Il coro perfetto? È nella foresta

Siamo stati nella Sonosfera, un ambiente ideato per ricreare al meglio il paesaggio acustico delle foreste equatoriali, le più ricche di biodiversità. E abbiamo incontrato David Monacchi, l'autore del progetto, che ci ha raccontato le sue motivazioni e le sue emozioni nel realizzarlo.

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Il coro perfetto? È nella foresta

Siamo stati nella Sonosfera, un ambiente ideato per ricreare al meglio il paesaggio acustico delle foreste equatoriali, le più ricche di biodiversità. E abbiamo incontrato David Monacchi, l'autore del progetto, che ci ha raccontato le sue motivazioni e le sue emozioni nel realizzarlo.

Si entra ed è come varcare la soglia di una macchina del tempo che ci riporta a emozioni antiche di milioni di anni, quanto eravamo una specie come le altre nel coro dei viventi. Ma siamo nel cuore di Milano, nella Sonosfera allestita da David Monacchi nel Cortile d’Onore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione del Salone del Mobile. Tra le tante opere effimere della design week milanese, la sua si distingue come un’esperienza che lascia il segno, perché nasce dalla tenacia e dalla passione che solo i pionieri conoscono. E già in quanto tale è unica al mondo. 

Testimonianze

Così, quando nel ventre della sfera si spengono le luci, ci ritroviamo nel crepuscolo della foresta del Borneo, la più antica del pianeta. Si comincia con il basso continuo delle rane, dei grilli e delle cicale; poi subentrano gli uccelli. Quindi si passa all’Amazzonia, e sembra di sentirla più giovane, come in effetti è, con le vocalizzazioni di rospi, rane, scimmie, caimani. Infine siamo in Africa, nel bacino del Congo, dove la scena appare subito più dinamica per il passaggio di grandi mammiferi come elefanti e forse mandrilli, oppure scimpanzé. Ne percepiamo la presenza e il movimento, come se fossero lì. Ma al momento della magia segue quello della denuncia, con una sfilza di dati che documentano in modo inequivocabile la devastazione portata dall’uomo con il suo impatto sul clima e sugli ecosistemi. Perché queste registrazioni hanno anche valore di documento, testimoni di una meraviglia che tra non molto rischia di non esserci più.

Trailer del documentario “Dusk Corus” (2018), che racconta il progetto “Fragments of Extinction” di David Monacchi.

L’intervista

Quando usciamo, ancora frastornati da ciò che abbiamo vissuto, un’altra emozione ci attende. Di fronte a noi c’è un uomo gentile e riservato, con una folta barba brizzolata. È David Monacchi, l’autore dell’installazione e delle registrazioni acustiche. Quasi sorprende a vederlo qui, nella civilissima Milano, con abiti eleganti e l’aspetto curato. Ma a lui sta a cuore seguire lo spettacolo dalla cabina di regia e parlare con il suo pubblico, carpirne le reazioni. La sua è una storia davvero fuori dal comune.

Lei viene dal mondo della musica, come è nata l’idea di andare nelle foreste a registrare suoni?

È una passione che è nata subito, quando ho cominciato a studiare composizione in conservatorio. In quel periodo ho avviato le prime campagne d’ascolto e di registrazione nei boschi dell’Italia Centrale. Eravamo intorno al 1990-91, e ho cominciato con i primi registratori digitali. Fin da subito non ero interessato ai singoli versi degli animali, ma all’intero paesaggio sonoro. 

Quanto ha influito questa esperienza sui suoi studi sulla composizione?

Gradualmente, questa attività ha sostituito la composizione stessa, perché trovavo alcuni sistemi d’ordine che non era il caso di manipolare. E quindi in questo senso, durante l’arco di almeno un quindicennio, mi sono tolto del tutto come mano creativa da ciò che registravo. 

David Monacchi 1
David Monacchi durante le registrazioni nella foresta del Borneo (Foto Alex D’Emilia).

Come è passato dalle foreste dell’Italia Centrale a quelle equatoriali?

