probabilità di sopravvivenza e della presenza di altre importanti situazioni patologiche presenti nel paziente. Tuttavia, al punto 3 di quelle raccomandazioni, afferma che “può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva”: a parità di altre condizioni, naturalmente. Una parità, però, che all’atto pratico non è sempre facile accertare e sulla quale non è certo possibile riflettere accuratamente nelle concitate situazioni di emergenza nella quale la scelta viene operata. Di fatto, nella grande maggioranza dei casi, l’età risulta il discrimine reale.

Età o utilità sociale?

L’età, comunque. Non certo l’utilità sociale. Facciamo però un esempio estremo. Supponiamo di dover scegliere tra assistere un giovane serial killer e un anziano luminare che è a un passo dalla realizzazione di un rimedio contro il cancro, che salverebbe milioni di vite. Siamo ancora sicuri che dovremmo attenerci al criterio dell’età? O forse in questo caso dovrebbe prevalere quello dell’utilità sociale? Come sempre, una risposta definitiva non c’è, ma è utile discutere e aver chiari i principi a cui attenersi.

Situazione simile, risposta diversa

Non è tutto. Immaginiamo ora che un giovane abbia bisogno di entrare in terapia intensiva, ma che non ci siano posti disponibili. Sarebbe lecito, in questo caso, togliere un paziente più anziano per fargli posto? “No”, direbbero tutti. Ma in realtà il risultato è lo stesso dell’esempio precedente: in entrambi i casi verrebbe sacrificata una persona in favore di un’altra, in nome dello stesso principio (qualunque esso sia, dell’età o dell’utilità sociale). Perché, allora, diamo una risposta differente? La risposta c’è ma non è di natura etica, bensì evoluzionistica, e ne parleremo in un prossimo intervento.

Meglio evitare

Tornando al dilemma iniziale… come uscirne? La soluzione migliore è senza dubbio una: evitare fin dal principio che la questione si ponga, aumentando il più possibile le risorse a disposizione. Nel nostro caso, i posti in terapia intensiva. Il problema dell’allocazione delle risorse è di natura politica. Le responsabilità etiche – è bene ricordarlo – incombono anche sull’agire politico e non soltanto sul singolo cittadino.

Le dodici Apocalissi

Come ha fatto notare Robinson (il settimanale di Repubblica), in questo nostro mondo afflitto da pandemie, crisi ecologiche e paure di ogni genere, la fantascienza – che incarna almeno in parte il nostro immaginario scientifico – sta cominciando ad abbandonare le distopie ammonitrici e le catastrofi per cercare invece qualche via di fuga.

Tuttavia, in questo post ci soffermeremo ancora per un po’ sulla fine del mondo e sui tanti modi immaginati dagli scrittori per dipingere la catastrofe definitiva. Il mese scorso abbiamo fatto tappa sull’immaginario a cavallo del 1900, ma in questo secondo appuntamento descriveremo tutte le 12 catastrofi che – secondo la fantascienza – potrebbero colpirci. La prima ① è la distruzione atomica, una tragedia che fu di gran moda dalla seconda guerra mondiale in poi.

Fanteria dello spazio
Nelle foto, le copertine di tre romanzi di fantascienza della collana Urania (Mondadori).

Dopo Hiroshima e Nagasaki, per un certo periodo la fine del mondo letteraria divenne quasi esclusivamente atomica. Uno degli esempi più impressionanti è il romanzo Livello 7 (1959) di Mordecai Roshwald, un ebreo ucraino che raccontò la “distruzione reciproca assicurata” in una storia nella quale l’attacco viene scatenato, ma non si sa da chi (russi o americani?). Il protagonista è un anonimo soldato che dà il via al bombardamento finale nella convinzione che le mortali radiazioni non lo colpiranno, perché lui si trova al massimo livello di sicurezza… In altre storie la bomba colpisce in modo indiretto, con il cosiddetto “inverno atomico”: le polveri sollevate dalle esplosioni schermano la radiazione solare innescando una drammatica era glaciale come nel film The Day After Tomorrow (anche se in quest’ultimo il ghiaccio arriva per motivi ecologici, non nucleari).

Il secondo “the end” arriva dalla ② sovrappopolazione ma non è un finale molto gettonato, perché tutte le religioni esistenti puntano alla riproduzione priva di freni e quasi nessuno al mondo ritiene che questa sia una follia. La fantascienza ne ha parlato in romanzi come Tutti a Zanzibar, nel quale il britannico John Brunner ipotizzava un futuro in cui l’intera popolazione mondiale dell’epoca (era il 1968) si ritrovasse stipata sull’isola di Zanzibar.

