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Elezioni: la matematica dell’equità

La situazione è grave ma non seria, avrebbe detto Ennio Flaiano a commento della tragica Marcia su Capitol Hill che abbiamo visto sui media. Ma quella è stata solamente l’ultima pagina, la più buia, del percorso che ha portato all’elezione del nuovo POTUS. Il potus non è una qualche pianta ornamentale da appartamento, ma l’acronimo utilizzato nel mondo anglosassone per il President of the United States. 

Grandi elettori. Più di qualcuno negli ultimi mesi si sarà interrogato, infatti, sui meccanismi elettorali degli Usa e su come si determini il numero dei grandi elettori. Ebbene, questi sono pari al numero dei senatori, 100, ovvero 2 per ogni Stato, più quello dei 435 rappresentanti al Congresso ripartiti tra gli Stati proporzionalmente all’ultimo censimento, più ulteriori 3 per il District of Columbia, ovvero il territorio amministrativo dove si trova Washington. Ma proprio la specificazione “proporzionalmente all’ultimo censimento” è tutt’altro che ovvia. 

Il meccanismo usato per la ripartizione dei seggi al Congresso, negli Usa, è sempre stato molto controverso

Come ripartire i seggi al variare della popolazione e al variare del numero degli Stati è stata una delle vicende politico-matematiche più interessanti della storia degli Stati Uniti. Il meccanismo usato per l’allottment, ovvero la ripartizione dei seggi al Congresso, è stato sempre molto controverso. Fu modificato ripetutamente a partire dal famoso veto di George Washington, alla prima proposta di cambiamento fatta da Thomas Jefferson, fino al Teorema di impossibilità di Balinski-Young del 1983.

Tanti paradossi. Questo teorema afferma che non esiste un metodo equo da tutti i punti di vista, ovvero che assegni ad ogni Stato il numero di seggi più vicino, per eccesso o per difetto, al quoziente dato dalla popolazione totale diviso il numero di seggi, e che sia privo di casi limite paradossali. I paradossi più noti sono: il paradosso dell’Alabama, per cui in certe situazioni, potrebbero diminuire i seggi assegnati a uno Stato, anche se aumentasse il totale dei seggi messi in palio e la popolazione rimanesse uguale ovunque, e il paradosso della popolazione, per cui potrebbero diminuire i seggi attribuiti a uno Stato a favore di un altro, anche se la sua popolazione aumentasse più che nell’altro. 

Il Teorema di Balinski-Young (1983) afferma che non esistono sistemi elettorali privi di paradossi

Ecco un’illustrazione del paradosso dell’Alabama. Supponete che tre Stati A, B e C abbiano una popolazione rispettivamente di 2 milioni, 3,4 milioni e 4,8 milioni, e che ci siano 7 seggi in palio.

Voto
Tutti i sistemi elettorali possono portare a paradossi, come quello dell’Alabama (Foto di Element5 Digital da Pexels).

Il metodo più ovvio, che avrebbe voluto Jefferson, sarebbe quello di considerare quante volte la quota 10.200.000/7≈ 1.457.142 è interamente contenuta nei tre valori e poi assegnare i seggi rimasti a chi ha i resti più grandi. Ciò darebbe ad A un seggio con resto 542.858, a B due seggi con resto 485.716 e a C tre seggi con resto 428.574. Resterebbe quindi un seggio non assegnato che andrebbe ad A, che ha il resto più alto. Ma se adesso si decidesse di assegnare 8 seggi ai tre Stati, ovvero uno in più, e inoltre la popolazione di A addirittura crescesse fino a 2,1 milioni, cosa succederebbe? La quota diventerebbe 10.300.000/8 = 1.287.500 e quindi A avrebbe un seggio con resto 812.500, B due seggi con resto 825.000 e a C tre seggi con resto 937.500. Resterebbero quindi due seggi non assegnati che andrebbero a B e a C e quindi A, pur avendo aumentato la popolazione ed essendo aumentati i seggi perderebbe un rappresentante.

In Italia? C’è il metodo “dei divisori”. Per non incorrere in queste situazioni paradossali, oggi negli Stati Uniti si usa un sistema simile, ma non esattamente uguale, a quello utilizzato in Italia per ripartire i seggi, per esempio, tra le liste che hanno sostenuto un candidato sindaco. Dopotutto, assegnare i seggi in base alla popolazione oppure ai voti è, matematicamente, lo stesso problema di ripartizione. Il metodo usato in Italia è dovuto al matematico belga dell’800 Victor D’Hondt, detto anche metodo dei divisori.  

Honsell
Furio Honsell, docente di Teoria degli Automi all’Università di Udine.

