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Il ritorno di Apophis

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Nel 2004, poco dopo la sua scoperta, l’asteroide 99942 Apophis suscitò scalpore perché potenzialmente a rischio di impatto con la Terra. Il rischio calcolato arrivò a sfiorare il 3%, il massimo mai raggiunto, e sarebbe stata una catastrofe. Oggi sappiamo che il 13 aprile 2029, questo blocco di roccia largo circa 375 metri, come una nave da crociera, non si scontrerà la Terra, ma le si avvicinerà tanto da diventare visibile a occhio nudo. Si tratta di un fenomeno molto raro, che si stima si verifichi una volta ogni 5-10 mila anni. E per questo l’Esa ha deciso di dedicargli una missione, chiamata Ramses (Rapid Apophis Mission for Space Safety). Oggi è stato dato ufficialmente il via ai lavori di preparazione.

Dalla scoperta alle future missioni

Per saperne di più, e per ricordare la storia di questo corpo celeste che ha fatto molto parlare di sé nel bene e nel male, abbiamo sentito il suo scopritore, l’astronomo Fabrizio Bernardi, che dal 2008 si occupa del monitoraggio dei potenziali impatti con asteroidi per il servizio NEODyS, creato a Pisa da Andrea Milani (1948-2018, a lui è dedicata un’altra missione dell’Esa).

La scoperta di Apophis è attribuita a lei, a David Tholen e a Roy Tucker. Può raccontarci come è andata?

Apophis Scopritori
Gli scopritori dell’asteroide (da sinistra) Roy Tucker, David Tholen e Fabrizio Bernardi al Kitt Peak National Observatory nel 2005 (Foto F. Bernardi).

Abbiamo scoperto Apophis quando ero negli Stati Uniti e lavoravo con David Tholen. Io e lui, nelle notti precedenti, eravamo a Mauna Kea, alle Hawaii, e avevamo scoperto un candidato Near Earth Object (Neo, come si chiamano gli oggetti che passano vicino alla Terra e sono dunque anche potenzialmente pericolosi, ndr). Solo che la notte stava per finire e dovevamo andare all’osservatorio di Kitt Peak in Arizona nel giro di meno di 24 ore, perché avevamo lì un ciclo (run) di osservazioni. Quindi abbiamo fatto letteralmente una corsa; perché siamo andati a dormire alle 6:30-7:00, ci siamo riposati un’ora o due, abbiamo preso la macchina, poi l’aereo e siamo arrivati in Arizona che era già quasi sera. Lì c’era un nostro collega, Roy Tucker (1951-2021), che si era già preparato, in quanto volevamo cercare di riosservare lo stesso candidato per vedere se fosse un oggetto interessante oppure no. Non lo abbiamo più trovato; ma nello stesso campo visivo è apparso invece Apophis.

Apophis Scoperta
La foto della scoperta di Apophis nel 2004 (Foto F. Bernardi).

Era il 19 giugno 2004, vent’anni fa. Abbiamo continuato le osservazioni anche la notte successiva, ma a quel punto in Arizona sono arrivati i venti alisei, quindi il cielo si è coperto e abbiamo dovuto interrompere le osservazioni. Casualmente il maltempo è arrivato anche a Manua Kea, poi Apophis si è spostato verso sud, dove c’erano pochi telescopi, quindi per alcuni mesi se ne sono perse le tracce. A dicembre, però, l’asteroide è stato riscoperto dai telescopi in Australia, a Siding Spring, e questo ha permesso – grazie ai due giorni di osservazioni iniziali – di ricostruire la sua orbita per un arco di 6 mesi. E ci si è accorti a quel punto che era un Neo, e che sarebbe passato molto vicino alla Terra il 13 aprile 2029.

Si è parlato perfino di pericolo di collisione con la Terra. I timori erano fondati?

A mano a mano che arrivavano le informazioni, la probabilità di collisione – invece di scendere come fa nel 99,99% dei casi – aumentava. Ed è aumentata fino ad arrivare quasi al 3%. Erano i giorni di Natale del 2004, e non se ne è parlato molto perché in quel periodo c’è stato lo tsunami in Indonesia, quindi i media erano focalizzati su quello. Nel frattempo, però, le ricerche andavano avanti. E così, guardando negli archivi di Spacewatch, una survey statunitense, gli astronomi hanno trovato tracce di Apophis che permettevano di determinare l’orbita con più precisione. A quel punto è stato possibile calcolare che, per fortuna, il 13 aprile 2029 Apophis passerà molto vicino alla Terra, ma non impatterà.