La sovrappopolazione oggi, a 50 anni di distanza, è decisamente peggiorata, ma nessuno più se ne occupa: né la fantascienza né la politica. Una realtà che invece preoccupa tutti è ③ l’inquinamento, e i tg ne parlano più dei libri. Nella fantascienza l’inquinamento ha stimolato l’immaginazione soprattutto di autori italiani come Dario Tonani, che ha miscelato spazzatura e tv dando vita all’idea che una nuova droga possa far nascere cartoons viventi in un mondo degradato in romanzi come Infect@; o come Lukha B. Kremo che nel suo libro Pulphagus ha immaginato un intero pianeta destinato al trattamento dei rifiuti umidi terrestri, con conseguenze da brivido. Poi c’è ④ la rivolta di Gea, immortalata nel film E venne il giorno (2008) dell’indiano M. Night Shyamalan, nel quale gli uomini vengono indotti al suicidio da una micidiale tossina emessa dalle piante, in un disperato tentativo di salvare il pianeta prima che la nostra specie lo distrugga del tutto.

Terra bruciata

Difficile non ricordare un’altra storica ribellione della natura come quella descritta da Alfred Hitchcock nel film Gli uccelli (1963). Più banali sono le ⑤ catastrofi cosmiche come quelle di Armageddon (1998) e Deep Impact (1998), due film nei quali la Terra rischia di essere colpita da un asteroide o da una cometa. I protagonisti alla fine si immolano o hanno l’idea vincente, e il dramma finisce lì. Invece lo ⑥ scioglimento dei ghiacci dà origine a scenari più interessanti, anche se terribili. Il più estremo è quello delineato in Waterworld, un film che vede Kevin Costner destreggiarsi su un veliero di fortuna nel 2468, impegnato nella ricerca delle ultime terre emerse. Altrettanto attuali sono ⑦ le epidemie, che fino a un anno fa tutti consideravano fantascienza (nel senso di eventi impensabili) e poi, invece… Citiamo solo due film come Andromeda (1969) di Michael Crichton, nel quale il virus arriva dallo spazio, e un altro film più vicino a noi come Contagion (2011) di Steven Soderbergh, nel quale l’agente patogeno è altrettanto devastante ma di origine terrestre. Un sottotipo di epidemia – di grande appeal popolare – è quella in cui i malati perdono il senno e possono contagiare gli altri con un morso… la prima di queste “catastrofi zombi” fu immaginata nel romanzo Io sono leggenda (1954) di Richard Matheson: tutti diventavano vampiri assetati di sangue tranne un solo uomo, che si aggrappava disperatamente alla vita e alla ragione. Il protagonista di Matheson fu interpretato al cinema da Charlton Heston nel 1971 e poi da Will Smith nel 2007. Il vero simbolo di questo sottogenere, però, è la serie tv The Walking Dead, in onda ininterrottamente ormai da dieci anni.

L’ottava “fine del mondo” prevede ⑧ la scomparsa di tutti i maschi (o di tutte le femmine). Non ci crederete, ma non si tratta poi di una catastrofe così assurda. In natura, infatti, esiste un batterio di nome wolbachia che infetta insetti e nematodi (vermi) provocando in alcuni di essi alterazioni così gravi da sterminare o trasformare in femmine tutti i maschi della specie. Gli scrittori non si sono posti il problema del “come”, ma di tanto in tanto si sono divertiti a descrivere il dramma di un mondo senza uno dei due sessi. Perfino una giallista come P. D. James ha fatto una gita nella fantascienza scrivendo I figli degli uomini (1992), diventato nel 2006 un film nel quale Clive Owen e Julienne Moore cercano di salvare l’ultimo bambino rimasto al mondo. Curiosamente, il libro è ambientato proprio nel 2021. Si può citare anche Il mondo senza donne (1936) dell’italiano Virgilio Martini, un’opera chiaramente satirica che fu messa al bando dal fascismo ma fu prontamente tradotta all’estero… e cadde nuovamente sotto gli strali della censura nell’Inghilterra del 1954, con l’accusa di blasfemia.