Per illustrare la questione vi propongo un problemino. Supponiamo che vi siano 4 seggi in palio, 4 i partiti nella coalizione che ha eletto il sindaco, e 100 voti in tutto. Supponiamo che il partito A abbia ricevuto 48 preferenze, il partito B ne abbia ricevute 29, il partito C 16 e il partito D 7. Come pensate che sia più equo distribuire i 4 seggi? 

L’equità è relativa. Non si può dare una risposta assoluta alla domanda, perché dipende dal concetto di equità di ciascuno di noi. Relativamente alle teorie della ripartizione, invece si può. Tutti i metodi concordano che al partito A devono andare 2 seggi, al partito B un seggio… ma a chi attribuire l’ultimo seggio?  Il metodo del quoziente di Hamilton-Jefferson ripartisce i seggi pesandone ognuno con un numero di voti a priori, 25 voti in questo caso. Eventuali seggi non assegnati vengono poi ripartiti a chi ha il resto più alto: quindi 2 ad A, uno a B e uno a C. Il metodo dei divisori di d’Hont pesa ogni seggio a posteriori. Il peso è un numero di voti che permette di assegnare tutti i seggi senza lasciare resti maggiori del suo valore a nessun partito, per difetto o per eccesso. In questo caso un seggio vale qualunque numero strettamente maggiore di 15 e minore o uguale a 16.  Quindi ad A vanno 3 seggi, uno a B e nessuno a C e a D. A voi dire se vi sembra equo.

La matematica è più equa di quanto sembri: pretende che ognuno si assuma la sua responsabilità nella scelta del metodo

Tutti i metodi dei divisori non sfuggono al Teorema di Balinski-Young perché hanno il difetto che in certe situazioni assegnano un numero di seggi addirittura superiore (come nel caso sopra) o inferiore alla quota a priori arrotondata per eccesso. Il metodo D’Hondt usato in Italia premia infatti i partiti più forti di una coalizione a scapito di quelli più deboli. Osservazione, questa, che dedico in particolare a chi ha ambizioni elettorali. 

Quindi la morale qual è? Non è possibile calcolare l’equità? Forse sì. Sperare che i numeri possano compiere per noi le scelte etiche sarebbe troppo facile. Ma forse proprio così la matematica è molto più equa di quanto sembri: pretende che ognuno si assuma la propria responsabilità nella scelta del metodo!

Furio Honsell

Furio Honsell è docente di Teoria degli Automi all’Università di Udine. Ha pubblicato oltre un centinaio di articoli scientifici sui fondamenti della matematica, la teoria dei tipi, la semantica dei linguaggi di programmazione, la dimostrazione formale e la certificazione formale del software, il lambda-calcolo, la teoria dei giochi, e la salute pubblica. Svolge inoltre un’intensa attività di promozione dell’alfabetizzazione matematica e della cultura del gioco come strumento di inclusione sociale. Attualmente cura la rubrica Giochi Furiosi sul supplemento Enigmistica del Sole 24 Ore. Ha pubblicato alcuni libri di giochi matematici (L’algoritmo del Parcheggio, Mondadori 2007). Ha collaborato con la trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio dal 2003 al 2006. Dal 2011 al 2018 è stato Presidente di GIONA, l’associazione nazionale dei comuni italiani che promuovono il gioco. 

Viaggio in una stella di neutroni

Già dagli anni ’30 del Novecento, dopo la scoperta dell’esistenza dei neutroni, si riteneva possibile in via teorica l’esistenza di un oggetto stellare composto solo da queste particelle elettricamente neutre. L’idea fu proposta da Walter Baade e Fritz Zwicky, in una nota a pie’ di pagina di un articolo del 1934 che si è rivelato uno dei più lungimiranti in astrofisica e che prevedeva anche l’esistenza delle supernove.

Una sfera perfetta. Una stella di neutroni è infatti quel che resta di un’esplosione di supernova, un fenomeno catastrofico che segna la morte di una stella massiccia, con massa pari a decine di volte il sole. In estrema sintesi, una stella di neutroni è un oggetto con un diametro di circa venti chilometri, con una massa superiore a quella dell’intero Sistema solare, che può ruotare al ritmo di 700 rivoluzioni al secondo ed è così sferico che la sua imperfezione più “vistosa” è al di sotto del millimetro.

Una stella di neutroni a confronto con la città di Monaco di Baviera, in Germania (ESO/ESRI World Imagery, L. Calçada). La massa di questi corpi celesti è superiore a quella del Sole, ma è compressa in volumi molto più piccoli.

Quello che dovete provare a visualizzare è un corpo celeste che abbia le dimensioni di una città come Francoforte o Milano, ma la cui massa è semplicemente enorme e la cui densità è assolutamente inimmaginabile per il nostro senso delle scale fisiche. Stiamo parlando di densità che sono un milione di miliardi di volte quella dell’acqua; un solo centimetro cubo di materiale proveniente da una stella di neutroni – vale a dire quanto una zolletta di zucchero – contiene una massa pari all’intera catena alpina, dalle Alpi Liguri a quelle Friulane.