Una volta ho fatto una stima: se consideriamo due persone che sono distanti 15 metri l’una dall’altra, con una che rappresenta il Sole e l’altra la Terra, il passaggio di Apophis è come se una persona facesse una carezza all’altra a 2 mm dal suo volto. L’asteroide ci sfiorerà, arriverà a lambire le orbite dei satelliti geostazionari, ma senza toccarci.

Perché si chiama Apophis?

È stata un’idea del mio supervisore, David Tholen. Nella versione ufficiale dei fatti, i nomi degli asteroidi che passano vicino alla Terra devono seguire alcune regole. Quindi Apophis è il nome di una divinità egizia associata all’oscurità e al male. In realtà, Tholen seguiva con passione una serie televisiva che si chiamava Stargate. E nella serie c’è un personaggio malvagio che si chiama Apophis.

Come possiamo immaginarcelo? Che aspetto ha?

Esistono già delle rappresentazioni in 3D di come è fatto Apophis, proprio perchè nel tempo ci sono stati alcuni passaggi ravvicinati che hanno permesso di effettuare osservazioni radar precise. In pratica, possiamo immaginarlo come un sasso, dalla forma irregolare ma con un diametro di circa 370 metri. Le sue dimensioni, quindi, sono tali che se cadesse sulla Terra rilascerebbe più di 800 megatoni di energia, quanto basta per devastare totalmente un’area come il Nord Italia. Anche per questo è stato l’unico oggetto che per ora ha raggiunto il valore 4 della Scala Torino, una scala di valori che misura la pericolosità degli asteroidi.

Di che materiale è fatto?

Sono stati fatti studi di caratterizzazione fisica, dai quali risulta che Apophis è un oggetto di classe S. Quindi ci aspettiamo che sia un asteroide roccioso, sicuramente non è ferroso ed è più friabile di un oggetto metallico; ma è molto più solido di una cometa.

Fabrizio Bernardi
L’astronomo Fabrizio Bernardi (foto F. Bernardi).

Perché è importante studiarlo?

Apophis è una grandissima opportunità che la natura ci ha dato, perché è grande e passerà molto vicino a noi. Questo permette, con costi relativamente bassi e tempi relativamente brevi, di poterci avvicinare e vedere come è fatto e come si comporta nel suo passaggio vicino alla Terra. Ci sono alcuni fenomeni che ancora non sono ben conosciuti, come gli effetti mareali (simili a quelli, appunto, che generano le maree) della Terra sull’asteroide. Gli effetti mareali tendono a deformare l’asteroide, creano sollecitazioni meccaniche che la missione Ramses cercherà di studiare; per capire se ci sono frane, terremoti, assestamenti. E questo è anche un altro modo per capire come l’asteroide è fatto internamente, qual è la sua struttura geologica.

Interessa anche l’aspetto di difesa planetaria?

No. Apophis non è pericoloso. Ne siamo sicuri, perché ormai conosciamo bene l’orbita. La conosciamo talmente bene da poter dire con estrema confidenza che di qui ai prossimi 100 anni, ma probabilmente anche i prossimi 2-300 anni, Apophis passerà di tanto in tanto vicino alla Terra; ma senza pericolo di collisione. E proprio per questo non è il caso di modificarne l’orbita. Però c’è da dire anche che Apophis è un tipo di asteroide molto comune: capire come si comportano questi oggetti anche internamente ci permetterà in futuro di valutare meglio anche cosa fare, quali azioni di mitigazione prendere, nel caso in cui uno di essi dovesse risultare in rotta di collisione con la Terra.

Sei un po’ orgoglioso di averlo scoperto?

Sì. Ed è per me un po’ strano pensare che tra qualche anno – ormai ne mancano pochissimi, quando lo scoprimmo sembrava così lontano – avremo l’opportunità di vederlo non solo al telescopio ma anche a occhio nudo. E questo è un evento unico, che io sappia, di asteroidi che possono essere visti anche a occhio nudo.

Link e approfondimenti

Il sito dell’Esa dedicato ad Apophis e alla missione Ramses.
• La nuova missione Hera dell’Esa, con il satellite (cubesat) dedicato ad Andrea Milani.
• Il sito della Nasa dedicato alla difesa planetaria.

L’uomo che cammina sullo Stretto di Messina

Il ponte sullo Stretto è un filo che si svolge per 3.646 metri tra il pilone di Santa Trada nei pressi di Reggio Calabria e il pilone di Torre Faro a due passi da Messina. L’unico al mondo in grado di attraversarlo è Jaan Roose, un atleta estone di 32 anni con un passato da stuntman e da appassionato di parkour. Ora è lì, su quel filo provvisorio detto slackline, una fettuccia larga appena 1,9 cm, sospeso a oltre 200 metri di altezza, che avanza inesorabile con le braccia aperte per aiutarsi a tenere l’equilibrio.