Tornando all’astronomia, c’è ⑨ la distruzione fisica del Sole, per i più svariati motivi. Da quelli più ovvi, come la trasformazione della nostra stella in una gigante rossa, descritta nel film cinese del 2019 The Wandering Earth, disponibile su Netflix, a quelli più improbabili come l’idea che una razza galattica decida di distruggere il Sole per far posto a un’autostrada cosmica, che è lo spunto della serie umoristica in 5 romanzi intitolata Guida galattica per gli autostoppisti (se vi piace ridere, leggetela).

Deserto dacqua

La fine del mondo numero ⑩ è la presa di potere delle intelligenze artificiali. Uno scenario temuto da decenni, che è alla base di uno dei film di fantascienza più famosi di tutti i tempi, Terminator. In questo film, e nei suoi numerosi seguiti, si scopre che in un futuro non troppo lontano (nel primo film si cita addirittura l’anno 1997) una rete di computer chiamata Skynet diventa cosciente e decide di prendere il controllo del pianeta sterminando tutti gli esseri umani. La macchina intelligente, il robot assassino, è presente nell’immaginario popolare fin dai tempi più remoti, quando l’automa veniva chiamato “golem” ed era la magia a evocarlo. Poi, con Asimov, ci fu l’upgrade da golem a robot e la scienza prese il posto della magia. Ma le paure sono rimaste le stesse. Quanto alla fine del mondo n° ⑪, l’invasione aliena, ci limiteremo a citare un divertente aneddoto su Orson Welles. Nel 1938, il futuro regista di Quarto potere lavorava alla radio e decise di raccontare un’invasione extraterrestre in uno sceneggiato radiofonico, strutturato però come un giornale radio. Orson Welles credeva di avere avuto un’idea originale e divertente, invece gettò nel panico milioni di americani che si sintonizzarono a metà della trasmissione e non capirono che si trattava di una fiction. Il programma scatenò un’emergenza nazionale, con le strade intasate da migliaia di persone convinte che la radiocronaca fosse autentica. Nell’America anteguerra la paura degli alieni era terribilmente concreta.

L’ultima fine del mondo fantascientifica è la più strana di tutte e si basa sui paradossi che nascono inevitabilmente con i viaggi nel tempo. ⑫ La scomparsa della nostra “linea temporale”. Il concetto è semplice ma difficile da digerire: supponiamo che si possa andare nel passato e, una volta arrivati, cambiare qualcosa… come fece un personaggio di Ray Bradbury che nel 2055 si iscrisse a un “safari temporale” per uccidere un T-Rex, ma uscì per un istante dal sentiero previsto e schiacciò una farfalla. Tornato nel suo tempo, l’uomo scoprì che il suo mondo non esisteva più e si ritrovò invece in una società oppressa da una feroce dittatura. È anche per via di questo racconto che è nato il concetto di effetto farfalla (diventato poi un caposaldo della teoria del caos), ovvero l’idea che in certe circostanze un cambiamento minimo possa avere conseguenze devastanti.

Ho tralasciato qualche fine-del-mondo essenziale? Scrivetemi!

 

L’orgoglio di Codera

Esplorare la Val Codera è un atto di fede. Giunti nella bassa Valchiavenna, oltre l’estremo Nord del Lago di Como, ci si trova di fronte ad altissimi bastioni, coperti di boschi e solcati da un impetuoso torrente. Da lì, non si vede nessuna valle. Le uniche due opzioni sembrerebbero quella di tornare indietro, oppure aspettare che, come per incanto, la montagna apra le sue braccia e ci lasci entrare. Alcuni gradini mimetizzati portano a un casolare antico di cui è impossibile dire se sia l’ultima casa del paese di Novate Mezzola (So) o se al contrario si tratti della prima casa, rotolata giù come un dado, del borgo di Codera.

Val Codera
(C. Vanadia)

Il sentiero entra in una fessura della roccia come un foglio sottile. Esiste un modo di dire secondo cui la valle sarebbe stata fatta da Dio solo alla fine della creazione, con i sassi rimasti dalle altre montagne… o forse addirittura all’inizio, quando ancora non aveva preso la mano nella costruzione delle valli. In realtà, a dare ordine a quello che sembra il regno del caos è proprio la linea del sentiero, che attraversa le prime balze coltivate a castagni per poi tagliare, con una serrata sequenza di gradoni in granito, una grande parete. A ricordare la natura caotica della valle c’è però il fragore continuo del torrente che accompagna il viandante per quasi tutte le due ore di cammino. Pur senza mai apparire, la sua voce porta con sé tutta l’energia che si scarica dalla montagna.