Un cucchiaio di materia di una stella di neutroni ha la stessa massa di tutte le Alpi

Se già, dunque, facciamo fatica a immaginarle, come sono fatte al loro interno le stelle di neutroni? In realtà non lo sappiamo, ma ci sono alcuni aspetti della loro composizione sui quali tutti concordano. Per esempio, è abbastanza chiaro che una stella di neutroni non è fatta di soli neutroni, e contiene al suo interno anche altre particelle, sebbene in quantità ridotte. Ci sono di certo altri costituenti degli atomi come i protoni e gli elettroni, e proprio questi ultimi, con altre particelle cariche leggere, sono in grado di produrre le enormi correnti elettriche necessarie a generare gli imponenti campi magnetici che osserviamo. Inoltre, è abbastanza chiaro che la struttura di una stella di neutroni debba essere caratterizzata da alcune zone, i cui spessori ci sono noti con una certa precisione.

Luciano Rezzolla
Luciano Rezzolla è direttore dell’Istituto di fisica teorica alla Goethe Universität di Francoforte e membro del comitato scientifico dell’Event Horizon Telescope (EHT), che ha realizzato la prima foto di un buco nero.

Sottile atmosfera. Immaginiamo dunque di “entrare” in uno di questi corpi celesti, partendo dalla superficie e muovendoci verso il centro.­ Fare questo viaggio è in realtà impossibile perché le forze mareali a cui saremmo sottoposti ci distruggerebbero ben prima di avvicinarci alla superficie della stella. Possiamo tuttavia fare un viaggio con la mente, e in questo caso il primo strato che incontreremmo è una sorta di atmosfera: una buccia sottilissima, di spessore non superiore al centimetro, composta da atomi estremamente pesanti e con una densità miliardi di volte superiore a quella della nostra atmosfera. Per quanto estreme, le proprietà di questa atmosfera sono abbastanza chiare, e la sua fisica è relativamente ben testata, tanto che la riteniamo un elemento “noto”. Per quanto paradossale, l’unica parte di un oggetto con un raggio di una dozzina di chilometri che pensiamo di conoscere in dettaglio, a livello di proprietà, ha uno spessore di non più di un centimetro.

Come la Terra, anche una stella di neutroni ha una struttura a cipolla, con un’atmosfera, una crosta e un nucleo

Una “crosta” morbida. Muovendoci verso il centro, al di sotto dell’atmosfera troveremo quella che viene chiamata la crosta, vale a dire uno strato con uno spessore di circa uno o due chilometri, che contiene una serie di ioni pesanti – ossia con grande massa atomica – ma anche elettroni dall’energia estremamente elevata. È bene sottolineare che il termine “crosta” può esser fuorviante, in quanto si tratta in realtà di un materiale elastico e deformabile, simile piuttosto a una sostanza plastica estremamente densa. Parte della materia della crosta presenterà una struttura periodica e regolare in cui gli ioni sono a distanze precise e gli elettroni sono liberi di muoversi negli spazi lasciati vuoti. Questo tipo di struttura a reticolo è quello che incontriamo usualmente nei metalli e nei cristalli, ed è responsabile delle loro proprietà meccaniche.

Nebulosa del Granchio
La Nebulosa del Granchio, nella costellazione del Toro, a circa 6 mila anni luce da noi. È quel che resta di un’esplosione di supernova, e ospita al suo centro una stella di neutroni che ruota 30 volte al secondo attorno al suo asse (ESO).

Verso i misteri del nucleo. Al di sotto della crosta – in uno strato che potrebbe estendersi per sei o sette chilometri – incontreremo quello che viene e definito il nucleo esterno; lì la densità raggiunge le migliaia o decine di migliaia di miliardi (insomma, 1013 o 1014) di grammi per centimetro cubo. Una densità enorme, ma non quella massima, che si incontrerà spostandosi verso la zona centrale, il nucleo interno, che ha anch’esso uno spessore di sei o sette chilometri. Le proprietà della materia nel nucleo interno rimangono sconosciute e rappresentano una sfida teorica eccezionale, con la quale i fisici nucleari si confrontano ormai da quasi quarant’anni. Forse l’interrogativo più importante riguarda la presenza di particelle esotiche come gli iperoni, o addirittura quark liberi (sono le particelle elementari che compongono neutroni e protoni).

