Insegno l’apnea ai manager, e vi spiego perché

Quando ci immergiamo in apnea, il nostro corpo cambia. E anche il cervello si educa a gestire lo stress. Che cosa accade esattamente? Ce lo spiega un coach esperto in management, con il supporto di una neuroscienziata.

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Insegno l’apnea ai manager, e vi spiego perché

Quando ci immergiamo in apnea, il nostro corpo cambia. E anche il cervello si educa a gestire lo stress. Che cosa accade esattamente? Ce lo spiega un coach esperto in management, con il supporto di una neuroscienziata.

«L’apnea è uno sport, ma è anche una tecnica di allenamento mentale; perché l’acqua è un laboratorio in cui si può scoprire come reagisce il corpo quando si è sotto pressione, e come si possono superare le proprie rigidità di fronte a imprevisti e problemi». A pronunciare queste parole è Alessandro Vergendo, esperto in neuromanagement, facilitatore in risorse umane, formatore e coach. Per lui l’apnea è una passione, oltre che uno strumento di lavoro: perché, dopo averla usata per migliorare le prestazioni di atleti olimpionici di nuoto sincronizzato, campioni di snowboard e idoli della scherma, oggi se ne serve per migliorare la flessibilità cognitiva e la capacità di adattamento di manager e imprenditori.

Con calma

«Quando siamo pressati dagli eventi», spiega Vergendo, «diciamo che siamo “senza fiato”. Infatti, il nostro corpo reagisce a un eccesso di sollecitazioni attivando contratture inconsapevoli e consumando più ossigeno. Ecco perché i miei corsi iniziano con esercizi di apnea statica: mentre si sta fermi senza respirare, si impara innanzitutto a calmarsi, ad aumentare l’autoconsapevolezza fisica ed emotiva per consumare meno ossigeno».

L’istinto di resistere

Il limite da superare in acqua non è fisico, bensì mentale. E infatti, in piscina come nel lavoro, l’errore di chi è alle prese con una situazione ansiogena spesso non sta nella quantità di energie che dedica a fronteggiarla, ma nella rigidità dei suoi schemi mentali: «In genere i manager, di fronte alle complicazioni, tendono a “resistere” anziché a “stare”, ovvero a sopportare e a subire la tensione invece di riconoscere e controllare le proprie reazioni emotive», spiega Vergendo. «Con il risultato, alla lunga, di non riuscire più a rimanere concentrati; o di rovinare le relazioni in un team per eccesso di reattività».

Discesa guidata tramite una fune (A. Vergendo).

Il cuore rallenta, il sangue si sposta

L’apnea può essere utile per disattivare questi meccanismi. «Quando ci immergiamo, il nostro corpo ­– forse memore di un antichissimo passato acquatico della nostra specie – reagisce al diverso ambiente rallentando il battito cardiaco (che scende da 60-70 a 30-40 pulsazioni al minuto). È il riflesso d’immersione», spiega Vergendo. In più, si verifica un processo detto emocompensazione, o blood shift, che indirizza il sangue dalle zone periferiche del nostro corpo (mani, braccia, piedi, gambe) verso il tronco, mentre il volume polmonare diminuisce: a 10 metri di profondità, per dare un’idea, si dimezza.

Un evento di apnea estrema, Extreme Ice, che si è svolto nel 2021 ai laghi di Fusine (Udine) e ha avuto tra gli organizzatori Alessandro Vergendo. Il team ha stabilito il record di immersione sotto i ghiacci (50 secondi).

Profondità “impossibili”

Negli anni ’60 del secolo scorso, il medico francese Pierre Cabarrou, dopo aver fatto varie prove con un manichino, si spinse a sostenere che, proprio per effetto della pressione sui polmoni, sotto i 50 metri di profondità un essere umano sarebbe “imploso”. Tuttavia, nel 1962, quando l’italiano Enzo Maiorca raggiunse 51 metri di profondità, tutto il mondo scientifico capì che in questo ragionamento c’era qualcosa che non andava. Oggi siamo arrivati a immergerci a meno 214 metri (con un record non omologato a 250 metri di Herbert Nitch): «Sappiamo che, in contrasto con la riduzione del volume dei polmoni, a livello toracico cresce il volume del sangue, che passa da 1,2 a 2,4 litri alla profondità di -30 metri, perché aumenta il volume dei capillari che circondano gli alveoli polmonari», prosegue Vergendo. «A questa profondità e pressione il liquido resta incomprimibile: ecco perché non moriamo schiacciati». E mentre sulla terraferma i capillari non hanno grandi variazioni di dimensioni, in acqua si ingrossano veicolando una quantità di sangue tale da compensare il volume mancante. Inoltre, l’emocompensazione garantisce un costante afflusso di ossigeno ai due organi principali, cuore e cervello, che così non subiscono danni.

 

 

Discesa con l’ausilio di un peso (A. Vergendo).

Ritrovare la consapevolezza

Oltre all’aspetto fisiologico, l’apnea determina anche mutamenti neurofisiologici. In genere, quando una persona è sotto stress, attiva alcuni meccanismi automatici di reazione perché il cervello ha poca energia e risponde per schemi. L’apnea, al contrario, insegna a sviluppare una risposta volontaria, consapevole e controllata. Ed è proprio questo che torna utile anche fuori dall’acqua, quando occorre controllare l’ansia o ricorrere alla capacità di concentrarsi a lungo. Per di più si tratta di abilità che, a differenza di altre, con il giusto allenamento migliorano con l’età: lo confermano i record del mondo di apnea, registrati da campioni come Herbert Nitsch e Umberto Pellizzari dai 30 anni in poi. «L’esercizio e la maturità aumentano l’autoconsapevolezza e la capacità di leggere le situazioni», commenta Vergendo.

Come nel grembo materno

In più, oltre alla consapevolezza sul respiro che si attiva anche quando per esempio facciamo yoga, l’acqua ci consente di riattivare funzioni poco praticate. Michela Balconi, docente di neurofisiologia e scienze cognitive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, spiega: «L’immersione in un ambiente liquido ha una componente ontogenetica, ci fa rivivere cioè la condizione primordiale in cui ci trovavamo nel grembo materno. Nel nostro cervello ci sono aree dedicate a elaborare determinate sensazioni, che restano disattivate quando facciamo affidamento sulla vista e sull’udito, come capita nella vita di ogni giorno. Invece sott’acqua il cervello deve far ricorso ad altre sensazioni. Ritrova così, per esempio, il senso della propriocezione, cioè la consapevolezza dei segnali che il nostro corpo ci dà su se stesso e che si riferiscono alla pressione percepita, alla temperatura, alla postura. Quando si è in apnea, il cervello lavora su registri sensoriali in genere messi in secondo piano e progressivamente si allena a mantenere la regia dei segnali corporei anche fuori dall’acqua, quando deve controllare l’ansia o mantenere a lungo la concentrazione».

Andando sott’acqua, insomma, si finisce per conoscersi… nel profondo.

Elisa Venco

 

Link e approfondimenti

• Il sito di Alessandro Vergendo.
• La piscina più profonda del mondo. Fino a poco tempo fa era in Italia.

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