Con gli occhi chiusi e le narici spalancate, si rimane immobili ai piedi delle Cascate dell’Acquafraggia. Siamo in Valchiavenna, in provincia di Sondrio, dentro una nuvola d’acqua nebulizzata che scompone la luce in mille colori. Si respira il vigore con cui il torrente si tuffa nel nulla, e si è spinti a guardare in alto, dove inizia il volo. Dove il ghiacciaio che scendeva di traverso dalla Val Bregaglia fino a quindicimila anni fa ha staccato la parte bassa della montagna. Quello scontro tra forze ha generato i salti della cascata, e al tempo stesso ha intagliato il terrazzo pensile da cui si affaccia Savogno, un borgo la cui natura profonda è la sospensione. Sospeso nello spazio, in bilico tra le montagne. Sospeso nel tempo, al riparo dalla modernità.
C’è un legame profondo tra la valle dell’Acquafraggia e il villaggio alpino sovrastante, un intreccio di relazioni tra gli elementi del paesaggio: il ghiaccio, l’acqua, il granito di cui sono fatte queste montagne, i boschi, i faggi, i castagni. E l’uomo, con la sua capacità di adattamento e l’ingegno nell’uso delle risorse disponibili. Emblema di questa alleanza tra uomo e natura è la mulattiera che conduce dalle cascate al borgo, unica via di collegamento tra il paese e la valle in basso. Un sentiero pazientemente costruito a mano, alternando le alzate ricavate da sottili lastre di granito e le pedate realizzate in acciottolato.
Salire i 2.886 gradini che percorrono in senso opposto la corsa dell’acqua è come seguire il filo di questo antico dialogo. In basso, il bosco è fresco e fitto, rigoglioso anche per la presenza della vicina cascata; e non ci vuole molto per accorgersi che è tutto cadenzato da terrazze con muretti a secco, servite per rubare un po’ di piano alla montagna che sale in verticale.
In passato, castagni e viti erano curati in questi spazi dagli abitanti che scendevano dal paese, ogni giorno, verso le stalle basse (in località Stalle dei Ronchi) usate come punto d’appoggio per il lavoro agricolo e pastorizio. Oggi resta solo lo scheletro delle costruzioni. Il peso della neve ha fatto crollare alcuni tetti, le felci e i rovi abitano dentro le stalle e sui muretti vivono rigogliose comunità di muschi e licheni. Hanno fatto molta più fatica le persone a costruire e tenere pulite le balze coltivabili nel corso dei secoli che il bosco a riprendersi la terra in meno di cinquant’anni. Questo paesaggio è come un fossile, come un’impronta. C’è, ma al tempo stesso è assente. Solo le fontane – divise in vasche per gli animali e per le persone – sembrano non aver dimenticato niente.
La scalinata è composta da 2.886 gradini di granito, tutti realizzati a mano
Dopo aver percorso la salita, quando si arriva alla radura su cui sorge il paese, si è subito colpiti dalla dimensione delle case, insolitamente grandi e decorate per gli insediamenti di questo tipo. Altro fatto inusuale, le stalle si trovano ai margini del borgo. Sono realizzate in pietra, molte si sviluppano su più piani e hanno loggiati in legno. Sono orientate a favore di sole, in modo da garantirsi il calore e luce.
Come i flussi delle persone e delle merci, da sempre le sorti del paese sono state dettate dalla forma della montagna. Da qui passa la rotta che dalla Valchiavenna conduce alla Val di Lei, e di qui infine alla Svizzera. E quei gradini sono stati calpestati non solo dalle suole di chi scendeva e risaliva per andare a lavorare la terra, ma anche dagli zoccoli delle mandrie che salivano agli alpeggi e ai ricchi pascoli estivi. Lungo la mulattiera, non a caso così ben disegnata e curata, transitava la ricchezza di Savogno: formaggi, pelli e legname, tutti prodotti che scendevano dalla montagna per entrare nei circuiti commerciali di Piuro e Chiavenna. La chiesa, che svetta sull’intera valle con il suo rarissimo campanile quattrocentesco, è dedicata a Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici, dei pastori e dei macellai.
Più ci si addentra tra i vicoli, più si ha la sensazione di essere avvolti dal paese. Oltre ai muri e ai tetti, anche le fontane, i tavoli e i pavimenti delle piazzette sono fatti di granito rubato alla montagna. È un’immersione negli odori e nei suoni ancestrali: l’odore dei camini, quello del fieno o il suono dell’acqua che scorre nelle vasche. Poggiare le mani sulle pareti di Savogno è come toccare la montagna aguzza, trasformata in rifugio solido e caldo.
Le famiglie che hanno abitato in questo luogo hanno partecipato per secoli a una danza complessa, muovendosi in equilibrio tra le forze della natura. A fasi alterne, questo dialogo non si è mai fermato fino agli anni ’60, quando le sirene di una vita più comoda hanno richiamato gli abitanti nelle città del fondovalle. Di quel dialogo rimane un’ultima voce che è possibile ascoltare percorrendo i gradini che portano a Savogno, il borgo sospeso nello spazio e nel tempo.
Carmelo Vanadia