Forse nel loro nucleo esiste in forma stabile la materia che era presente nelle prime fasi di vita dell’universo

In un mare di quark. In altre parole, è possibile che al centro di una stella di neutroni – in conseguenza della densità elevatissima raggiunta nel suo nocciolo più interno, il cui raggio non supera il paio di chilometri – i quark siano così addossati gli uni agli altri da diventare “liberi”, ossia da non essere più confinati all’interno di un neutrone o protone, e formino una cosiddetta zuppa di quark. Quest’ipotesi è particolarmente affascinante, perché sappiamo che una zuppa di questo genere doveva esser presente nei primissimi istanti di vita dell’universo, fino a un centesimo di secondo, e si produce per tempi brevissimi quando facciamo collidere ioni pesanti negli acceleratori di particelle. L’idea che questa zuppa sia presente invece in maniera stabile all’interno delle stelle di neutroni e possa essere in qualche modo rivelata – magari tramite l’emissione di onde gravitazionali – apre dunque spazi di ricerca che coinvolgono scienziati di tutto il mondo, me compreso.

Luciano Rezzolla

Luciano Rezzolla è direttore dell’Istituto di fisica teorica alla Goethe Universität di Francoforte e membro del comitato scientifico dell’Event Horizon Telescope (EHT), che ha realizzato la prima foto di un buco nero (Qui un suo Ted sulla scoperta).

Recentemente, ha pubblicato il libro L’irresistibile attrazione della gravità (Rizzoli), di cui questo brano è un estratto, adattato alla linea editoriale del sito.

Le 12 apocalissi (prologo)

Una delle breaking news del 2020, ben presto scomparsa dalle prime pagine, arrivava dalla Russia: alcuni scienziati hanno predetto che lo scioglimento dei ghiacci potrebbe riportare in vita antichi virus e batteri per i quali l’uomo non ha nessuna difesa immunitaria. Uno scenario inquietante, ma perfetto per iniziare nel modo giusto (e cioè partendo dalla fine) un viaggio nel più straordinario dei territori: l’immaginario popolare, e in particolare – per un vecchio divoratore di Urania come me – quello della fantascienza. 

Schemi ricorrenti

Scienza e fantascienza hanno riflettuto molto sulla fine del mondo, dipingendo scenari di ogni genere, da quelli oggettivamente probabili a quelli più assurdi. Anche la poesia ha detto la sua. Thomas Stearns Eliot, per esempio, conclude la sua poesia The Hollow Men (1925) con queste parole, This is the way the world ends / not with a bang but a whimper: È questo il modo in cui finisce il mondo / non con uno schianto ma con un piagnucolio (Mi piace pensare che l’ultima parola, whimper=piagnucolio, si possa tradurre come “vagito” e che quindi il poeta avesse in mente un universo che rinasce dalla culla, ma non ci scommetterei).

È questo il modo in cui finisce il mondo
non con uno schianto ma con un piagnucolio

Thomas Stearns Eliot, The Hollow Men (1925)

Ne parleremo più a fondo nei prossimi appuntamenti, ma le dodici piaghe esplorate dalla fantascienza catastrofica sono (Spoiler!), in ordine sparso: (1) la terza guerra mondiale seguita dall’inverno nucleare oppure da terribili mutazioni; (2) la sovrappopolazione; (3) l’inquinamento del pianeta con moltissime varianti; (4) la rivolta di Gea, ovvero l’eliminazione dell’umanità da parte di un ecosistema esasperato dalla nostra presenza; (5) la Terra colpita da un asteroide o altre catastrofi cosmiche; (6) lo scioglimento dei ghiacci con conseguente innalzamento dei mari e varie alterazioni climatiche; (7) una disastrosa epidemia, con la fantasiosa variante degli zombi; (8) l’eliminazione di tutti i maschi (o di tutte le femmine) per i più svariati motivi; (9) la distruzione del Sole per cause naturali o per un intervento alieno; (10) l’avvento di un’intelligenza artificiale ostile all’uomo; (11) la classica invasione aliena; (12) la cancellazione del nostro universo dalle possibili linee temporali, volutamente o per un tragico errore. 

Il polittico dell’Apocalisse di Jacobello Alberegno (1360-1390 circa), dipinto a tempera e oro su tavola conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Raffigura cinque scene dell’Apocalisse di Giovanni.

Tornando a noi, ovvero alla fine del mondo nell’immaginario popolare, iniziamo questo viaggio nella fantascienza catastrofica partendo dai terrori in voga un secolo fa, che abbiamo riassunto in sei romanzi fondamentali.

1826    L’ultimo uomo di Mary W. Shelley
[L’epidemia definitiva]

Ultimo uomo di Mary Shelley
Un’edizione dell’Ultimo uomo, di Mary Shelley.