Nel 1998 ho letto un articolo di Edward Osborne Wilson che mi ha molto colpito. Parlava di una possibile sesta estinzione di massa, causata dall’uomo. All’epoca ero un attivista di Greenpeace e avevo appena concluso un master alla Simon Fraser University, in Canada, nel gruppo di Murray Schafer dedicato al World Soundscape Project. In quelle notti di dicembre misi insieme le mie competenze di ingegneria del suono e di composizione elettroacustica con il mio interesse per gli habitat forestali. Ed è così che è nato questo progetto, con il suo titolo, Fragments of Extinction. Mi è stato immediatamente chiaro che se in habitat antropizzati da tanto tempo come quelli dell’Italia Centrale si potevano rintracciare sistemi d’ordine, allora chissà che cosa poteva succedere ad accendere un microfono in una foresta primaria mai toccata dall’uomo, dove la biodiversità è molto più ampia e molto più antica. Quell’intuizione è stata confermata viaggio dopo viaggio. La prima volta che ho aperto un sistema di registrazione tridimensionale in Amazzonia nel 2002 ho capito che la mia vita sarebbe cambiata. 

Qual è lo scopo principale delle sue campagne di registrazione?

Voglio creare un archivio sempre più ampio di paesaggi sonori dei diversi ecosistemi, basato su un protocollo di registrazione tridimensionale per 24 ore continue. Più che allo studio scientifico del suono, sono interessato alla patrimonializzazione dei cicli circadiani di questi luoghi antichissimi ed estremamente biodiversi, a beneficio delle generazioni future. Allo stesso tempo, fin dall’inizio ho sentito il bisogno di condividere le esperienze e le emozioni che provavo con il pubblico più ampio possibile, e per questo ci voleva uno spazio apposito. Per questo ho creato la sonosfera. 

Un altro momento nella foresta del Borneo (Foto Alex D’Emilia).

Come è stato il suo primo impatto con la foresta amazzonica?

È stato molto forte. La prima notte, alle cinque e un quarto di mattina, mentre dormivo nella mia amaca in una posta sul Rio Negro, arrivarono – come lì accade tutte le mattine – le scimmie urlatrici. Vocalizzavano in tre gruppi da tre settori diversi della foresta, era un concerto di rumore bianco modulato, una cosa stupenda. E per me fu tanta l’eccitazione che tirai fuori il microfono in modo impulsivo, nel buio misi le pile al contrario e bruciai il preamplificatore. Per fortuna bastò cambiare alcuni fusibili e non ci fu bisogno di tornare a Manaus; ma quella registrazione saltò e ci rimasi un po’ male. 

E qual è stata l’emozione più forte?

La sera dopo, quando aprii i microfoni sul coro del crepuscolo nella foresta allagata. Fu incredibile. Mi trovai di fronte a centinaia di specie che vocalizzavano contemporaneamente in una specie di orgia acustica. Non era organizzata, in quel caso era una festa. Era proprio una festa. L’Amazzonia è una foresta relativamente giovane rispetto ai paleotropici del Sudest asiatico. Pertanto, quello che scoprii dopo nel Borneo mi fece rendere conto di quanto in realtà ogni foresta abbia la sua firma, che è data appunto da vari elementi: la biodiversità, l’evoluzione, l’età, l’habitat, la stagione, sebbene all’Equatore tutti i cicli circadiani siano uguali. Hanno sempre 12 ore di notte e 12 ore di giorno, quindi i ritmi acustici delle specie sono estremamente regolari. Ed è per questo che con Fragments of Extinctions abbiamo lavorato sempre all’Equatore, per documentare la regolarità di questi sistemi.    

Link e approfondimenti

Andrea Parlangeli
Andrea Parlangeli è fisico (PhD) e giornalista, caporedattore del mensile Focus. Appassionato di scienza, tecnologia e innovazione, nel 2019 ha conseguito un Executive MBA presso il MIP/Politecnico di Milano. Ha scritto diversi libri, tra cui Uno spirito puro. Ennio De Giorgi, genio della matematica (Milella 2015, Springer 2019) e Viaggio all’interno di un buco nero (StreetLib, 2019). È stato curatore di La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli 2016) di Guido Tonelli, sulla scoperta del Bosone di Higgs; La musica nascosta dell’universo (Einaudi 2018) di Adalberto Giazotto, sulla scoperta delle onde gravitazionali ; Benvenuti nell'Antropocene (Mondadori, 2005) del premio Nobel Paul Crutzen, padre del termine "antropocene" .

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