Lontano

Vederlo camminare tra mare e cielo, con le spadare e le altre barche che gli passano sotto, a distanza, lascia chiunque lo guardi con il fiato sospeso. Si soffre e si vince con lui, quando le riprese mettono in evidenza il viso accalorato, il fiato che manca, il passo incerto in corrispondenza delle discontinuità della slackline, che è costituita da tanti pezzi attaccati tra loro. Senza l’aiuto dei droni, dalla terraferma e dalle barche dei pescatori lo si distingue appena, tanto minute sono le sue dimensioni rispetto all’impresa che sta compiendo: conquistare passo dopo passo una distanza superiore alla lunghezza di 30 campi di calcio, oppure – se si preferisce – di 9 giri completi di una pista d’atletica olimpica.

Jaan Roose
Jaan Roose, mentre attraversa lo Stretto di Messina (Foto A. Zaffaroni / Red Bull Content Pool).

A piccoli passi

«Quello che davvero mi attrae dello slacklining è che c’è un obiettivo, e che per raggiungerlo ci vuole un sacco di lavoro fatto di piccoli passi», mi aveva detto nel corso di un evento dedicato ai giornalisti, pochi giorni prima. Ricordo i suoi occhi azzurri, magnetici, puntati su di me. Gli ho chiesto se praticasse la meditazione, considerando che nelle sue performance è obbligato a tenere alta l’attenzione per un periodo di tempo molto lungo. «Dipende che cosa si intende la meditazione», aveva risposto. «Per me significa dormire». A ribadire l’importanza che ha per lui arrivare alla data della sfida ben riposato, idratato, nutrito… insomma, nelle migliori condizioni possibili. Nel corso dello stesso evento, qualcuno gli ha chiesto se conoscesse il progetto di un ponte sullo Stretto di Messina. «L’unico ponte che conosco è la slackline che sto costruendo», ha risposto con un sorriso.

Jaan Roose
Jaan Roose durante la preparazione della traversata (Foto Red Bull Content Pool).

Passo falso

Ormai Jaan è quasi arrivato. Ma a due passi dalla conquista, di fronte al pilone di Torre Faro, in un punto in cui l’inquadratura del drone lo mostra di fronte a una salita che sembra impossibile da superare, ecco che il campione fa un passo falso e scivola. Resta sospeso per un attimo al cavo di sicurezza. Si tira su, si siede, beve, si rialza e si rimette in cammino. Il record mondiale è sfumato; per superarlo, avrebbe dovuto completare il percorso senza macchia. Ma lui sembra già un altro, ora è chiaro che ce la farà. Sarà il primo ad attraversare lo Stretto di Messina a piedi.

Perdersi e ritrovarsi

«15.650 passi», sono le prime parole che dice quando, terminata l’impresa, si siede sul traliccio di Torre Faro con un operatore che lo intervista. «È incredibile. È un viaggio così lungo. Mi sono perso nel mezzo: ho cominciato a sentirmi come se fossi all’inizio, perché il punto d’arrivo sembrava ancora così lontano».

Link e approfondimenti

• La biografia di Jaan Roose sul sito di Red Bull e il video della traversata.
Un’infografica animata che spiega l’impresa.
• Gli articoli di Andrea Parlangeli su Focus.it che raccontano l’incontro con Jaan Roose e la traversata.

I misteri delle particelle fantasma

I più grandi misteri dell’universo sono legati alle più piccole particelle della materia. Tra queste, le più sfuggenti e le meno conosciute sono certamente i neutrini. La loro esistenza fu dedotta teoricamente nel 1930 dal fisico austriaco Wolfgang Pauli, uno dei padri della meccanica quantistica, e fu dimostrata in via definitiva nel 1956. Importanti i contributi di Enrico Fermi, Ettore Majorana, Bruno Pontecorvo e Nicola Cabibbo

Tra tutte le particelle, i neutrini sono i campioni della leggerezza: si muovono praticamente alla velocità della luce e hanno una massa non nulla, ma piccolissima. A questa scoperta hanno contribuito in modo determinante due premi Nobel, Takaaki Kajita e Arthur McDonald, rispettivamente con gli esperimenti Super-Kamiokande in Giappone e Sudbury Neutrino Observatory in Canada. Li abbiamo incontrati alla conferenza Neutrino2024 organizzata dall’Università Milano-Bicocca.

Che cosa sono i neutrini?