Mary Wollstonecraft (1797-1851) divenne famosa con il cognome del marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, ma era lei stessa una scrittrice e la sua opera più nota – Frankenstein o il Prometeo moderno – è considerata il primo libro di fantascienza mai scritto. Mary, però, non si limitò a ideare e descrivere i macabri esperimenti del dottor Frankenstein, ma produsse anche libri di viaggi, biografie, opere poetiche, un numero imprecisato di racconti e diversi romanzi. Tra cui L’ultimo uomo (1826) che, oltre a essere la prima opera in assoluto che parla della fine del mondo (a parte L’Apocalisse di Giovanni), è anche uno dei rarissimi romanzi catastrofici in cui alla fine l’umanità scompare del tutto. In genere gli autori sono meno drastici, si limitano a distruggere la civiltà, ma lasciano aperto qualche spiraglio di riscossa futura. L’ultimo uomo inizia nel 2073, quando il re d’Inghilterra decide di abdicare per lasciare spazio a una repubblica… una predizione sorprendente, per una cittadina britannica dell’Ottocento.

Altrettanto curioso è che Mary Shelley preveda anche una guerra tra Oriente e Occidente, durante la quale si palesa un morbo che da Costantinopoli si espande fino all’Europa, alle isole britanniche e perfino all’America. Sempre meno interessati alla politica, i protagonisti cercano di fuggire in territori più salubri ma la malattia li insegue fino a uccidere l’ultimo uomo nel 2100. Brrrrr…

1885    Dove un tempo era Londra di Richard Jefferies
[Il Medioevo post-olocausto]

Anche se il naturalista britannico Richard Jefferies (1848-1887) non parla mai di date, se non facendo vaghi cenni a “migliaia di anni”, si intuisce che il mondo è stato sconvolto da una catastrofe, probabilmente una guerra. Curiosamente, le sue descrizioni di ciò che rimane di Londra assomigliano moltissimo, almeno per noi uomini moderni, a quelle dei territori bombardati o addirittura devastati da esplosioni atomiche (a parte le radiazioni). Comunque sia, nel mondo post-olocausto di Jefferies la popolazione è ridotta ai minimi termini e lo stile di vita è quello dei villaggi medievali. Viene in mente un aforisma attribuito ad Albert Einstein: “Io non so come si combatterà la terza guerra mondiale, ma so come si combatterà la quarta… con pietre e bastoni”.

1894    La fine del mondo di Camille Flammarion
[La catastrofe cosmica]

Il primo a descrivere un’apocalisse cosmica è il francese Camille Flammarion (1842-1925), che ipotizza l’impatto di una cometa contro la Terra. Flammarion non si limita a descrivere i disastri provocati dall’impatto ma – intelligentemente – si sofferma sulle reazioni umane all’annuncio della fine, che seguono due visioni opposte: c’è chi vuole speculare sul cataclisma, confidando di sopravvivere, e chi vorrebbe invece sfruttare la paura generale per promuovere un’unione dei popoli. L’opera di Flammarion è molto ingenua, ma resta la prima di questo genere. Volete sapere come va a finire? (spoiler!) La cometa non colpisce la Terra e tutti tirano un sospiro di sollievo, ma non è chiaro se a prevalere siano i “buoni” o i “cattivi”.

1897    La guerra dei mondi di Herbert G. Wells
[L’invasione aliena]

Una scena del film La guerra dei mondi (2005), tratto dall’omonimo libro di H.G. Welles.

Guerra dei mondi Wells
Un’edizione pubblicata sulla rivista statunitense Amazing Stories nel 1927.

Herbert George Wells (1866-1946) è uno dei padri nobili della fantascienza e La guerra dei mondi è uno dei suoi romanzi più famosi (a sinistra, in una versione pubblicata nel 1927 sulla rivista statunitense Amazing Stories). In estrema sintesi: sulla Terra arrivano astronavi marziane dalle quali escono gigantesche macchine a tre gambe che appaiono invincibili… ma proprio quando diventa evidente che l’umanità sta per subire una drammatica sconfitta, i misteriosi alieni muoiono a causa dei più infimi abitatori della Terra, virus e batteri.

1901    La nube purpurea di Matthew P. Shiel
[L’estinzione “naturale”]

Un altro britannico, Matthew P. Shiel (1865-1947) propone una versione molto originale della fine del mondo. Il protagonista del suo romanzo, Adam, partecipa a una spedizione al Polo Nord che libera involontariamente una nube venefica di colore rossastro che si espande nel mondo sterminando l’intera umanità. Alla fine, l’autore cede alla speranza, perché Adam sopravvive e viaggia fino a Istanbul dove incontra l’ultima donna. Chissà come si chiamerà lei?

1912    La peste scarlatta di Jack London
[L’epidemia quasi definitiva]

Jack London (1876-1916) non è solo uno scrittore per ragazzi. L’autore di Zanna Bianca e del Richiamo della foresta ha scritto anche romanzi molto drammatici, come Il tallone di ferro e soprattutto La peste scarlatta. Siamo nel 2073 (che coincidenza, proprio l’anno in cui inizia la narrazione dell’Ultimo uomo di Mary Shelley!) e sono trascorsi 60 anni da quando una disastrosa epidemia ha fatto tornare l’uomo all’età della pietra. In questo desolato mondo futuro, il vecchio James Howard Smith racconta ai bambini tutto ciò che è accaduto e com’era la vita prima.