Codera comincia a raccontarsi molto prima che il borgo appaia agli occhi. Il primo indizio è il silenzio. Fino alla metà del secolo scorso, passando da qui, la salita sarebbe stata cadenzata dal picchiettio dei picapedra, i cavatori del granito sanfedelino. L’estrazione della pietra non era l’attività principale di chi abitava da queste parti. Non da sempre. La storia dei pica-pedra (tagliatori, scalpellini e rifinitori) è legata infatti allo sviluppo delle città e all’infittirsi della rete ferroviaria. Le lastre di granito sanfedelino venivano usate soprattutto per la pavimentazione di strade e cordoli di marciapiede. Il nome viene dal tempietto romanico dedicato a San Fedele, nei cui dintorni fu avviata la prima attività di estrazione nel Settecento. Le cave aumentarono di pari passo alla crescita delle città della Pianura Padana, arrivando fino dentro alla Val Codera. Sui gradoni sono evidenti i buchi scavati dallo scalpello per far leva e spaccare il granito lungo le sue venature. L’enorme parete grigia, ancora oggi che non si estrae più niente, restituisce la sensazione di un lavoro rischiosissimo, esposto alle intemperie e alle frane, alle esplosioni e alle dita pestate, alla malsana polvere minerale. Il rumore dei colpi che ripetutamente battevano sulla pietra non c’è più, oggi si sente gocciolare l’acqua dalla parete. Una strada invisibile di roccia e umanità collega la pianura a queste cime. Un impasto di granito, lavoro, tecnica e sofferenza tiene insieme la montagna e i marciapiedi di Como, Milano, Pavia e Bologna.

Val Codera
(C. Vanadia)

Il sentiero prosegue. Quasi in ogni punto in cui si fa più panoramico, più stretto o più impervio si trova una cappelletta o un’edicola votiva, cadenzando il percorso fino all’arrivo al paese. Questi luoghi ci dicono tantissimo: del bisogno di protezione di fronte alla natura selvaggia; della necessità di dichiarare la propria identità collettiva in un’area di confine tra cattolicesimo, calvinismo, eresie e antiche tradizioni pagane legate al bosco e alla montagna; infine anche dell’ordine sociale in cui i più possidenti rendevano visibile il proprio ruolo erigendo le edicole.

Codera appare quando si è circa a metà del cammino, come un nido di granito ai piedi di monti aspri e svettanti. Si vedono i terrazzamenti, il campanile, l’oratorio, la scuola (oggi una locanda) e l’osteria. La valle è esposta a sud e le case, come a Savogno, sono sistemate in modo da prendere più sole possibile. Ci si sente protetti tra questi vicoli, e sembra che le case vicine tra loro vogliano scaldarsi a vicenda. Ci restituiscono il senso simbiotico, a volte confortante altre asfissiante, delle comunità che abitavano qui, tutte insieme, tutte aggrappate alla stessa cengia come se vivere fosse possibile come specie più che come individui.

Codera
(C. Vanadia)

Codera non è mai del tutto disabitata e le case abbandonate sono poche. Di certo il paese (come tanti altri) si è spopolato a partire dal secondo dopoguerra, quando l’Italia ha deciso di puntare all’industrializzazione. Si potrebbe dire che oggi è un paese abitato “a staffetta”. A turno ci sono sempre famiglie che si stabiliscono qui anche per lunghi periodi. Pochissimi, però, sono quelli che vivono e lavorano a Codera. Oltre ai gestori della locanda e dell’osteria alpina, c’è un pastore di capre che vive tra queste montagne dal 2008. A mantenere il fragile tessuto di una comunità montana ancora produttiva c’è un’associazione che da anni intraprende attività di recupero e cura di orti e terrazzi coltivando fagioli, patate e granturco. Piccoli musei etnografici diffusi per i vicoli del borgo raccontano il modo in cui si viveva qui e le diverse attività che si conducevano fino agli anni Sessanta. Ci sono corsi per imparare a costruire i muretti a secco. C’è la festa del Bu Marz, in cui con i campanacci si svegliano simbolicamente i prati dopo l’inverno… Fino a oggi tutto questo, unito all’amore dei camminatori, degli scout che qui si rifugiarono durante il fascismo, degli abitanti dei paesi di fondo valle, ha mantenuto una certa magia accesa. Ma oggi il paese è in bilico, rischia da un lato l’abbandono, dall’altro di trasformarsi in museo.