Per rompere il ghiaccio ed entrare nell’argomento, siamo partiti dalla più semplice delle domande: che cosa sono i neutrini? «Sono particelle prive di carica, che viaggiano quasi senza interagire con la materia», risponde Kajita in modo laconico. Kaijta è un uomo snello e dinamico. Di poche parole, ma preciso nell’esposizione. Potremmo definirlo “zen”. Più elaborata è la risposta di McDonald: «Neutrini, elettroni e quark sono, per quanto ne sappiamo oggi, le particelle più piccole nelle quali potremmo scomporre tutto il resto della materia. I quark, a gruppi di tre, formano protoni o neutroni, a seconda di come li si combina. Protoni e neutroni, che hanno carica elettrica positiva e neutra rispettivamente, si trovano all’interno dei nuclei atomici. Gli elettroni, invece, girano attorno ai nuclei atomici e hanno carica elettrica negativa. I neutrini sono particelle insolite che nascono solo quando un quark si trasforma in un altro quark. Ciò che accade in alcuni casi nelle sostanze radioattive; ma è molto importante soprattutto nelle reazioni nucleari che alimentano il Sole». I neutrini, però, sono difficili da osservare, perché attraversano la materia come fantasmi. «Potrebbero attraversare un anno luce di piombo, con solo il 50% di probabilità di essere fermati. E così passano dal nucleo del Sole, senza ostacoli, e attraversano la Terra fino ai nostri rilevatori», dice McDonald.

Fotomoltiplicatore
Un fotomoltiplicatore per rivelatori di neutrini. In un rivelatore sono presenti molti di questi elementi (Kamioka Observatory, ICRR – Institute for Cosmic Ray Research, The University of Tokyo).

Scoperta da Nobel

A questo punto, lo scienziato ricorda le ricerche che lo hanno portato al Nobel nel 2015: «Mi sono dedicato allo studio dei neutrini dal 1984. Nel momento in cui abbiamo iniziato il nostro esperimento, erano stati misurati i neutrini del Sole ed erano 3 volte inferiori rispetto ai calcoli. C’erano due possibilità. O i calcoli o l’esperimento erano sbagliati, oppure i neutrini potevano cambiare da uno dei 3 tipi che sappiamo esistere in uno degli altri due tipi. Solo i neutrini elettronici, come li chiamiamo, vengono prodotti nel Sole, e questo è esattamente il tipo che era stato rilevato in passato (le altre due tipologie sono quella dei neutrini muonici e quella dei neutrini tauonici, ndr). Nel nostro esperimento, abbiamo avuto l’opportunità di osservare non solo i neutrini elettronici nello specifico, ma anche tutti e 3 i tipi sommati insieme. E abbiamo potuto stabilire che, in realtà, ciò che limitava gli esperimenti precedenti era il fatto che i neutrini stavano cambiando da un tipo all’altro».

Il mistero della massa

Gli studi di McDonald e Kajita hanno dimostrato, insomma, il fenomeno delle “oscillazioni dei neutrini”, cioè il fatto che queste particelle si trasformano da un tipo all’altro. Le osservazioni, inoltre, mostrano che la massa dei neutrini è molto piccola. «È di molti ordini di grandezza inferiore a quella delle altre particelle», osserva Kajita. «Quindi pensiamo che i neutrini non ottengono la loro massa nello stesso modo delle altre particelle, attraverso il cosiddetto meccanismo di Higgs. Devono farlo in modo completamente diverso».

Takaaki Kajita
Il premio Nobel Takaaki Kajita (Foto courtesy T. Kajita).

Che cosa genera, dunque, la massa dei neutrini? La domanda è ancora senza risposta. Qualche ipotesi, però, si può fare. «Potrebbe essere un meccanismo detto Seesaw (In italiano, “altalena”)», dice Kajita. «In base questa ipotesi, dovrebbe esistere qualche particella simile al neutrino ma estremamente pesante. E poiché queste particelle sono molto pesanti, di conseguenza i neutrini osservati sono molto leggeri». 

C’è poi un’altra questione importante. Le oscillazioni dei neutrini osservate finora consentono, in realtà, di misurare solo le differenze di massa tra i diversi tipi di particelle. «Ci sono attività in corso per determinare direttamente la massa», spiega Kajita, «mediante il decadimento beta degli elettroni. Altre informazioni importanti dovrebbero arrivare dal decadimento beta doppio senza neutrini e dalla cosmologia».