Insomma, nella fantascienza dei primordi ci sono catastrofi per tutti i gusti: guerre, epidemie, invasioni aliene, distruzioni cosmiche, misteri della natura… Nei decenni successivi, con la diffusione della letteratura popolare e in particolare di quella fantascientifica arriveranno però anche le mode, la prima delle quali porterà alla ribalta gli alieni cattivi. Poi, negli anni Quaranta-Cinquanta arriverà il terrore dell’atomo. Ma di questo parleremo nei prossimi appuntamenti.

Mauro Gaffo

Mauro Gaffo (1955) è stato per un decennio tra i curatori della rivista amatoriale di fantascienza The Time Machine (1975-1987). Nel 1979 un suo racconto ha vinto il premio Robot. Negli anni ’80 è stato selezionatore dei romanzi italiani di fantascienza per la casa editrice Nord e, più recentemente, è stato giurato del Premio Urania. Dopo aver lavorato come redattore librario ha scelto la strada del giornalismo e ha avuto la fortuna di partecipare alla realizzazione del numero zero di Focus, rivista della quale è stato poi vicedirettore dal 2000 al 2013, quando è andato in pensione. Attualmente sta scrivendo una Storia della fantascienza attraverso i migliori romanzi usciti anno per anno.

Dieci secondi da leone

Siamo portati a pensare che i grandi predatori conducano, anche sul fronte della vita sessuale, un’esistenza abbastanza semplice, fatta di grandi prestazioni e femmine che si concedono a comando. A volte può andare così, ma… non si diventa maschio dominante per nascita, è un titolo che bisogna guadagnarsi sfidando i rivali in amore. E, a volte, può essere molto dura.

Piccoli predatori crescono

L’esempio più emblematico di maschio dominante è certamente rappresentato dal leone (Panthera leo), il più sociale tra i felidi. Le femmine, le leonesse, vivono in piccoli gruppi di sorelle e cugine, che occasionalmente possono accettare estranee. I maschi, invece, provengono sempre da altri nuclei familiari. Di solito funziona così: un giovane leone, o un piccolo gruppo di fratelli, dopo i due anni di età abbandona il branco dov’è nato per mettersi alla ricerca di un proprio territorio. Il “corso di formazione alla sopravvivenza” in savana può durare anche un paio di anni, duranti i quali i maschi vagano in cerca di guai nel bush, diventando sempre più fiduciosi nelle loro forze. Cercano di capire che cosa è buono da mangiare, che cosa è facile da catturare e quali sono i bidoni da evitare, come un istrice pieno di aculei o un tasso del miele con brutto carattere e ghiandole pestilenziali.

Non è vero che l’esistenza dei leoni è comoda: i maschi vivono in media dieci anni, contro i quindici delle femmine. E si sfiancano per mantenere il potere.

Di solito, a 4 anni di età, i leoni sono al massimo della forma, con una sontuosa criniera per fare scena, e per difendere il collo da morsi e zampate. A questo punto, chiudono la fase della vita da scapoli e partono all’assalto di un branco difeso da maschi ormai vecchi a fine carriera. Li sfidano apertamente ruggendo nelle ore notturne e urinando sulle loro tracce: lo scontro è inevitabile e prevede una battaglia che sancisce il vincitore. Le femmine in genere non partecipano e sono piuttosto disinvolte: vanno subito in calore per i membri del maschio o del gruppo vittorioso, dimenticandosi immediatamente dei re decaduti. A loro interessa soprattutto una cosa: avere i padri migliori per i loro figli.

Strage di cuccioli

Appena prendono il controllo del branco, i giovani leoni si mettono subito all’opera con le femmine. Ma queste, se hanno già dei cuccioli, non sono affatto propense a ricambiare le attenzioni. I nuovi arrivati, quindi, spesso li uccidono tutti in modo da riavere le leonesse fertili nel giro di pochi giorni e imporre la propria discendenza. Le mamme, ovviamente, cercano di difendere i cuccioli; ma lo scontro fisico è impari, e uno dopo l’altro gli sfortunati leoncini sono destinati a soccombere.

Un’altra scena di accoppiamento (F. Tomasinelli).