Il pastore, nei pascoli appena fuori dall’abitato, si confida delle sue paure. Circondato dalle sue capre, dice che la montagna ha prima di tutto bisogno di pastori, di animali, di nuove idee per l’economia di montagna e di braccia che raccolgano il fieno e curino i boschi. La sua paura più grande è diventare una cartolina. Non gli importa affatto di abitare in un “paese incantato in cui il tempo si è fermato”, e sente il peso di essere pensato come l’ultimo pastore. Vorrebbe sentirsi parte di una comunità attiva anche quando a Codera i turisti non ci sono, nei pomeriggi feriali quando gli escursionisti non sono saliti; la sera, quando cala il buio e le persone con i loro animali si accucciano in cerca di protezione sotto le piode.

L’Intelligenza artificiale “reinventa” le leggi della fisica

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A volte le notizie vanno al di là dei semplici fatti che raccontano, e ci fanno riflettere su questioni più profonde, come la natura stessa della scienza e della conoscenza, della nostra capacità di capire il mondo e di descriverlo per mezzo di equazioni e modelli. Per questo ha destato stupore e attenzione un nuovo algoritmo, sviluppato da uno scienziato del Princeton Plasma Physics Laboratory (Pppl) del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti (Doe), che si è dimostrato capace di prevedere in modo accurato il movimento dei pianeti nel Sistema solare senza conoscere alcuna legge della fisica.

Il vero obiettivo: la fusione nucleare

In realtà l’autore dello studio, il fisico Hong Qin, non era tanto interessato ai pianeti quanto alla fusione nucleare (v. tweet sotto). Cioè a quel processo che avviene nel cuore delle stelle e che ora gli scienziati vogliono riprodurre sulla Terra, per generare energia. Le difficoltà tecniche sono enormi, uno degli ostacoli è proprio la complessità dei calcoli necessari a simulare il comportamento del plasma (cioè il gas ionizzato ad altissima temperatura) che si trova nel cuore del reattore. Dunque Qin stava lavorando proprio a questo, a sviluppare nuovi metodi basati sull’intelligenza artificiale per simulare il comportamento del plasma in un reattore.

Prima di affrontare il problema complicato, però, ha messo alla prova il suo algoritmo con un problema più semplice, quello di determinare le orbite dei pianeti del Sistema solare, appunto. E ha pubblicato il risultato su Nature Scientific Reports.

La forza del machine learning

L’algoritmo di Qin utilizza più esattamente il machine learning (apprendimento automatico), una forma di intelligenza artificiale che apprende dall’esperienza, per sviluppare previsioni. «Di solito, in fisica, fai osservazioni, crei una teoria basata su quelle osservazioni e poi la usi per prevedere nuove osservazioni», ha dichiarato lo scienziato. «Quello che faccio io è sostituire questo processo con una “scatola nera” in grado di produrre previsioni accurate senza utilizzare una teoria o una legge tradizionale». Il suo programma usa i dati delle osservazioni di Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove e del pianeta nano Cerere, e “impara”: quindi è in grado di prevedere le loro orbite. «Vado direttamente dai dati ai dati», dice Qin. «Non vi è alcuna legge della fisica nel mezzo».

Tante domande

Tokamak
Un reattore per la fuzione nucleare a San Diego, Usa (Wikimedia Commons).

L’esperimento solleva domande profonde su che cosa significhi davvero “capire”. La comprensione comporta qualcosa di particolare nella mente di chi sta capendo, oppure è una semplice esecuzione di regole? E le teorie sono davvero necessarie alla comprensione del mondo, o tutto si riduce a un accumulo di dati? Si potrebbe poi, ancora, riflettere su che cosa distingue la nostra da altre forme di intelligenza, a partire da quella artificiale. E sui rischi che un giorno il machine learning o altre forme di intelligenza artificiale possano prendere il sopravvento anche in campo scientifico, magari per giungere a una comprensione del mondo più profonda e a noi preclusa.

«Direi che l’obiettivo finale di qualsiasi scienziato è la previsione», taglia corto Qin. «Potrebbe non esserci bisogno di una legge. Per esempio, se posso prevedere perfettamente un’orbita planetaria, non ho bisogno di conoscere le leggi di Newton. Si potrebbe pensare che così facendo capiremmo meno che se conoscessimo le leggi di Newton, e in un certo senso è vero. Ma da un punto di vista pratico, fare previsioni accurate non significa fare niente di meno».

Per saperne di più

L’articolo originale di Hong Qin
• Il comunicato stampa 
Il progetto AI Physicist sviluppato da Tailin Wu e Max Tegmark al MIT di Cambridge, Massachusetts