Il mistero dell’antimateria

I neutrini possono essere anche la chiave per spiegare un altro mistero dell’universo: l’assenza dell’antimateria. «Attualmente nel cosmo ci sono solo particelle di materia, nessuna di antimateria», dice Kajita. «Ma non capiamo perché sia così. Subito dopo il Big Bang, quando l’universo era molto caldo, pensiamo che ci fosse un numero uguale di particelle di materia e di antimateria. Poi, quando l’universo si è espanso e si è raffreddato, particelle e antiparticelle si sono incontrate e si sono annichilate, scomparendo. Ma ovviamente sappiamo che non sono scomparse del tutto: sono rimaste alcune particelle di materia. Dobbiamo capire perché ciò sia accaduto. Forse i neutrini hanno giocato un ruolo molto importante in questo meccanismo». Per capirne di più, ci sono due grandi progetti in preparazione, lo statunitense Dune e il giapponese Hyper-Kamiokande. Il loro scopo è osservare le oscillazioni di neutrini e di antineutrini, e vedere se ci sono differenze. «I neutrini sono i migliori candidati conosciuti per comprendere il motivo per cui abbiamo un universo dominato dalla materia», ribadisce McDonald. 

McDonald
Il premio Nobel Arthur McDonald nel Sudbury Neutrino Observatory (SNO), in Canada (Foto Queen’s University, courtesy of A. McDonald).

Madre terra

Cogliamo infine l’occasione per chiedere ai nostri interlocutori che cosa pensino del rapporto tra arte e scienza, e se abbiano avuto esperienze interessanti in proposito. «Una volta abbiamo collaborato con un museo d’arte in Canada e abbiamo sponsorizzato una mostra d’arte (progetto Drift: Art and Dark Matter)», risponde McDonald. «È stato molto interessante per me rendermi conto di come ti vedono gli altri. Tra gli artisti, c’era un’indigena canadese che si è concentrata sul fatto che l’area dove avevamo il nostro laboratorio, una ex miniera, era significativa per il suo popolo, che si connetteva con la natura in un modo molto diverso da noi. Anche loro, come noi, cercavano di capire la natura; ma lo facevano attraverso un contatto molto più diretto con la Madre Terra e con il Sole. Loro sono molto più preoccupati per il loro ambiente di quanto lo siamo noi, e in realtà penso che abbiano ragione». 

FauxBear
Il tentativo di osservare l’invisibile, nell’interpretazione che l’artista Michael Faubert (@fauxbear) ha presentato in occasione di un evento dedicato ad arte, scienza, materia oscura e neutrini, in particolare alle ricerche di Arthur McDonald e dei suoi collaboratori (Foto courtesy Michael Faubert, @fauxbear) .

Neutrini zen

L’intervista sembra ormai chiusa, ma McDonald ha un ultimo guizzo. «Hai mai letto Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta?», mi chede. «Robert Pirsig negli anni ’70 scrisse questo libro molto complesso. Ma il nocciolo della questione è che, in realtà, certamente c’è una differenza tra le persone che si avvicinano alle cose da una prospettiva zen e le persone che sono capaci di mettere a punto una motocicletta. Ma se si tratta veramente di un’opera d’arte di valore, o di una motocicletta ben messa a punto, la qualità di entrambe può essere apprezzata da persone con competenze diverse. Questo vale anche per la scienza e per l’arte. Quel che conta è la qualità di ciò a cui si lavora, e certamente da parte mia posso apprezzare la qualità in una buona orchestra, per esempio».

Link e approfondimenti

• La pagina del sito del Premio Nobel dedicata a Takaaki Kajita e Arthur McDonald.
• Il sito di Super-Kamiokande.
• Il sito del Sudbury Neutrino Observatory e del progetto Drift.
• I libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (Adelphi). 

Ma dov’è l’inizio?