Una vita difficile

Questo feroce comportamento gioca a sfavore della reputazione, non sempre buona, del leone, sul quale però è necessario sfatare qualche mito. Sono in molti, infatti, a credere che l’unica sua preoccupazione sia quella di scegliere sotto quale albero sdraiarsi a dormire per venti ore di fila al giorno, aspettando che le leonesse catturino qualcosa da mangiare. Ma la vita del giovane maschio è, in realtà, molto più complessa. Quando riescono finalmente ad avere un loro branco, infatti, i leoni non possono assolutamente adagiarsi sugli allori. C’è sempre qualcosa da fare: pattugliare il territorio, tenere a bada altri leoni che vogliono soffiar loro le femmine, fare a botte con i branchi di iene che li disturbano in continuazione e, quando sono di buon umore, aiutare le leonesse nella cattura delle prede più difficili, come i bufali. Sono tutti lavori usuranti, che giustificano i lunghi riposi che si concedono. E infatti i maschi tendono a vivere molto meno delle femmine: di solito non superano i 10 anni, contro i 15 delle compagne. Come se non bastasse, è loro richiesta una prestazione sessuale di livello con tutte le leonesse sotto la loro protezione.

240 volte al giorno

Non è un compito da poco. Le leonesse, infatti, tendono ad andare in estro tutte insieme nello stesso periodo, per circa quattro giorni, in modo da sincronizzare la nascita delle cucciolate 110 giorni dopo: così possono aiutarsi a vicenda nelle cura dei piccoli, consentendo ad alcune di andare a caccia mentre le altre fanno da baby-sitter. Quando il richiamo della natura arriva, bisogna ammetterlo, le leonesse non sono molto castigate, e per i leoni non c’è da mettere in atto alcuna opera di convincimento. D’altronde, una volta che sei il capobranco, non hai più nulla da dimostrare: zero parole solo azione, meglio di Chuck Norris. Non c’è neppure bisogno di impegnarsi, è la femmina che invita il maschio, fa tutto lei e va subito al sodo. Lui la accontenta subito e la copre, stantuffa brevemente, la morde sul collo per indurre sottomissione, infine rilascia il seme con un ruggito di soddisfazione (Il video mostra l’intera durata dell’accoppiamento, E. Scoti e F. Tomasinelli). Durata totale: circa 10-15 secondi, una cosa rapida e ben fatta, senza esitazioni… molti di voi si sentiranno in dovere di ridicolizzare quei 15 secondi: “E questo è un maschio dominante? Io faccio molto meglio”. Ma vi manca il resto della storia: un leone si accoppia ogni 20 minuti circa per gran parte della giornata: 3 amplessi all’ora per 20 ore al giorno per 4 giorni. Quanto fa? 240 copulazioni! E tutte con una copiosa eiaculazione.

Ovulazione e fecondazione

Si potrà forse pensare, di fronte a questi fatti, che nei giorni dell’estro le leonesse siano un branco di ninfomani. Il motivo della loro frastornante attività sessuale va però ricercato nella necessità da parte del maschio di indurre l’ovulazione (cioè il passaggio dell’uovo dall’ovario all’utero, per consentire la fecondazione) nella femmina, che risulta davvero fertile solo dopo essere stata adeguatamente stimolata. Per questo, il leone è dotato di una ricca collezione di escrescenze lungo il pene. A giudicare dal ruggito che le femmine emettono quando il maschio si ritira, questo ornamento non sembra una grande idea: per lo meno nel momento del distacco, sembra dare fastidio se non dolore. Però, di certo, è efficace dal punto di vista fisiologico. 

Solo il maschio dominate può vantare la paternità dei cuccioli nati nel branco

In conclusione, il fatto che per le leonesse estro e ovulazione non coincidano serve a impedire che un qualunque leone di passaggio possa fecondarle con un fugace rapporto. Solo il maschio veramente dominante può vantare la paternità dei cuccioli nati nel branco. Ma il maschio dominante può essere generoso con i suoi fratelli meno autorevoli che vivono con lui, e consentire anche a loro di farsi un giro con le sue femmine. Così si diluisce l’aggressività nel gruppo e non ci sono risentimenti. Il sesso, tra i leoni, viene usato per mantenere la pace nel branco e garantire un po’ di ordine. Dunque il principio di base è: sesso (abbastanza) libero, purché resti tutto in famiglia.

Francesco Tomasinelli

Il sito web di Francesco Tomasinelli: www.isopoda.net.

Francesco Tomasinelli è fotogiornalista specializzato in scienza, viaggio e natura.

Laureato in scienze ambientali, ha scritto e illustrato con le sue immagini 7 libri su animali e aree protette, oltre ad aver progettato mostre scientifiche per musei in tutta Italia.

Lavora anche come consulente in studi sulla biodiversità e le opere di miglioramento ambientale, ed è ospite regolare della trasmissione di Rai3 GEO come esperto di animali ed ecologia.

È diventato un accanito sostenitore della virilità del leone dopo averlo visto all’opera con le leonesse in Africa per decine di volte.

I dilemmi della bioetica

Dalla clonazione all’editing genetico, la crescita tumultuosa di scienza e tecnologia rende oggi praticabili cose un tempo neppure immaginabili. Parallelamente, si moltiplicano le domande sulla liceità delle scelte e chi abbia titolo per operarle: al punto che, già solo per quanto riguarda la medicina e la stessa biologia, si è reso necessario elaborare un pensiero etico con una propria identità rispetto all’etica tout court e anche una propria denominazione – bioetica – con un vero e proprio atto di nascita: il saggio dell’oncologo Van Rensselaer Potter II (1911-2001) Bioethics. Bridge to the Future, dove si sottolinea l’importanza di un ponte tra il terreno della filosofia – al quale l’etica appartiene – e quello della scienza, particolarmente quella della vita, che sempre più ha bisogno, per il suo agire, di una guida anche di carattere morale.

La bioetica è un termine che andrebbe declinato al plurale, fa osservare il filosofo Hugo Tristram Engelhardt (1941-2018), dipendente com’è dalla concezione filosofica di cui è parte: si pensi, per esempio, all’aborto volontario o all’eutanasia visti da credenti di fedi diverse o da atei. Senza contare i casi, ancora più complessi, dove la scelta non è guidata da princìpi già definiti, ma affidata pressoché interamente a valutazioni soggettive.

Per uscire dall’astrazione ecco, tra i molti, un caso concreto. Esistono oggi possibilità diagnostiche assai precoci, addirittura prenatali. Immaginiamo allora che una donna abbia il fondato sospetto che suo figlio possa essere affetto da córea di Huntington e ne richieda l’accertamento mediante la ricerca dei segni genetici: si tratta infatti di una forma patologica ereditaria che viene trasmessa ai figli con una probabilità del 50%.

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Neuroni affetti da corea di Huntington.

Questa malattia si caratterizza per una degenerazione neurologica che comporta violente scosse muscolari incontrollabili, gravi alterazioni della sfera cognitiva e un decesso precoce. Però si manifesta tardivamente, a 40-50 anni, mentre fino a quel momento il paziente gode di perfetto benessere. Se la risposta agli accertamenti diagnostici è positiva, alla madre si presenta un dilemma: rivelare o no al figlio – quando abbia raggiunto l’età adulta – la sua condizione? Un sì equivale a condannarlo a qualche decennio di un’inutile angosciosa, disperante attesa di drammatiche sofferenze che si concludono solo con la morte. Il no però espone al rischio che lui, nella fase asintomatica, generi a sua volta una prole la quale, nella metà dei casi, sarebbe affetta dalla stessa gravissima condizione patologica. Una terza via – quella di convincerlo a rinunciare alla paternità senza giustificarne il motivo – appare incerta e poco praticabile. Qual è allora il criterio per una scelta? Quello del male minore? E chi, se non colui che vi è esposto, può giudicare dell’entità di un male? Chi ne è esente (anche la madre) non può – al netto degli aspetti emozionali – far altro che decidere in base a criteri razionali: ma esistono, come per il calore o l’elettricità, unità di misura della sofferenza che rendano comparabili tra loro diverse fattispecie di dolore?  

Fino a qualche decennio fa, la cultura prevalente nel nostro mondo mediterraneo era quella di tacere pietosamente la verità ai pazienti affetti da forme morbose gravi ad esito infausto: attualmente, però, anche da noi prevale la considerazione del diritto del malato a conoscere la sua condizione. Ma qui non si tratta di informare un malato bensì una persona che, del tutto asintomatica com’è, è assimilabile a un sano. Ciò che va posto a confronto è una certezza – quella della sicura devastazione dell’esistenza di un individuo ignaro e ancora in perfette condizioni – contro due incertezze, quantunque gravissime se si realizzano: la prima è che quella che costui voglia o possa diventare genitore oppure no e la seconda che, in caso affermativo, il figlio erediti o non la malattia. Tutto questo conferma che di bioetiche, e non di bioetica, si dovrebbe parlare, e non soltanto a causa dei tanti codici morali elaborati dalle diverse culture, ma anche perché nessuno di essi può prevedere gli infiniti dettagli possibili di ogni circostanza, lasciandoci comunque soli di fronte alla decisione finale. Ma la solitudine è il prezzo della libertà.

Francesco Piscitello

Francesco Piscitello è stato durante l’intera vita professionale cardiologo ospedaliero, e nel corso della sua attività ha maturato l’interesse per i temi bioetici. È autore di numerose raccolte poetiche e ha svolto attività pubblicistica per le riviste Eos e Odissea.

Per saperne di più

V. R. Potter: Bioethics. Bridge to the Future. Prentice Hall (1971).

H. T. Engelhardt Jr., The Fundations of Bioethics. Oxford University Press (1986).