A volte la grande storia ci passa accanto, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. È quello che sembra essere successo al Quotidiano di Lecce, oggi Quotidiano di Puglia sezione di Lecce, riguardo a un’intervista al matematico Ennio De Giorgi che pubblicò il 6 gennaio 1996 e che oggi è citata da tutti i quotidiani nazionali e da moltissimi siti, perché è stata ripresa in una delle tracce degli esami di Maturità. È interessante andare alla fonte.
Ricordiamo brevemente che Ennio De Giorgi (1928-1996) è stato uno dei più grandi matematici del ’900, noto per aver risolto il 19mo problema di Hilbert, uno dei problemi del secolo, e per le sue profonde intuizioni soprattutto nel campo dell’analisi matematica. È nato a Lecce, ha fondato una ricca scuola di allievi alla Normale di Pisa, ha avuto una fede incrollabile e si è battuto strenuamente in difesa dei diritti umani.
La frase, comparsa nelle tracce di matematica era: «All’inizio e alla fine abbiamo il mistero. (…) A questo mistero la matematica ci avvicina, senza penetrarlo».
La frase proviene da Wikipedia Italia, che la usa come citazione, e nella sua interezza recita così «All’inizio e alla fine abbiamo il mistero. Potremmo dire che abbiamo il disegno di Dio. A questo mistero la matematica ci avvicina, senza penetrarlo».
Fine della storia? Per niente. Ci si dovrebbe chiedere, infatti, da dove arriva questa affermazione. La fonte – al 23 giugno 2024 – non c’è su Wikipedia, né nei tanti articoli che sono stati scritti finora. La fonte originaria è un’intervista di Anita Preti a Ennio De Giorgi, pubblicata dal Quotidiano di Lecce il 6 gennaio 1996. L’intervista è riportata nel libro Ennio De Giorgi – anche la scienza ha bisogno di sognare (Edizioni Plus, Pisa).
Nell’intervista, Anita Preti riporta una frase dello scrittore Elias Canetti (1905-1994): “Volevo cominciare dall’inizio, ma dov’è l’inizio?”
In realtà la frase di Canetti, nella traduzione italiana pubblicata da Adelphi, è “Voleva cominciare proprio dall’inizio. Dov’è l’inizio?” (Appunti, 1942-1993).
Ad ogni modo, De Giorgi risponde così: “È il mistero della creazione. All’inizio e alla fine abbiamo il mistero. Potremmo dire il disegno di Dio. A questo mistero la matematica ci avvicina. Si avvicina ma non ce la fa penetrare” (riporto letteralmente, con i probabili refusi, dal libro). Da notare che si tratta di un’intervista pubblicata su un quotidiano, quindi le parole usate da De Giorgi potrebbero essere state adattate, così come sono certamente adattate le parole su Wikipedia.
Fatto sta che ora, complice la più che lodevole iniziativa del ministero, un po’ tutti ne hanno parlato. Tutti tranne, a quel che mi dicono, proprio il Quotidiano di Puglia e le altre testate locali, che hanno ignorato la notizia. Eppure tutto è cominciato lì, a cominciare dal titolo dell’intervista, che poi è diventato il titolo del già citato libro, “Anche la scienza ha bisogno di sognare”. Ricordiamo che De Giorgi era nato a Lecce ed era molto legato alla città. I quotidiani in questo periodo sono presi dal tran tran della cronaca e delle elezioni locali. Ma le elezioni locali vanno e vengono, le parole di Canetti e quelle di De Giorgi sono ancora lì. A volte la grande storia ci passa accanto, e nemmeno ce ne accorgiamo.

Link e approfondimenti

• I libro Ennio De Giorgi – anche la scienza ha bisogno di sognare (Edizioni Plus).
La biografia Uno spirito puro – Ennio De Giorgi, genio della Matematica (Milella 2015, Springer 2019).

La nobile arte del silenzio zen

Seduto immobile di fronte a un muro, con gli arti dolenti per la postura che non posso cambiare, sto cercando qualcosa che forse non c’è. E se non c’è, è proprio perché la sto cercando, osserva Nicolas, la mia guida, riportando le parole di Kodo Sawaki: “Tu non cerchi la strada, è la strada che cerca te”. E allora è meglio lasciarsi andare, liberare la mente da ogni pensiero, anche dal dolore, e attendere che “qualcosa” accada, gratuitamente, senza che si sappia cha cosa sia quel “qualcosa” di cui apparentemente nulla si può dire. Si sta qui, ora, come fiammelle di pura esistenza.

Saper perdere

Siamo nel tempio Fudenji di tradizione buddhista giapponese Zen Sōtō, nell’Appennino parmense tra Fidenza e Salsomaggiore Terme, in un sabato dedicato alla meditazione seduta zazen, che qui i monaci praticano tutti i giorni (il termine deriva da za, seduto, e zen). In occasioni come questa, il monastero apre le porte agli ospiti, per iniziarli alla nobile arte del silenzio. Il padrone di casa, il Taiten Fausto Guareschi, è una persona di grande ospitalità e curiosità intellettuale, con cui si può affrontare ogni discorso; ma diffida di chi si avvicina alla meditazione spinto da mera curiosità o, peggio ancora, da un interesse pratico come la ricerca di benessere o la via di fuga da uno squilibrio interiore. Per lui, lo zazen perde ogni senso se privato della sua componente spirituale, della spinta religiosa. Lo zazen non è niente di speciale, ammoniva Sawaki, è una postura che non cerca assolutamente niente. Dunque è inutile aspettarsi benefici di qualsivoglia natura, perché non c’è niente da guadagnare. “Il guadagno è delusione, la perdita è illuminazione”, insegnava il maestro.

“Tu non cerchi la strada, è la strada che cerca te”

Anticamera

Sono qui comunque per provare. Appena arrivato, Nicolas mi porta con due neofiti come me nell’anticamera del tempio, dove i monaci e altri ospiti più abituali stanno già meditando. Qui ogni minimo movimento ha un significato, e Nicolas si preoccupa di istruirci a dovere prima di farci varcare la soglia dello spazio sacro. Per questo, il primo ciclo di meditazione sarà nell’anticamera. Nicolas è un ragazzo di origini argentine che parla italiano con un forte accento spagnolo, a volte gli mancano le parole. Però è estremamente preciso, e non si dilunga in inutili dettagli. È subito chiaro che cosa dobbiamo fare: aggiustare il cuscino, sederci, adagiare prima la gamba sinistra con il piede contro il cuscino, poi il piede destro contro l’incavo interno del ginocchio sinistro. Busto eretto, collo dritto, lingua contro il palato, palpebre semichiuse e sguardo obliquo verso il basso. A questo punto bisogna liberare la mente e non pensare a niente.

In attesa

Lo zazen si distingue dalle altre forme di meditazione proprio per questo, perché va dritto al dunque. Nella meditazione yoga, per cominciare a liberare la mente in genere ci si concentra suelle varie posizioni e sul respiro. A volte si fa ricorso a un mantra, come Om o So Ham. Nella meditazione trascendentale, praticata tra gli altri da David Lynch, il mantra viene assegnato (a pagamento) dal maestro al discepolo. Nella meditazione zazen non c’è nulla di tutto questo. Nella stragrande maggioranza dei casi, bisogna solo sedersi nel modo prescritto e stare. Quello che deve arrivare arriva: “Tu non cerchi la strada, è la strada che cerca te”.

Di fronte a un muro

Ora sono stato promosso, dall’anticamera sono entrato nel tempio. Sto seduto di fronte a un muro, e sto così da qualche minuto. All’inizio va bene. Sono comodo, e cerco la consapevolezza. Non sembra, ma le variabili da controllare sono molte. La postura, che deve essere rilassata ma non cadente. Le palpebre, che devono rimanere socchiuse. Lo sguardo, che deve vedere e non vedere, senza indugiare sui dettagli dei mattoncini rossi a poche manciate di centimetri di distanza. La mente, che deve essere libera da pensieri, e se qualcosa passa, deve passare e andare, tornare nel nulla da cui è venuta. Il silenzio che si cerca qui è quello interiore.

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Lo spazio sacro del tempio, nel monastero zen Fudenji nei pressi di Fidenza.

Dolore e pensieri

Per qualche minuto fila tutto liscio. Sto bene, ho la sensazione di avere tutto sotto controllo. Per la mente silenziosamente vigile, le variabili da controllare sono tante: la postura, le palpebre, lo sguardo. Ma dopo un po’ riesco a farlo senza difficoltà, ritrovandomi in un flusso di lucidità, attenzione, consapevolezza, come capita a volte quando guido e mi sento perfettamente padrone della strada e di ogni possibile imprevisto che possa capitare, senza per questo pensarci più di tanto. Dopo un po’, però, arriva il dolore. All’inizio è solo una piccola staffilata al piede, più esattamente sul dorso del piede destro. La osservo e me ne libero. Ma il tempo passa sempre più lentamente e a un certo punto divento impaziente. Il piede mi duole e la gamba è completamente addormentata, devo essermi seduto male all’inizio e ora non mi posso più spostare. Se fossi a casa, mi alzerei immediatamente per cercare una posizione migliore, nella quale fermarmi anche un’ora. Ma qui, in mezzo ai monaci in uno spazio sacro, ogni minimo movimento pesa come un sacrilegio. E quindi provo a resistere con lo sguardo fisso al muro – ora gli occhi si sono spalancati, non ne posso più – e i pensieri più terribili che mi passano per la testa: starò facendo pressione su un nervo? Oppure avrò bloccato la circolazione sanguigna ostruendo un’arteria? Probabilmente si tratta di una compressione del nervo, e non è una cosa da nulla. Un amico medico mi parlò una volta della paralisi dell’amante e di quella del sabato sera. La prima che colpisce gli uomini che lasciano dormire la compagna sul proprio braccio, la seconda gli ubriachi che si addormentano con l’ascella appoggiata allo schienale della sedia, come avveniva soprattutto in passato. In entrambi i casi, il problema è dovuto a una compressione del nervo con danni spesso irreversibili.

Gong

Comincio ad avvertire una reazione vagale, in passato questo tipo di situazioni mi ha causato svenimenti. A un certo punto non ce la faccio più. Furtivamente, afferro il piede dolente con la mano destra e lo sposto dalla sua posizione. Fa male, molto male, anche se al tempo stesso quasi non lo sento. Appoggio la caviglia al ripiano su cui sono seduto, poi alzo il ginocchio in modo da allentare la tensione sui glutei e riattivare il nervo o la circolazione. Sento il calore che torna a fluire. Aspetto ancora qualche minuto. Poi, quando la situazione torna normale, mi rimetto nella posizione del loto. Ora va meglio, rientro nel mio silenzio e mi ci immergo più di prima. Potrei rimanere così a lungo, provo perfino un senso di piacere; ma a un certo punto avverto un fruscio. È Nicolas che esce dalla sua posizione, si alza e va a suonare il gong che indica la fine della sessione. Ora ci possiamo alzare. Mi giro verso destra, secondo le prescrizioni; e vedo il mio vicino irrigidito anche lui dalla postura, che si stira come se avesse un dolore alla schiena. Ognuno ha la sua, penso. Poi sistemo il cuscino come mi è stato insegnato e mi rimetto le scarpe, attendendo le prossime indicazioni.

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Un cartello nel monastero di Fudenji.

In (lento) cammino

Un cenno di Nicolas indica che è il momento del kinhin, la meditazione camminata. Dopo il tempo trascorso seduti, questa pratica è perfetta per rimettersi in movimento continuando a mantenere un elevato stato di attenzione e consapevolezza, se non di vera e propria meditazione. Si comincia a prendere la postura: si alza la mano sinistra fino allo sterno, si punta il pollice verso il basso e lo si avvolge con le altra dita, stringendo il pugno. Poi si avvolge la mano sinistra con la destra, a partire dal pollice che si posa sull’altro. Le mani sono staccate dal petto e si allargano i gomiti, in modo da rimanere leggermente in tensione, o meglio in attenzione, ma rilassati. Come per lo zazen, le palpebre sono chiuse per metà e gli occhi guardano in modo obliquo verso il basso, in modo da vedere e non vedere. Poi si fa un’inspirazione e si alza un piede, portandolo appena oltre la punta dell’altro. E si espira, facendo affondare il peso sul piede che è avanzato, pronti a ricominciare con il passo successivo. Così, lentamente, in modo controllato e sincronizzato con gli altri, si gira tutti insieme in senso orario, cercando idealmente di liberare la mente come in tutte le altre forme di meditazione.

Delicato equilibrio

Il kinhin è una pratica affascinante e benefica, ma riuscire a entrare in meditazione mentre si cammina richiede esperienza. A ogni passettino, a ogni minuscolo passo, ci si rende infatti immediatamente conto di quanto la nostra postura eretta sia il frutto di un delicatissimo equilibrio che si trasmette da un piede all’altro, e già questa consapevolezza può portare il neofita fuori dall’equilibrio, perdendo quella naturalezza del movimento che è un prerequisito indispensabile alla meditazione. Comunque sia, facciamo del nostro meglio e lentamente avanziamo, assorbendo con una consapevolezza nuova ogni minima sensazione provenga dal contatto dei piedi con il terreno, dall’esercitare o allentare una pressione. Sto imparando nuovamente a camminare.

Il ciclo continua

A questo punto capisco che la meditazione seduta e quella camminata sono due modi perfettamente complementari per raggiungere lo stesso risultato, l’una in modo statico, l’altra in modo dinamico. Entrambi sono due aspetti di noi, che la pratica zen punta a domare per farci raggiungere la piena consapevolezza. Così dopo il kinhin riprendiamo lo zazen, allo stesso modo in cui alle terme si alternano i bagni in acqua calda con quelli in acqua fredda. Il nostro corpo, per trovare l’equilibrio, sembra sempre aver bisogno di oscillare tra due estremi.

Oltre il dolore

E così, passando da zazen a kinhin e da kinhin a zazen, si entra in un altro ritmo che contribuisce anch’esso al raggiungimento di quella che è ritenuta la liberazione finale, il nirvana. Noi ci accontentiamo di meno. Tornato a sedere per la terza volta di fronte a un muro, cerco con cura di prendere una posizione che mi consenta di rilassarmi fino alla fine. Lì per lì sembra andar meglio, ma a un certo punto il dolore arriva e diventa ancora una volta insopportabile. Faccio uno sforzo estremo, opposto a quello che il corpo mi sta chiedendo, anzi urlando. Dovrei alzare la gamba e cambiare posizione; invece alla prima espirazione la rilasso, la abbandono e la dimentico. Non c’è più il dolore, non c’è più il pensiero, raffiche di calore mi attraversano riversandosi in un oceano senza confini. Quando la brezza scompare, resta la quiete. Il campo visivo è un orizzonte fuori dal tempo che separa il bianco dal nero, la luce dall’ombra, il giorno dalla notte, il caldo dal freddo, lo yin dallo yang, il nobile silenzio dal suono del gong.

Link e approfondimenti

• Il sito di Fudenji.
La serie di Josway dedicata alla meditazione di David Lumera.
• Il libro Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen (Ubaldini editore) di Shunryu Suzuki-Roshi.